28 Giugno 2025
Martin eden Fonte: Rizzoli
In un’epoca come la nostra, in cui l’io è spettacolo, esibizione, apparire privo di reale presenza, progetto, narrazione, performance; in cui il successo è l’unica legittimazione possibile del valore; in cui ogni esistenza sembra dover dimostrare la propria eccezionalità sui palcoscenici sociali della visibilità continua, Martin Eden risuona come una campana funebre. Ci dice che l’Io, se idolatrato fino al delirio, implode su sé stesso. Che nessun talento è sufficiente a colmare la fame d’amore, il bisogno di senso, la necessità del legame. Che l’individuo, lasciato solo con la propria grandezza, muore di vertigine. Martin Eden è il romanzo che ci ricorda l’inabitabilità della vetta, la freddezza della cima.
Martin Eden è ambientato nell’America dei primi del ‘900. Il protagonista del libro conduce una vita da marinaio rocambolesca e avventurosa, frequentando ambienti proletari e crescendo quasi allo stato brado, ma ha in fondo al suo animo una squisita sensibilità, un acuto spirito di osservazione e fantasia fervida; componenti che prendono respiro quando in un atto di auto-emancipazione giunge a leggere e compulsare freneticamente libri di ogni genere e a interessarsi alle più svariate materie del sapere... Come primo passo acquisisce i rudimenti della grammatica e un lessico più ampio, il suo metodo è stento, scomposto e asistematico, ma diviene, passo dopo passo, sempre più consapevole e mirato. Egli mostra una volontà di ferro nel dirozzarsi e coltivare per sé un’istruzione, e presa familiarità con la lettura, legge di tutto in modo famelico: saggi di politica e sociologia, romanzi, poesia, riviste letterarie, articoli di giornale... Acquisisce insomma una cultura da autodidatta trasversale e velleitaria, da principio, ma che diverrà col trascorrere del tempo e dei suoi sforzi, sempre più profonda e centrata.
L’anello mediano tra la sua condizione precedente e quella dischiusa dall’approccio alla cultura è l’amore per una ragazza dell’alta borghesia che aveva conosciuto di persona avendo salvato suo fratello da un’aggressione. Ben presto Martin comincia a sognare di poter conquistare le sue attenzioni imparando un linguaggio forbito, vestendo meglio, osservando l’ambiente sociale della ragazza ambita... Allo stesso tempo aspira a poter avere successo come scrittore e dopo i primi goffi tentativi, riesce nella scrittura con un certo spessore ed una crescente capacità espressiva, sebbene i suoi scritti siano ripetutamente respinti al mittente dalle case editrici. Di pari passo, però, Martin consegue anche una forma robusta di coscienza di classe, vede sotto un altro angolo visuale se stesso, i suoi simili, le persone di ceto più basso, ed è crescente in lui la consapevolezza che la società del tempo aveva un ordinamento barbaro e neofeudale: da una parte i ricchi e i privilegiati, dall’altra la massa del popolo che era tenuta asservita, non soltanto materialmente ma anche culturalmente. Riuscirà anche a fidanzarsi con la concupita Ruth, ma essa, nella miopia della propria condizione di privilegiata, nell’affettazione e nell’ovatta dell’ambiente in cui era cresciuta e con i propri pregiudizi di classe, lo vorrebbe impiegato nella ditta del padre, vorrebbe vederlo alla scalata di una brillante carriera, in un cimento capitalistico che faceva a cozzi con le ambizioni di scrittore rivoluzionario che infiammavano Martin.
