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Pier Paolo Pasolini e il fascismo dolce della società del consumo: la profezia tragica e inascoltata di un poeta senza patria

Pier Paolo Pasolini è stato molte cose: poeta, romanziere, regista, polemista, corsaro. Ma ciò che forse più di ogni altra lo definisce è una parola antica e desueta: profeta

07 Ottobre 2025

"Le tue parole erano veridiche e precise come un compasso, il peccare non significa fare il male", l'omaggio a Pier Paolo Pasolini

"Le tue parole erano veridiche e precise come un compasso, il peccare non significa fare il male", l'omaggio a Pier Paolo Pasolini Fonte: Istituto Luce

Pier Paolo Pasolini è stato molte cose: poeta, romanziere, regista, polemista, corsaro. Ma ciò che forse più di ogni altra lo definisce è una parola antica e desueta: profeta. Non nel senso mistico o escatologico del termine, ma in quello più politico, più tragico: Pasolini è stato colui che ha visto ciò che altri non volevanoo non potevanovedere, colui che ha detto l'indicibile, anche quando questo significava scavare una fossa nella propria credibilità presso gli ambienti progressisti a cui, almeno all’apparenza, apparteneva. Spesso celebrato, quasi feticizzato, dalla sinistra culturale italiana, Pasolini è invece un pensatore irregolare, radicale, perfino scomodo proprio per quegli ambienti che oggi lo venerano post mortem. Nella sua opera – letteraria, cinematografica, giornalistica – non troviamo infatti un’adesione ideologica pacificata, ma un dissenso perenne. Contro tutto e contro tutti: contro la borghesia, contro il capitalismo, ma anche contro il progressismo vuoto, l’antifascismo retorico, il femminismo modaiolo, la liberalizzazione dei costumi e la falsa libertà del consumismo. E proprio il consumo – inteso non come mero atto economico, ma come modello culturale totalizzante – è il nemico più pericoloso, il vero nuovo fascismo secondo Pasolini. Il suo grido più lucido e disperato lo si ritrova in articoli come quello apparso il 9 dicembre 1973 sul Corriere della Sera, in cui l’autore mette in parallelo la repressione fascista, dura ma inefficace, e quella del nuovo potere edonistico, dolce e pervasivo. La differenza? Il fascismo voleva imporre un modello ideologico, ma la società profonda – contadina, popolare, plebea – resisteva. Il consumismo, invece, penetra le coscienze, colonizza l’inconscio, impone modelli culturali non con la forza, ma con la seduzione.

Il fascismo che non si vede

«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi», scriveva Pasolini. Parole che oggi suonano ancora più vere, alla luce dell’iperconnessione digitale, del dominio algoritmico dei social, dell’omologazione imposta non più da uno Stato autoritario, ma da una rete apparentemente libera e democratica. Pasolini ha visto, con decenni di anticipo, la deriva verso cui ci stiamo dirigendo: una società in cui la libertà è solo apparente, in cui la ribellione è una merce tra le altre, in cui la soggettività è un involucro facilmente riempibile di contenuti prefabbricati. La genialità tragica di Pasolini sta proprio nell’aver compreso che l’oppressione più efficace è quella che non si presenta come tale. Laddove il fascismo storico suscitava opposizione perché visibile, il nuovo potere del consumo – che non a caso lui definiva repressivo in modo tollerante – vince perché non si presenta come nemico. Ha, anzi, il volto rassicurante del desiderio soddisfatto, della libertà d’acquisto, della molteplicità delle scelte. Ma ogni scelta è finta, ogni desiderio è preconfezionato. «La tolleranza dell’ideologia edonistica è la peggiore delle repressioni della storia umana», scriveva ancora.

