24 Luglio 2023
Si è svolta la prima votazione al parlamento israeliano della ormai famigerata riforma della giustizia promossa dal governo Netanyahu. Riforma che ha molto polarizzato il dibattito pubblico del Paese, inaugurando 30 settimane fa una lunga scia di proteste sostenute dalle aree più secolarizzate della società e culminate in questi giorni nella marcia di 80mila manifestanti su Tel Aviv, oggi accampatisi di fronte alla Knesset. Il voto si odierno si è concluso con 64 favorevoli alla riforma su 120. La prima parte, quindi, è passata.
Ha preso il via oggi, in una Tel Aviv blindata, l’iter delle votazioni che dovranno concludersi con l’approvazione, o il respingimento, della riforma della giustizia con la quale il premier Netanyahu e l’esecutivo intendono riorganizzare la struttura dei rapporti di potere tra i vari organi dello Stato. Riforma già di per sé complicata in un Paese “normale”, è decisamente esplosiva in una realtà come quella israeliana, dove le differenze identitarie persistenti in numerosi strati della comunità nazionale rischiano di uscire pericolosissimamente acuite dal voto di oggi.
Diversi gli elementi di cambiamento che la riforma introdurrebbe, riassumibili nel concetto di “depotenziamento della Corte Suprema - il più importante organo giudiziario del Paese - a favore dell’esecutivo”. Se il concetto semplice, tuttavia, incontra discreti favori tra la popolazione (lo strapotere della Corte Suprema è un tema da tempo discusso), ad alienare buone percentuali della cittadinanza dalla riforma sono alcuni, precisi, dettagli.
Tema scottante, il criterio di “irragionevolezza”, strumento attraverso il quale qualsiasi tribunale ha il potere di sottoporre a controllo giurisdizionale le decisioni governative, di fatto bloccandole. Chiaramente una leva di grandissima influenza sui poteri dell’esecutivo - tra l’altro non normata, non avendo Israele una Costituzione – che non a caso ha fissato per oggi, prima giornata di votazioni della riforma, l’approvazione della sua abolizione. Abolizione, dunque, confermata.
Altra fonte di grandi divisioni, la clausola di annullamento, probabilmente la parte della riforma che più di tutte infiamma le piazze di Tel Aviv. Secondo questa modifica, al parlamento sarà sufficiente una maggioranza semplice di 61 deputati sui 120 totali per ribaltare le sentenze della Corte Suprema inerenti annullamenti o modifiche di leggi. Di fatto qualsiasi maggioranza di governo, denunciano gli oppositori della riforma.
Numerose le voci contrarie, dentro e fuori il Paese (negli ultimi giorni anche Biden aveva invitato Netanyahu ad attendere un appoggio popolare maggiore prima di indire la votazione), che stanno radicalizzando diversi settori della società israeliana. Tra i contrari, soprattutto gli abitanti delle città costiere più progressiste, in particolare Tel Aviv, Haifa, Netanyhau, che individuano nella Corte Suprema e la sua indipendenza un alfiere del mantenimento di un’inclinazione occidentalizzante.
In contrapposizione alle città costiere, ed a favore della riforma, gli ultranazionalisti alleati di Netanyahu e rappresentanti gli interessi dei coloni al di là della Striscia (chiaramente sostenitori dell’espansionismo ad est) nonché degli ultraortodossi ashkenaziti, sempre meno a proprio agio con numerosi aspetti della galoppante cultura liberal d’oltreoceano e favorevoli all’idea di un isolazionismo ebraico nella terra d’Abramo, lontano dai richiami del mondo e chiuso nella propria ortodossia.
Per quanto quelli favorevoli alla riforma siano gruppi minoritari nella società israeliana (ma non troppo) la loro capacità demografica è impressionante e nel giro di due generazioni saranno l’assoluta maggioranza del Paese. A loro si rivolge la riforma ed è a loro che il governo chiede l’appoggio.
Di fondamentale importanza, e non a caso da molti osservatori sottolineata, è poi la contrarietà alla riforma da parte delle forze armate, forse fino ad oggi il principale collante della popolazione (ancor più della religione, abbastanza zoppicante nelle città costiere). Nelle ultime settimane si sono rincorsi gli appelli di decine, centinaia, di militari (ufficiali e non) ad un passo indietro da parte del governo. Domenica 23 luglio, poi, almeno 10mila riservisti hanno dichiarato che avrebbero interrotto il proprio impegno volontario nella difesa territoriale, nel caso la legge passasse.
A preoccupare non poco il Ministro della Difesa Yoav Gallant (già di suo molto tiepido nei confronti della riforma, motivo per cui alcuni mesi fa era stato cacciato dal governo salvo poi, a causa della sua grande popolarità tra i ranghi militari, essere richiamato poche settimane dopo “in servizio”) è in particolare la diffusione della posizione anti-governativa tra le fila dell’aeronautica, con circa 500 tra piloti e tecnici informatici, gli assi portanti della sicurezza di un Paese che ovunque si affacci vede nemici, che hanno già annunciato il rifiuto a continuare a prestare servizio in caso di approvazione.
Nonostante il timore di Gallant, il governo tira dritto, come conferma un comunicato di fonti dell’esecutivo riportato da Channel 12: “La posizione del governo e della coalizione è inequivocabile. I colpi maggiori alla sicurezza e alla democrazia in Israele si verificherebbero se il governo si piegasse ai diktat di unità militari”.
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