Ruth lo lascia dopo gli scandali che lo vedono protagonista, sulla stampa codina del tempo, come poeta populista e attivista nella lotta di classe. Questi otterrà poi, in un secondo momento, il successo sperato come scrittore, ma questo segnerà solo una parabola discendente verso la perdita della sua originaria purezza d’animo e genuinità, del suo intenso piacere per la vita e del gusto per gli eccessi picareschi che lo aveva portato, un tempo, a prenderla a morsi da avventuriere; egli si vede stimato solo per i suoi soldi e il successo ottenuto – un pallido esoscheletro della sua vera personalità – e si fa sempre più esile, in lui, l’audacia di un tempo e il gusto per l’avventura, il sentimento, infine, di sentirsi libero e senza vincoli con gli ambienti più altolocati, artificiosi e conservatori... Una parabola discendente che lo conduce – al culmine dei propri dilaceranti conflitti interiori, esautorato ormai da se stesso e nella straniante deriva di una totale perdita di senso – al gesto estremo di togliersi la vita, durante il suo ultimo imbarco per mare. La frase “Il successo! Era giunto! Era a portata di mano! Un passo, un solo passo, e si sarebbe trovato sulla vetta. Ma ciò che vedeva su quella vetta gli fece gelare il sangue” si staglia come un lampo terminale nell’orizzonte narrativo di Martin Eden, riassumendo in un colpo solo l’epica ascensionale e la caduta abissale del protagonista. In essa vibra una tensione tragica che ricorda le più alte note del teatro greco, là dove l’hybris dell’eroe viene punita da una realtà che si rivela ben diversa dall’ideale coltivato con tenacia e superbia. È l’istante culminante del dramma: Martin, novello Sisifo, giunge infine in cima alla sua montagna per scoprire che la vetta è spettrale, deserta, e che il peso trascinato per anni non è altro che la pietra dell’assurdo. Questa visione che lo paralizza, che gli “gela il sangue”, è l’anticamera della morte spirituale, ancor prima di quella fisica. Egli ha inseguito il successo come si inseguono le visioni nei deserti, come una fata Morgana che promette oasi e disseta solo l’illusione. Ha fatto del proprio intelletto una fucina titanica, ha “rubato il fuoco agli dèi” come Prometeo, ma non per donarlo agli uomini: bensì per elevarsi al di sopra di essi, per redimersi dal disprezzo e dal rifiuto, per guadagnarsi, con le unghie e con i denti, il diritto alla dignità. Ma nel momento in cui il mondo gli offre finalmente ciò che ha sempre bramato, scopre che quel dono è velenoso, come il frutto offerto da una strega nella fiaba. Il riconoscimento giunge quando lui non crede più in chi lo riconosce. Come Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, si accorge che “ciò che ha valore non è riconosciuto e ciò che è riconosciuto non ha valore”. La vetta, dunque, non è la Gerusalemme celeste, non è l’Empireo dantesco, ma un altipiano di ghiaccio, una sterile distesa che riecheggia l’Hollow Men di T. S. Eliot: “Shape without form, shade without colour, / Paralysed force, gesture without motion”. È l’illusione infranta di chi, scalando la montagna del riconoscimento sociale, scopre che in cima non vi è Dio, ma il Nulla. Il “gelo del sangue” che coglie Martin è lo stesso che afferrò Leopardi davanti alla “speme” caduta, o il giovane Werther nel momento della sua estinzione sentimentale. Martin Eden non è soltanto un romanzo di formazione, bensì un romanzo di deformazione: il Bildungsroman che implode. L’ascesa sociale, costruita con ferrea volontà, autodisciplina, isolamento e sacrificio, non conduce a un compimento armonioso, ma a un’apocalisse interiore. È una tragedia dell’io, come quella di Raskol’nikov, di Julien Sorel, di Frédéric Moreau, e più in generale del moderno che scopre che l’identità, costruita come monade solitaria, finisce per implodere sotto il peso della propria stessa tenace coerenza. Come ha scritto Walter Benjamin, “ogni documento di civiltà è al tempo stesso un documento di barbarie”: e la civiltà del self-made man, celebrata come trionfo della libertà, si rivela essere invece una trappola dell’alienazione. Martin è, in fondo, vittima della medesima menzogna che egli stesso ha scelto di servire con fede monastica: la religione dell’individuo, l’evangelo del talento, il culto della volontà. Ma voluntas sibi ipsa lex è un motto che porta alla solitudine. Quando la società finalmente lo accoglie, egli si scopre irriconoscibile a sé stesso, e i suoi trionfi si rivelano orpelli di cartapesta. Come in un sogno freudiano, la realizzazione del desiderio coincide col risveglio nel trauma: il successo diventa la maschera funeraria del fallimento. La sua parabola assume dunque un carattere profetico, simile a quella dei grandi eretici della modernità. Non è un caso che l’ultimo capitolo del romanzo sia impregnato di una solennità escatologica: la vetta è il Sinai da cui non si ode alcuna voce, è il Golgota dell’uomo moderno crocifisso dalla sua stessa autonomia. “Un passo, un solo passo”: bastava così poco, eppure era un passo nel vuoto. Come accade a Icaro, le ali che l’avevano sorretto nel volo si sciolgono non per