18 Agosto 2023
Sono passati più di 500 giorni da quando il primo carro armato T-90 con una "Z" bianca dipinta sul fianco ha attraversato il confine russo-ucraino, ma ad oggi non è ancora chiaro quali i termini e quali le tempistiche perchè si possa vedere le parti coinvolte sedute ad un tavolo. Nebulosa la collina che Mosca intende conquistare prima di parlare di pace, mutevole la linea rossa oltre la quale Washington non intende far operare Kiev. Solo le intenzioni ucraine sembrano chiare, la riconquista di tutti i territori perduti, Crimea compresa, ma sembra sempre più evidente che nessuno, tanto tra i nemici (chiaramente) quanto tra gli alleati, abbia molta voglia di incedere lungo quel sentiero.
Una guerra particolare, quella in corso, la prima "non asimmetrica" al mondo dopo decenni, modernissima sotto certi punti di vista, e tragicamente ottocentesca sotto altri. Materia di studio per gli analisti militari di tutto il mondo, accorsi in fretta e furia già dal febbraio scorso nella piana sarmatica per capire come si fa, nel terzo millennio, una guerra vera e propria. Uno studio che non ha mancato di sorprendere molti strateghi, da entrambi i lati della nuova cortina di ferro, con la rivelazione della tutt'ora invidiabile efficienza che tattiche militari credute ormai defunte, o per lo meno sulla via del tramonto, continuano in realtà a vestire.
Una scoperta che ha permesso a non pochi eserciti di rendersi conto della propria impreparazione ad affrontare un conflitto moderno, se mai (la speranza viaggia in questi casi sempre sulla corsia del "no") dovesse scoppiare. Tra le principali, inattese, caratteristiche del conflitto contemporaneo apprese in Ucraina, la fondamentale funzione dell'artiglieria. Quella che si credeva essere una sempre più anacronistica arma dei romantici tempi che furono, si scopre oggi godere di ben più invidiabile salute della cugina cavalleria (quella moderna, senza equini, ma con mezzi gommati e cingolati).
Spezzati nelle prime settimane i sogni russi di blitzkrieg e di rapidi movimenti su autostrade e campi deserti, macinando centinaia di chilometri ogni giorno, il mondo ha scoperto, come nel 1914, che nel momento in cui forze simili nei numeri, nell'addestramento, nell'armamento e nelle tattiche, si trovano faccia a faccia, non servirà molto tempo prima che le parate sotto gli archi di trionfo lascino spazio allo scavo di trincee. Il contesto ottimale, per l'artiglieria.
Un problema, però, si pone. La Russia può contare su un complesso militare industriale rodato, pur con molti difetti, oltre che sui continui rifornimenti da parte di un Paese che della dottrina di difesa basata sull'artiglieria ha fatto il proprio vademecum, passando gli ultimi decenni a riempire i magazzini di munizioni di vario calibro, la Corea del Nord. Per l'Ucraina non è così. Le sue scorte di epoca sovietica sono state quasi completamente consumate all'inizio del conflitto per bloccare l'avanzata russa nell'entroterra del Paese. La missione è riuscita, ma ha lasciato le sue forze armate affamate di rifornimenti. A questo punto, quindi, sono subentrati gli alleati occidentali del patto atlantico, con il patron americano in prima fila. L'intervento a piè pari delle filiere produttive occidentali sembrava poter garantire la buona riuscita di quella svolta al conflitto battezzata come "controffensiva di primavera".
Eppure, nel giro di poche settimane ci si è resi conto di qualcosa di inaspettato. Le analisi, la preparazione, gli studi del settore della Difesa in Europa e al di là dell'Atlantico, avevano negli ultimi 30 anni completamente frainteso l'immagine delle guerre del futuro. Diretta conseguenza, non solo quelli ucraini, ma anche i magazzini Nato si stanno svuotando. Una questione di primaria importanza, che a Washington comincia a scivolare dalle discussioni dei corridoi e degli uffici del "palazzo" fino alla piazza della pubblica opinione.
