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Tim e Generali, è tutta questione di (buona) governance

Il capitalismo «dei salotti» è nemico della meritocrazia, dice il saggista Roger Abravanel. Che analizza le due grandi battaglie recenti, il Leone e l’ex Telecom. E conclude: serve un board indipendente dal management. E presidenti autorevoli che facciano dimenticare le cordate

27 Maggio 2022

Roger Abravanel

fonte: Imagoeconomica

È stato ed è uno dei superconsulenti, italiano e internazionale. Ha partecipato a consigli tra le maggiori società globali e italiane. È considerato uno dei maggiori esperti di governance. Oltre a essere editorialista del Corriere della Sera. E proprio in un articolo sull’Economia del Corriere dello scorso 7 febbraio Roger Abravanel ricordava che nel suo ultimo saggio, «Aristocrazia 2.0 le nuove elite per cambiare l’Italia», il capitalismo familista e dei «salotti» era tra i responsabili della nostra cronica stagnazione economica. Assieme, va detto, ad altri due nemici della meritocrazia: le università che rifiutano la competizione e la magistratura più autoreferenziale d’Europa. Un capitalismo che, secondo Abravanel, aveva distrutto valore.

«Si pensi alle due maggiori battaglie societarie degli ultimi mesi in Italia: Tim e Generali che non escono benissimo se messe a confronto con i loro competitor internazionali — spiega Abravanel —. E per questo non mi ha affatto meravigliato l’assistere alle battaglie anche azionarie delle quali sono state oggetto le due aziende». 

Come valuta l’evoluzione tre mesi dopo? Sta ascendo quel capitalismo meritocratico che lei auspica da anni almeno in due grandi imprese private o stanno semplicemente cambiando i «salotti»?

«Iniziamo da Tim. L’Offerta pubblica di acquisto del fondo infrastrutturale americano Kkr non è andata avanti probabilmente perché il consiglio di amministrazione non l’ha accolta favorevolmente, comportandosi come molti cda all’estero che decidono di “autoscalarsi” quando sonosotto offerte ostili. Ha così cambiato l’amministratore delegato e avviato la separazione della rete. Oltre che le trattative con Cassa depositi e prestiti (azionista di Tim e Open fiber) per mettere assieme le due reti, che era
quello che voleva fare Kkr. Quest’ ultimo, essendo anche azionista della rete, non può che essere contento di
questo breakup da lui stesso avviato con il tentativo di Opa».

Ma allora perché il titolo ha perso anche rispetto al valore pre-Opa? 

«Per l’incertezza. Il deal con Open Fiber è in fase di trattativa e sarà importante capire che tipo di implicazioni avrà per gli azionisti di Tim e che tipo di breakup verrà fuori. Non è ancora chiaro qual è il valore di ciò che resterà dopo lo scorporo della rete né il potenziale per aumentarlo. Stiamo parlando di tutte le attività di service e, in particolare, del business consumer: che se da un lato vanta un brand molto forte e una forte presenza in Brasile, dall’altro non è considerato un modello di eccellenza operativa in termini sia di costi che di servizio.
Purtroppo ciò avviene in un mercato della telefonia mobile italiano che è più competitivo e frastagliato di altri, per la presenza di troppi operatori. Sembra che la nuova leadership abbia chiara l’enorme trasformazione necessaria nell’operatività e la crescita in settori adiacenti al consumer — ha già iniziato con la partnership con Dazn sui servizi Internet — e business». 

Allora la strada è stata imboccata... 

«Sì, ma si tratta di sfide epocali perché richiedono strategie aggressive di outsourcing e di customer operations, e crescita in settori dove ci sono competitor molto forti come Sky. Ce la può fare una Tim “orfana” dell’oligopolio-rendita di posizione della rete, seppure sgravata di molto del debito che si porta dietro dai tempi delle privatizzazioni del capitalismo familista italiano? O sarà necessario cedere l’ultimo “gioiello” — il Brasile — e cercare una fusione con un operatore concorrente sul mercato italiano? Gli azionisti aspettano risposte su questi temi da un cda che sembra avere reagito bene al tentativo di scalata da parte di Kkr e che sono certo stia lavorando per dare una risposta. Ma la situazione resta incerta e i risultati poco brillanti della trimestrale non hanno aiutato a ridurre l’incertezza». 

Sarà anche epocale come sfida, ma Kkr era pronto ad affrontarla… Veniamo a Generali: il numero uno è stato confermato e così anche il piano. Ha vinto la lista del cda, in forte continuità quindi con la governance precedente. Non è un buon momento, vista la situazione geopolitica, per prendere spunti dall’andamento del titolo… 

«In mezzo a tante cose che non conosco, una mi è chiara. Se si continua a parlare di “vincitori “ e “ vinti”, alla fine l’unico perdente sarà l’azienda, con gli azionisti e il personale. Se la battaglia continuerà all’interno del cda su fronti giuridici e formali, sarà un vero disastro. Non sarà facile fare la pace dopo tanta guerra e inevitabilmente gli animi non saranno predisposti a un dibattito costruttivo. Un modo possibile potrebbe essere quello di aprire nel nuovo cda un dibattito sulla strategia e sull’evoluzione della leadership, che prenda il meglio dei due piani presentati agli azionisti. Sarà essenziale il metodo che verrà seguito per allineare tutti i membri del cda e il management. Il primo passo sarà concordare obiettivi e visione riguardo alle quattro direzioni chiave evidenziate da entrambe le cordate».

E quali sono queste linee guida?