difetto di slancio, ma per eccesso di fiducia nell’altezza. È in questo senso che Martin Eden si legge come una denuncia dell’ideologia americana: l’“American Dream” che diventa “American Nightmare”. L’errore fatale, in questo quadro, è stato fare del capitalismo una religione e pensare che da sé solo fosse la panacea per una società opulenta e una distribuzione della ricchezza più omogenea, che colmasse le ingiustizie sociali, e questo seguendo l’equazione: “Più ricchezza, uguale più ricchezza per tutti”; è il corrispettivo della demolizione dell’apologo di S. Martino – col suo mantello condiviso, anzi materialmente diviso: vera ripetizione dell’identico non già in termini di funzionalità, ma di dono oblativo e irripetibile – snocciolata in chiave utilitaristico economicista, con stringente, compassata logica, dal più nodale e odiato dei personaggi che il suo creatore potesse concepire con genio letterario, per negarlo con ogni singola particella del proprio operato esistentivo. Parliamo di un celebre passo di “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Lì lo scrittore affronta un argomento affine al nostro discorso. Anche se inerente a una lezione di economia, il ragionamento risulta di più ampio spettro e illuminante, anche nel sociale, intorno all’equazione dare/avere, sia in senso materiale che emotivo e spirituale. “Ama! E io amavo, come andava a finire? Tagliavo in due il mantello, lo dividevo col mio prossimo, ed entrambi ce ne restavamo mezzi nudi... La scienza invece dice: ama, innanzi tutto, te stesso, poiché al mondo tutto è fondato sull'interesse personale. Tu ami te stesso, ti fai tuoi affari come si deve, e il tuo mantello resta intero. La verità economica, infine, aggiunge che tanto più nella società si svilupperanno iniziative private organizzate, e, per così dire, mantelli interi, tanto più numerosi saranno i suoi fondamenti sicuri, tanto più si svilupperà anche la causa comune. Dunque, nel procacciarmi cose unicamente ed esclusivamente per me, è come se precisamente procacciassi cose per tutti, e facessi in modo che il mio prossimo possa ricevere qualcosa di meglio di un mantello strappato, e non già più da isolate elargizioni private, ma come conseguenza di una diffusa prosperità generale” (Parte II° par. V°). È qui l’incunabolo di tutta la modernità e la giusta chiave di lettura per ponderare dove mettano scienza e mercato deprivati di ordito assiologico se non numeral-eterogrado e ostaggio del Bene Comune: entità generalissima e astratta, suasivo eteroclito leviatano meta-hobbesiano! Martin Eden cavalca un falso mito, tutto americano, ma la logica binaria “perdente-vincente” e “ascesa-caduta” non è bastevole a regolare una società in cui l’arrivismo diviene culto e in cui le disuguaglianze si fanno aspre, le ingiustizie sorrette dagli stessi motti che dovrebbero fare morale la condotta di conquista e il discorso su un’autodeterminazione innestata nella migliore tradizione liberale americana: pietra angolare dell’intero ordinamento sociale, politico e economico a stelle e strisce… Del resto il giusnaturalismo di cui è intrisa la sua Costituzione, dichiara a chiare lettere un insieme di diritti naturali inferibili tramite ragione e ritenuti superiori o sovraordinati rispetto a quelli positivi: una sorta di principio che ricava il dover essere dall’ essere e non viceversa. Uno dei diritti fondamentali è quello a poter prosperare in rapporto diretto con le proprie virtù e la propria iniziativa personale. Ma v’è chi definirebbe questo darwinismo sociale, chi parlerebbe di profonde diseguaglianze economiche e sociali... In altre parole per l’homo amricanus v’è solo un destino binario: essere in ascesa o in caduta. Quella di Martin Eden chiaramente è, anche, una storia di ascesa, ma non celebrata conformemente alla spina dorsale della forma mentis e del corpus giuridico, filosofico e esistenziale che reggono l’intero modello sociale su scala americana… Caso mai una lucida messa in discussione, innervata di realismo socialista, di quel modello frutto di un albero avvelenato. Quel realismo socialista si fa morale ma non oleografico in quanto monito illuminato che guida Jack London ad affrontare il problema delle profonde, insanate disuguaglianze, del degrado, dell’alienazione e della deriva, anche alcolista, delle classi proletarie nel quadro dello spinto darwinismo sociale cui accennavamo, descrivendo con raggelante drammaticità la scalata sociale verso l’ovatta morale, l’artefazione, l’ipocrisia e i privilegi della classe agiata, che il protagonista compie per amore di una figlia della borghesia, fino al drammatico atto di riscatto e autocoscienza del finale. Come nella visione di Fitzgerald in The Great Gatsby, anche qui “we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past”, spingendoci con furia verso un futuro che ci respinge come intrusi, e nel quale l’individuo, privo di comunità, di senso e di grazia, si perde. La disgregazione del soggetto moderno, in Jack London, si manifesta non come decadenza ma come perfezione: Martinè l’uomo riuscito, ma proprio per questo è l’uomo finito.
