09 Novembre 2025
Camillo Capolongo è stato un esponente di spicco della poesia ultra/parola, uno spettacolare movimento artistico, originato alla fine degli anni Settanta dallo spirito eretico di Emilio Villa, Nanni Balestrini, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli, Luca Castellano e mi fermo qui perché la lista è lunga, a partire da un’onda lunga di decostruzione di un sistema espressivo e poetico delle arti della modernità, facendo compiere un passo definitivo, al cammino cominciato certamente dal cubismo e dal futurismo, deflagrato poi nel Cabaret Voltaire, risalente alla lontana ad un “certo” Courbet e poi traslato, con un lungo volo fino a Picasso, Duchamp, Schoenberg, a tutti i “poemi da gettare”, ai tanti oggetti recuperati per “fine vita”, a quelli recuperati dalla spazzatura. Da quel momento, tutto è stato investito da un torrente di gestualità, tanto colta e raffinata, nella sua radice emozionale e teorica, quanto deflagrante, apocalittica, nella sua azione concreta, che ha chiamato a raccolta, spiriti strutturalmente eretici, assolutamente inadatta fare sistema, da Ben Vautier, con la sua scrittura autoreferenziale e differenziale, a Spoerri, con le sue tavole post prandium, un vero monumento al consumo e alla dissipazione, a Beuys, guru di parte occidentale, rituale del feltro e del grasso animale, a Chiari, musicista blasfemo e raffinato, interprete dell’impossibilità, a Nam J. Paik, medialista, moltiplicatore della ridondanza e dell’ossessione mediale, a Claudio Costa, sempre in bilico, sulla soglia del disastro, della ruggine e del disordine, a colloquio con le radici dionisiache della follia. E non si ferma qui, il delirium dell’originale, nel suo percorso di Sisifo, nella conclamata perdita dello stile, nella riduzione anacronistica della qualità, impigliata nella rete inesorabile del sistema della moda, per una bellezza inedita, legata al patto col diavolo, nel segreto di Dorian Gray, miticamente nascosto da una porta che non si deve aprire.
È così che la poesia multimediale, da movimento è diventato endemia, della cultura di crisi e della provvisorietà, inesorabile, in discesa, anche nel linguaggio comune, fino a coglierne il grado zero, nell’eclettismo, nella contaminazione, nei generi, nelle tecniche, che oggi inglobano tutto o quasi, video, internet, foto, in un grande multi medium espressivo, senza fermarsi mai, neanche davanti alle lusinghe del mercato (sulla cui trasformazione in atto, mi propongo di tornare) neanche davanti alla soglia della storicità e della storia, che non hanno scadenze precise e sono perennemente porose. Su questo palcoscenico, virtuale e reale, fatto di tutto e fatto di niente, si presenta Camillo Capolongo, all’ombra del Vesuvio, nelle nere terre di Roccarainola, su cui può calare il nero fumo, di mezzanotte, anche quando è mezzogiorno. Un suo “match” real/fantastico, a colloquio con la logica matematica, un monologo intessuto di punti e di virgole, colto come un’anomalia, che non trova relax, sempre in conflitto, con le ombre incombenti della banalità, a cui Camillo (così si firma l’artista) oppone una ben smisurata trincea dell’ironia, della comicità, dell’etimologia, che può stordire, ma può anche fare pensare, fino a fare scoppiare i cervelli pigri, avvezzi ai luoghi comuni e alle cose scontate. Camillo Capolongo non ripete mai, è un Paganini dal passo lento e dal guizzo intelligente, che recita, improvvisa, facendo un uso diverso di materiali diversi, componendo opere aperte, le cui trame parlano della sua eterna giovinezza, e non si lascia abbindolare dal tempo che passa, sempre pronto al gioco, sempre pronto a mettersi in gioco, in un serpentone d’itinerario che lo porta alle soglie dell’enigma, a marcare una grande diversità, tanto per marcare un’eterna giovinezza, nata rovistando nelle macerie della periferia ed ora approdata al mercato dell’intelligenza, della trasgressione, della fantasia.
Di Pasquale Lettieri
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