«Schematicamente: 1) la crescita nell’asset management; 2) la riduzione della dipendenza dal “vita” tramite
crescita nei danni; 3) lo sviluppo fuori dall’Italia; 4) la trasformazione digitale delle operation. Con essi una
strategia di fusioni e acquisizioni, ma anche di dismissioni di business meno in linea con la strategia di crescita.
Incidentalmente, questi obbiettivi sono molto simili a quelli che sto vivendo in un altro cda di una assicurazione all’estero e che hanno guidato strategie ed execution degli ultimi tre anni, alla fine dei quali il management ha ottenuto risultati straordinari portando in titolo a più che raddoppiare in Borsa».

Detto così sembra facile, ma il compito dei due cda sembra molto difficile. Non per nulla tre mesi fa sostenne che dipendeva tutto dalla qualità della governance, dai membri del board e dal ruolo dei presidenti. Ciò che è avvenuto in questi mesi lo conferma? 

«Non ho modo di commentare dall’esterno i comportamenti dei due consigli d’amministrazione,uno dei
quali peraltro si è appena insediato. Confermo che la chiave sarà la leadership dei presidenti che dovranno in
primis assicurarsi che i membri dei cda dimentichino le loro appartenenze a una o l’altra cordata o all’azionista dominante e pensino tutti come consiglieri “indipendenti”, con un’unica bandiera: quella della azienda. Peraltro questo è solo il primo passo, perché i consiglieri dovranno essere anche “indipendenti” dal management, dovranno avere un proprio punto di
vista sulle proposte di strategia e sulle diverse decisioni. È la cosa più difficile e solo i migliori cda sono in grado
di “sfidare” in maniera costruttiva un management molto più informato di loro, che peraltro li inonda di centinaia di grafici e presentazione in power point, spesso difficili da capire. Il tempo del cda è speso quasi
sempre sulla compliance e raramente viene fuori qualcosa di diverso da ciò che viene proposto. Spesso i verbali sono preparati in anticipo».

Lei è stato ed è tutt’ora nei board di società quotate al Nyse, Lse, Nasdaq, Tase (Tel Aviv). Ha avuto esperienze positive in cui consiglieri «sfidanti» hanno convinto il management su scelte rivelatesi poi un successo?

«Purtroppo ne ho tantissime negative, perché anche all’estero non sono sempre rose e fiori. Ma qualche esempio positivo l’ho. In una grande azienda quotata alla Borsa di New York, il management europeo aveva proposto un’acquisizione in Germania. Il presidente non era convinto e pensava che il target migliore fosse un’altra azienda, più difficile da acquistare ma con un migliore fit strategico. Mi chiese di farmi una mia opinione andando qualche giorno in Germania a parlare con il team locale
e con i consulenti. Non lo sapevo, ma aveva fatto la stessa domanda a un altro consigliere. Entrambi concordammo che l’altro target era decisamente meglio e, forse, meno difficile da acquistare con il giusto advisor. Ci fu un dibattito acceso e informato
con il management che alla fine accettò e realizzò brillantemente la acquisizione (quattro miliardi di euro)
e si rivelò un successo».

Tutto bello ma un po’ utopico… Come fa un consigliere a sfidare un management 100 volte più informato sulle problematiche di business?

«Ha ragione, è molto difficile e spesso fallisce. Ma le assicuro che anche solo avviare il dibattito contribuisce al processo decisionale ed è comunque molto apprezzato dagli azionisti. Ho vissuto personalmente il caso di una gigantesca acquisizione di un’altra azienda che si rivelò un grave errore e portò a cause miliardarie contro il cda e il management. Ma il semplice
fatto che qualche consigliere fosse stato critico sull’operazione — e i verbali erano lì a testimoniarlo – si rivelò
una difesa legale molto efficace».

Non sembra un percorso facile, soprattutto in aziende quotate. 

«In una grande azienda quotata è tutto più difficile, ma possibile se ci sono tre condizioni: 1) i membri del cda sono responsabili individualmente (o all’interno di un comitato) e non come un gruppo, inoltre sono dotati di un forte spirito critico e indipendenza sia da chi li ha sponsorizzati, sia dal management (la competenza si dà per scontata): quando devono
essere riconfermati devono essere valutati individualmente su queste caratteristiche dal Comitato nomine; 2)
l’amministratore delegato accetta di informarli non solo durante le sedute del consiglio e apprezza la loro sfida
senza mettersi sulla difensiva e considerarli suoi “nemici”; 3) il presidente è il vero leader del cda e organizza il
funzionamento in modo che litigi sulla forma e carte bollate non abbiano il sopravvento sul business».

In Generali non sembra che i primi passi del cda siano all’insegna della «pace». È già ripartita la battaglia sul comitato strategico che il nuovo presidente sembra volere abolire. Che cosa ne dice?

«Non conosco la situazione, mi sembra però che non si trattasse di un vero “comitato strategico”, ma di un comitato per l’M&A (le operazioni di acquisizione o fusione, “comitato per le operazioni strategiche”). Nella mia esperienza l’M&A deve seguire una
strategia definita che va elaborata con il consenso di tutti, management e cda . Il comitato strategico può essere utile soprattutto se c’è bisogno di creare consenso e se l’amministratore delegato gode della fiducia di tutto il board. Se lo si utilizza, bisogna stare attenti che non diventi quello il board di serie A e che il vero cda non diventi di serie B. È un comitato consultivo
del cda. Nella società assicurativa di cui sopra, il comitato strategico (di cui faccio parte) ha partecipato alla stesura del piano (assieme all’amministratore delegato, al management e a un consulente strategico) che dopo tre mesi è stato condiviso in un offsite di un weekend con tutto il cda ed è diventato poi la base su cui si sono fatte le M&A e le dismissioni e definito le
metriche strategiche su cui si controllava il management.

Di Daniele Manca per Il Corriere della Sera

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