E allora quella vetta, lucente e tremenda, non è altro che lo specchio del nostro tempo, dove il trionfo personale cela una sconfitta collettiva, dove l’illuminazione non è epifania ma accecamento, e dove il sangue, reso gelido dalla visione dell’insensatezza, non scorre più, come se la vita stessa, alla fine, si rifiutasse di compiere quel passo. Fin dalle prime pagine di Martin Eden, Jack London consegna al lettore una figura imbevuta di tensione prometeica, un titano in embrione che, pur venendo dal ventre oscuro della classe lavoratrice, marinaio, rozzo, irriflessivo, violento persino nel gesto amoroso, reca in sé una scintilla, un bisogno insopprimibile che non è fame sociale ma sete metafisica. Come Prometeo, Martin ruba il fuoco: ma non il fuoco materiale, bensì il fuoco dello spirito, della conoscenza, della forma, della cultura. Il suo non è, sì, desiderio di rivalsa, ma anche fame d’eterno. L’incontro con Ruth e con l’ambiente dei Morse, algido, colto, impregnato di buone maniere, blando idealismo libertario da privilegiati e cieca fiducia nell’ordine costituito, è per lui folgorazione e rivelazione, come l’apparizione di Beatrice per Dante. La donna è l'epifania di un mondo altro, rarefatto, aereo, fatto di libri, linguaggi raffinati, mobili imbottiti e conversazioni filtrate dalla compostezza borghese. È l’ideale platonico che si incarna e, incarnandosi, chiama alla trasfigurazione. Però, mentre nell’opera di Dante l’illuminazione apre alla salvezza e al cammino verso Dio, in Martin è l’inizio di un’ascesi solitaria e tragica, tutta intramondana, che culminerà nel disinganno totale. “Non poteva sopportare la propria ignoranza. Doveva sapere. Doveva colmare il vuoto” (cap. VI): questa frase è la sua kenosis, il punto zero, il punto in cui l’anima scopre la propria mancanza e decide di riempirla con il proprio sangue. Non per farsi accettare, non per ottenere un ruolo: Martin vuole trascendere sé stesso. Come Faust, è divorato dalla smania del conoscere; come Zarathustra, vuol diventare più di ciò che è. Ogni libro letto è un mattone posto su una torre interiore che si innalza vertiginosamente, ma che, come quella di Babele, rischia di crollare per eccesso d’ambizione. Non è, come detto, solo la “sete di riscatto” a muoverlo, né la banale ambizione borghese di scalare la piramide sociale: è qualcosa di più radicale, di più oscuro. È un’ossessione esistenziale, una forma di misticismo ateo, in cui Dio è sostituito dall’Idea, e il paradiso si fa linguaggio. Ogni parola nuova, ogni autore assimilato, ogni concetto penetrato è per lui un grado nell’iniziazione, un passo verso la deificazione dell’intelletto. Martin vuole “sapere per essere”, non solo per avere. In lui arde la gnosi, non tanto la carriera. È qui che la sua figura si fa tragica: perché l’ascesa non trova mai compimento. Ruth, che era il motore iniziale della metamorfosi, diventa presto inadeguata, banale, un’opaca donnetta borghese. L’amore stesso si dissolve nella distanza crescente tra chi cerca la verità e chi vive di mezze luci. Martin si accorge che ciò che ha desiderato non esiste realmente, o meglio: che la realtà non è degna del suo desiderio. E allora si isola, si chiude, si allontana. Come una pianta lanciata verso il cielo, le sue radici si strappano dalla terra. Tutta la vicenda assume così il tono di una tragedia della verticalità: Martin Eden è l’uomo moderno che rifiuta l’ordine dato, che vuole elevarsi senza intermediari, che pretende il fuoco, la luce, la forma, ma che, ottenendoli, si accorge che il mondo in cui li ha cercati è vacuo. Come in un romanzo gnostico, la materia è inferiore allo spirito, e il mondo intero si rivela come prigione dell’ignobile. La cultura borghese che aveva venerato si mostra fatta di cliché, di doxa, di falsa coscienza. Le riviste che prima lo ignoravano ora lo cercano, ma egli ne conosce l’inconsistenza. Gli uomini che lo deridevano ora lo lodano, ma egli ne disprezza la voce. In questo senso, Martin non è soltanto un Prometeo: è anche un Cristo mancato, un martire dell’assoluto, un eroe dostoevskjiano che ha voluto farsi Dio e ha scoperto, alla fine, che l’uomo non può portare il peso di Dio. Come Kirillov ne I demoni, come Ivan Karamazov, è un’anima che si rifiuta di essere mediocre, che ha rinunciato a tutto, all’amore, alla pace, alla vita semplice, in nome di una fiamma interiore che brucia, ma che non scalda. Una intelligenza luciferina, direbbe Baudelaire.