"Ogni singola mattina siedo nel mio ufficio e spendo personalmente almeno 30 minuti a studiare la questione delle munizioni da 155 mm (munizioni di artiglieria di grosso calibro, ndr.)", aveva rivelato poche settimane fa Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza Nazionale dell'amministrazione Biden, considerata una delle figure più influenti della politica estera statunitense: "Stiamo attivamente lavorando il più in fretta possibile per dare vita ad un'efficiente linea di produzione di munizioni da 155".
Secondo l'ex generale di Brigata Guy Walsh, interpellato dal Financial Times, l'errore commesso negli ultimi decenni dalle forze armate Usa sarebbe stato quello di concentrare la propria dottrina sull'arma sbagliata: "Prima del conflitto in Ucraina, la maggior parte del focus dell'esercito era rivolto alla produzione di munizioni per le brigate di carri".
Non a casa, stando a quanto riportato da un report pubblicato dal think tank Center for a New American Security, con sede a Washington, negli ultimi dieci anni il Pentagono avrebbe acquistato appena 790mila munizioni da 155 (in questa fase del conflitto Kiev starebbe sparando mediamente 8mila munizioni di vario calibro al giorno, un ritmo che se dovesse continuare sugli stessi numeri si tradurrebbe in quasi 3 milioni di proiettili all'anno). Di queste, continua lo studio, buona parte sarebbe stata destinata ad esercitazioni di tiro, la quasi interezza del restante, invece, sarebbe finita all'esercito ucraino.
La scarsità di stock Usa, sarebbe, secondo molti osservatori, la causa dietro la molto discussa decisione di inviare a Kiev le ormai famigerate "munizioni a grappolo": nessuna particolare ragione strategica, solo l'impossibilità a mandare altro. Perché altro non c'era. Riporta Mark Cancian, consulente senior del Centro per gli Studi Strategici ed Internazionali di Washington: "Non abbiamo anticipato e non eravamo pronti ad una guerra di lunga durata, l'efficienza della base industriale era limitata".
Gli Stati Uniti starebbero quindi investendo grandi risorse nella riconversione del proprio sistema produttivo: ai quattro siti industriali attualmente impegnati nella fabbricazione di munizioni da 155 mm (in Pennsylvania, Tennessee, Virginia e Iowa) dovrebbero entro il 2025 aggiungersene altri cinque (in Canada, Texas, Arkansas, Kansas e, un altro, in Iowa). Obbiettivo manifesto, portare la produzione entro quell'anno dalle 24mila mensili attuali (all'inizio del conflitto in Ucraina erano 14mila) a 90mila.
Un progetto certamente impegnativo, la triplicazione di una produzione strategica in meno di due anni, ma che sembra essere sempre più nelle corde degli interessi diretti americani (oltre che ucraini), scopertisi pericolosamente scoperti là dove non avrebbero mai pensato di esserlo: nella possibilità non solo di fare, ma di sostenere una guerra. Un pericolo percepito che porta in dote all'amministrazione Biden un'importante gatta da pelare, quella di un'opinione pubblica sempre più contraria alla continuazione del sostegno a Kiev.
Secondo l'ultimo sondaggio disponibile sul pensiero degli americani riguardo agli aiuti militari all'Ucraina, riportato il 14 agosto dalla CNN, il 55% degli statunitensi ritiene che quanto fatto negli ultimi 500 e passa giorni per il Paese europeo sia sufficiente e sarebbe ora il momento di chiudere i rubinetti dei rifornimenti, concentrandosi così sul riassestamento delle proprie capacità materiali.
Nonostante, tuttavia, il 62% dei Democratici sostengano lo sblocco di nuovi fondi per Kiev da parte del Congresso, Biden sa che con l'avanzare dei mesi (e gli apparentemente scarsi risultati della controffensiva) quella cifra è facile immaginare che continuerà a scendere. Non può quindi permettersi, lui e la sua amministrazione, di evitare di tenerlo in considerazione mentre ci si avvicina non solo alle elezioni presidenziali di midterm del 2024, ma anche alle primarie del suo partito, più vicine e contornate da voci "cortesemente sempre più critiche" nei confronti del suo operato. Lasciare sguarnita la sicurezza nazionale a favore degli interessi di un Paese straniero, per quanto amico e per quanto utile, difficilmente sarebbe perdonato al, per adesso, inquilino della Casa Bianca.
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