L’anticonformismo diventato moda

Forse nessun altro intellettuale ha compreso così a fondo il meccanismo attraverso cui il sistema ingloba le proteste, le ribellioni, i segni stessi del dissenso. Emblematico è l’esempio – anch’esso tratto da un articolo del ’73 – dei capelli lunghi portati dai giovani come simbolo di rivolta. Per Pasolini, non appena questo gesto si è diffuso e istituzionalizzato, ha perso il suo significato originario. La moda ha sostituito la contestazione. Il ribelle è divenuto funzionale al mercato. L’alternativo è diventato mainstream. È l’eterna parabola dell’anticonformismo che, una volta riconosciuto, diventa conformismo di massa. E qui Pasolini sfonda una porta ancora oggi chiusa per molti: quella della critica interna al progressismo. La sua denuncia, lucidissima, è che la cultura di opposizione – quando si lascia incantare dalla visibilità, dalla moda, dal linguaggio mediatico – non solo perde efficacia, ma diventa complice del sistema che dice di combattere. È una diagnosi impietosa e sempre attuale, se si guarda a certi circuiti dell’attivismo sociale, dove ogni lotta è accompagnata da hashtag, influencer e sponsorizzazioni.

Pasolini e il cinema: dal realismo al mythos

Se questa è la visione antropologica e culturale di Pasolini, essa si riflette in modo coerente anche nella sua opera cinematografica. Non a caso, il suo passaggio dalla letteratura al cinema non è una fuga né un vezzo da intellettuale sperimentale: è un gesto politico. Pasolini stesso lo dichiarò: rinunciare alla lingua italiana – alla letteratura – per adottare il linguaggio cinematografico significava rinunciare alla nazionalitàborghese e accedere a un’espressione più diretta, più viscerale, più reale. Fare cinema era, in questo senso, un atto rivoluzionario. Ma il realismo pasoliniano non è mai naturalismo. È piuttosto un realismo tragico, profondamente mitico. In film come Accattone e Mamma Roma – opere prime che riscrivono le regole del Neorealismo – la vita del sottoproletariato romano non è solo documentata: è elevata a destino, a tragedia. Non a caso Pasolini adotta uno stile pittoricista, inserisce arie di Bach e Vivaldi, doppia i suoi attori non professionisti con le voci di attori affermati: non per dissimulare, ma per trasfigurare. Come se volesse gridare: guardate queste vite marginali, guardatele come guardereste una tragedia greca. È questa l’operazione più radicale di Pasolini: non dare voce agli ultimi, ma dare mito agli ultimi.

Il cinema come poesia

Negli anni, Pasolini elabora una vera e propria teoria del cinema di poesia, opposto al cinema di prosa del racconto classico. Il suo modello è quello del discorso libero indiretto romanzesco, ma tradotto in immagini. Non più soggettiva o oggettiva, ma uno sguardo misto, dove autore e personaggio si fondono. Questo è visibile nei suoi film più visionari, da Edipo re a Medea, dove la razionalità occidentale si scontra con la sacralità del mondo arcaico, e dove il viaggio – topico, rituale, iniziatico – diventa struttura narrativa, ma anche forma politica: cercare l’altrove, l’altro mondo, fuori dal tempo e fuori dal capitalismo. Perfino la celebre trilogia della vita – apparentemente più giocosa e “carnale” – non è altro che una risposta corporea alla società repressiva. Ma è proprio il successo commerciale di questi film a segnare la rottura: Pasolini ne prenderà le distanze, consapevole che anche il piacere, anche la liberazione sessuale, possono essere strumentalizzati. Da qui nasce Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo film più cupo, dove la rappresentazione del potere assoluto, sadico, totalitario non è più mediata dal mito, ma messa in scena nel suo orrore puro. È la negazione di ogni speranza. È la morte della poesia.

Una lezione inascoltata

Pasolini è morto nel 1975, assassinato in circostanze mai del tutto chiarite. La sua morte – come la sua opera – è diventata anch’essa oggetto di narrazione, di mito, persino di consumo. Ma ciò che ci resta davvero di lui è la voce. Una voce disturbante, che non consola, non pacifica, non media. Una voce che denuncia, che giudica, che smaschera. E che, proprio per questo, è ancora necessaria. Il vero problema non è se Pasolini avesse ragione. È che aveva troppo ragione, troppo presto. E come ogni profeta, è stato ucciso – culturalmente e fisicamente – perché aveva osato dirlo. E allora, se vogliamo rendergli giustizia, dobbiamo fare una cosa soltanto: rileggerlo.

 

Di Riccardo Renzi

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