Jack London costruisce così, con straordinaria potenza, un antiromanzo di formazione, in cui l’educazione dell’eroe non porta all’integrazione, ma alla frattura; non alla pienezza, ma alla consunzione. L’“autodidatta”, figura romantica, quasi sacrale, emblema della volontà che plasma sé stessa, di un Io che si impone e autodetermina con forza sorgiva, si trasforma in un paria dell’intelletto. E se Martin è, all’inizio, un giovane Odisseo lanciato verso le sirene della cultura, alla fine è un Ulisse naufrago, che, come quello di Dante, ha “fatto vela per l’alto mare aperto” e ha trovato non l’Itaca, ma l’abisso. In questo senso non è peregrino il paragone con l’Ulisse dantesco in luogo di quello omerico, proprio in virtù della “nostalgia aperta” che lo anima, nostalgia per la scoperta che oltrepassa i limiti imposti, nostalgia per il sapere e la conquista.
Martin Eden, dunque, è il romanzo dell’intellettuale moderno che si fa da sé e che, proprio per questo, non può riconoscersi in nessuno. La sua è una vicenda solare e lunare insieme, prometeica e tragica, mistica e nichilista. È il racconto di un uomo che, come scrisse Simone Weil, “ha amato troppo la grandezza per potersi più contentare del mondo”. L'autodidattismo di Martin Eden non è un semplice esercizio di accumulazione nozionistica, ma un processo febbrile di metamorfosi interiore, un’iniziazione solitaria i cui testi sacri non sono i manuali scolastici, ma i vangeli eterodossi del pensiero moderno, quelle scritture nate dal trauma della fine dei valori condivisi. Martin si ciba non di dottrine rassicuranti, ma di veleni lucenti: Schopenhauer, con il suo pessimismo cosmico e la visione del mondo come volontà cieca e insaziabile; Darwin, con l’immagine impietosa della natura come arena di lotta; Herbert Spencer, teorico di un’evoluzione sociale che sancisce la sopravvivenza del più adatto; e infine, sopra tutti, Nietzsche, l’arcangelo della solitudine e della trasvalutazione. È proprio sotto la stella di Nietzsche che Martin sembra orientarsi come un Übermensch ferito, un uomo che, avendo rigettato le morali della massa, tenta di edificare sé stesso come opera d’arte. “La massa non conta io non sono come loro. Io sono un individuo, un’anima libera” (cap. XVIII): è questa la sua professione di fede, una dichiarazione d'indipendenza spirituale che echeggia le parole di Zarathustra quando dice: "In voi troppo a lungo ha dominato il piccolo uomo". Eppure, l’individuo superiore di Martin Eden non è una caricatura superomistica alla maniera di D’Annunzio: è una figura tragica, dilaniata, fragile nella sua hybris. L’imitazione di Nietzsche si rivela ben presto una condanna, poiché Martin interiorizza (qui l’interiorizzazione ha anche significato affine al “ressentiment” nietzschiano) non solo il disprezzo per il conformismo borghese, ma anche il gelo dell’eterno ritorno dell’identico, il peso insostenibile dell’individualità assoluta, la solitudine del pensatore che ha “ucciso Dio” ma non trova più un ordine nel cosmo. L’evoluzionismo sociale di Spencer, che pure gli offre una prima impalcatura teorica, diventa in lui non strumento di emancipazione collettiva, ma ideologia di selezione: il genio deve imporsi sulla massa.
Martin, convinto di dover emergere come esito necessario dell’ordine naturale, perde ogni empatia per gli “inferiori”. Il suo pensiero si fa verticale, elitario, algido. Inizia a considerare l'umanità come un fardello o, peggio, come un rumore di fondo. La sua educazione, così, si fa diseducazione al legame umano. Jack London non segue il suo personaggio in questa deriva senza sguardo critico. Anzi: Martin Eden è un’iperbole tragica del culto dell’individualismo, e il suo destino finale, la catabasi nel nulla, il suicidio tra le onde, è l’esito logico di una visione del mondo che nega la comunità, il legame, la compassione. In questo senso, l'autore opera un capovolgimento magistrale: mentre finge di raccontare l’apoteosi dell’autodidatta, denuncia la sterilità di una scalata che ha per unico fine il Sé. London, già allora vicino alle istanze socialiste, ma ancora irretito in parte dal fascino ambiguo del superomismo, scrive un romanzo che è un requiem per l’ideologia del self-made man. Martin è l’incarnazione ultima, e definitiva, di quel sogno americano che predica l’ascesa solitaria come compimento dell’essere. Ma la sua fine, così cruda e silenziosa, mostra il volto di Medusa che si cela dietro l’idolo della realizzazione personale. Come scrisse Georg Simmel, “l'individualismo estremo conduce non alla pienezza dell’io, ma al suo svuotamento”.
Martin, infatti, giunto alla vetta, non trova la gloria ma il vuoto. Così, l’ideologia evolutiva, che nel pensiero di Spencer legittimava le gerarchie sociali come prodotti naturali, viene nel romanzo smontata dall’interno: non porta al progresso, ma al nichilismo. La selezione dei migliori si rivela selezione dei più soli. Il “genio” non si impone: si estingue. Il sapere non redime: isola. L’individuo superiore, separato dal corpo vivo della comunità, si corrompe come un membro amputato. Martin Eden è dunque il termine critico di un esperimento ideologico: cosa accade quando si porta alle estreme conseguenze la fede nell’autosufficienza dell’io? La risposta di London è chiara: accade la catastrofe. E così il romanzo, che pareva celebrare il trionfo prometeico dell’intelletto autodidatta, si chiude nella forma d’un moderno mito di Sisifo, in cui l’ascesa conduce non alla salvezza, ma al mare. Ed il mare, l’elemento primordiale, il ritorno all’informe, è il solo che possa accogliere Martin, ormai svuotato di ogni illusione. In esso si scioglie la figura titanica che aveva sfidato il mondo con i soli muscoli della volontà. Un naufragio che non è solo esistenziale, ma filosofico, sociale, antropologico. Perché, come insegnava Nietzsche stesso: “Chi combatte i mostri deve guardarsi dal diventare egli stesso un mostro. E se scruti a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.” Nel cuore di Martin Eden, come una vena d’oro sepolta nella roccia, pulsa incessante la riflessione sulla scrittura come vocazione assoluta, come fuoco inestinguibile che arde fino a consumare il soggetto stesso che lo alimenta. L’arte, per Martin, non è mestiere, non è carriera, non è nemmeno un mezzo per ascendere socialmente – benché tale illusione lo sfiori nei primi capitoli, sull’onda dell’infatuazione per Ruth e il suo mondo rarefatto. No: l’arte è sacrificio, ascesi, transustanziazione dell’esperienza in parola. Egli scrive non per essere letto, ma per redimersi, per salvarsi da un mondo che lo offende con la sua banalità e lo trafigge con l’ottusità del reale. «Viveva come un animale selvaggio, rinchiuso, senza luce, divorato da un’ossessione» (cap. XXIV): l'immagine è chiaramente dostoevskjiana, riecheggia il Raskol’nikov dell’“interrato”, il recluso volontario che macera la propria vita nella tensione verso un’idea totalizzante. La scrittura, per Martin, è al contempo martirio e liberazione, catene e ali. È l’unica via d’uscita da una condizione esistenziale inaccettabile, la sola forma di trascendenza accessibile all’uomo moderno, disilluso e secolarizzato. Ciò che rende tragico, e potentemente moderno, il suo destino è la collisione tra questa visione sacrale dell’arte e la brutalità di un mondo editoriale che dell’arte fa merce, dell’ispirazione una voce di bilancio. Martin scrive febbrilmente, ma i suoi testi vengono respinti, ignorati, restituiti con lettere standard, oppure semplicemente sepolti in silenzio. “Non leggono neppure quello che scrivo”, constata con amarezza (cap. XXVIII). È l’orrore del talento che grida nel deserto, il trauma dell’artista che non incontra lo sguardo dell’altro, e perciò vacilla nel proprio valore. L’umiliazione non è il rifiuto: è l’indifferenza. Qui si apre una delle più profonde critiche che London rivolge al sistema capitalistico della cultura. Il mondo editoriale è ritratto come cieco e volgare, incapace di cogliere la verità di un’opera se essa non è già segnata dal timbro del denaro e della fama. L’estetica cede alla statistica. La bellezza viene riconosciuta solo a posteriori, quando è stata legittimata dal successo, e dunque sterilizzata. L’arte non vale per la sua verità, ma per la sua resa commerciale. Così, quando infine Martin raggiunge la fama, non è la sua opera a venire esaltata, ma il suo nome, il simulacro, il brand. “Non era la sua arte a essere riconosciuta, ma il suo nome, il marchio del successo” (cap. XLV). È la più atroce delle disillusioni: essere amati non per ciò che si è, ma per ciò che si rappresenta. In quel momento si compie, definitivamente, la catastrofe interiore del protagonista. Il successo, tanto agognato, si rivela postumo all’anima. L’autenticità è stata sacrificata sull’altare del consenso. Il riconoscimento, giunto troppo tardi, non redime, ma corrompe. L’arte, che per lui era verità, sangue, ferita, è stata svuotata, ridotta a etichetta, a titolo su una copertina. In questa parabola amara, echeggiano le note più cupe della letteratura della disillusione. C’è in Martin Eden qualcosa del Flaubert di Un cœur simple, del Maupassant di Pierre et Jean, dell’Arthur Rimbaud che scrisse "Je est un autre" e poi abbandonò la poesia per il silenzio dell’Africa. E ancor più fortemente, si ode la voce dolente di Leopardi, per il quale “la fama è un’illusione anche per chi la raggiunge”: perché essa non restituisce mai ciò che promette, e si rivela alla fine uno specchio deformante, in cui il volto dell’autore si perde nel riflesso moltiplicato del pubblico. Martin comprende, nel culmine della sua notorietà, la natura illusoria del consenso sociale: non è l’arte a trionfare, ma il marketing dell’artista. In questo senso, è una figura quasi profetica del nostro tempo, in cui il valore sembra ormai sganciato dal contenuto e legato esclusivamente alla visibilità. La sua è una crucifixio senza resurrezione, un Gòlgota spoglio di testimoni, dove il miracolo dell’opera viene scambiato per una prestazione. Alla fine, la sola verità che gli resta è quella del mare. Solo l’elemento primordiale, silenzioso e vasto, può offrirgli il grembo dell’oblio. Lì, dove non arrivano le lettere di rifiuto né gli assegni degli editori, Martin si consegna alla vertigine della dissoluzione, non per fallimento, ma per rifiuto dell’equivoco. Il suo è un suicidio etico, un rigetto finale del compromesso. Come un novello Artaud, preferisce la pienezza del nulla alla falsificazione del successo. E così il romanzo, che pareva raccontare l’ascesa di un artista, si rivela l’autopsia di un’anima votata all’assoluto. E proprio per questo, irriducibile al mondo. “Scriveva come chi scava un tunnel per uscire da sotto le macerie. Ma quando emerse, non trovò la luce. Solo una vetrina, e il suo nome inciso su una lastra di vetro.” La figura di Ruth Morse è uno dei nodi tragici e simbolici più intensi di Martin Eden: ella non è soltanto un personaggio femminile, ma una proiezione mitopoietica, un archetipo che muta nel tempo, passando dalla luminosa idealizzazione all’ombra del disinganno.
All’inizio, Ruth appare come l’epifania dell’Assoluto: “Era la Bellezza, la Verità, l’Ideale” (cap. V). Come Dante davanti a Beatrice, come Petrarca davanti a Laura, Martin si inginocchia mentalmente dinanzi a lei, riconoscendola come la forma visibile di un mondo superiore, come quella “dea lontana” che può redimere la sua oscura origine proletaria con la luce dell’elevazione spirituale. Ruth è Musa, è guida, è rivelazione: è la promessa che la bellezza può ancora coincidere con la bontà, e l’amore con la salvezza. A questa auratica visione non tarda a incrinarsi. A poco a poco, si rivela che Ruth non ha la profondità che Martin proietta su di lei virtù auree che sono in realtà apocrife: non sa comprendere il suo fervore creativo, non sa seguire il suo pensiero, non percepisce la drammaticità esistenziale che lo dilania. Ruth, come un simulacro antico che si rivela d’intonaco sotto la foglia d’oro, si mostra per ciò che è: figlia della borghesia, educata alla deferenza, prigioniera della morale dell’utilità. Ella non ama Martin per ciò che è, ma per ciò che potrebbe diventare: un uomo “realizzato”, “rispettabile”, “sicuro”. Quando, immerso nella miseria e braccato dalla fame, egli le propone di sposarlo, Ruth rifiuta. Non l’amore, ma la reputazione, non l’anima, ma il salario sono i criteri del suo giudizio. Martin allora comprende che la donna che credeva angelica è in realtà l’escrescenza personificata di quel mondo borghese che lo respinge e lo disprezza: Ruth non è l’eccezione, è la regola. In lei si condensano tutte le trappole della rispettabilità: conformismo, paura del giudizio, freddezza morale. Il suo amore, che sembrava incondizionato, si rivela invece condizionato dal denaro, dalla posizione, dal consenso altrui. È qui che il sogno romantico implode: l’eros, che per Martin era totalità, si mostra mercificato, asservito, domestico. Come nella Phèdre di Racine, l’amore si trasforma in colpa; come in Madame Bovary, si dissolve nella delusione. Il capovolgimento definitivo giunge quando, ormai consacrato dal successo, Martin vede tornare Ruth, pentita, umile, supplice. Invece, è tardi. L’oro dell’autenticità si è tramutato in stagno. L’incanto è spezzato. L’amore, per essere vero, doveva essere cieco, irrazionale, audace, doveva precedere il successo, non seguirlo come un’ombra complice. Martin, allora, pronuncia parole definitive: “Il tuo amore non è stato più forte delle tue paure. Non era amore, ma una fragile illusione” (cap. XLVI). In quella frase si avverte l’eco del Werther goethiano, che accusava Carlotta di non aver osato; e forse anche di Don Giovanni, quando riconosce che la donna amata è sempre la proiezione del proprio desiderio, non un soggetto reale, ma uno specchio deformante. In Ruth, Jack London condensa magistralmente il naufragio dell’ideale romantico: l’amore non salva, ma tradisce; non solleva, ma giudica; non accoglie, ma misura. Lungi dall’essere la figura redentrice del percorso edenico, Ruth ne è il fallimento incarnato, la sirena che canta per attrarre verso la riva della normalità, spegnendo ogni ardore titanico. Ecco, allora che la vicenda sentimentale di Martin si iscrive nella più vasta tragedia dell’inadeguatezza tra l’anima e il mondo, tra l’individuo e il contesto. Ruth non tradisce soltanto Martin: tradisce la possibilità stessa dell’amore come verità assoluta. È l’ultima illusione che crolla, l’ultimo baluardo che cede prima del naufragio. E il naufragio, qui, non è solo simbolico: è reale, fisico, definitivo. Perché l’uomo che credeva nell’arte, nell’amore e nella libertà, si trova infine tradito da ciascuno di questi idoli. Come un moderno Amleto, Martin si ritira dal teatro del mondo, non perché non vi sia nulla da dire, ma perché tutto ciò che c’è da dire è stato deformato, venduto, tradito. E tra i tradimenti, quello di Ruth, il tradimento dell’amore, è il più irreparabile. «Ella era stata per lui come un astro, ma non un sole. Più simile a una stella morta, la cui luce continua a brillare nel cielo molto tempo dopo che la fiamma si è spenta. Egli aveva amato una luce spenta, e ora ne vedeva solo il riflesso spento nell’acqua che lo reclamava.» Il finale di Martin Eden è una delle chiuse più disturbanti, sconvolgenti e metafisicamente dense della letteratura americana del primo Novecento. È il rovesciamento dell’epica del self-made man, la distruzione dall’interno del mito fondativo dell’individualismo americano. Dopo aver percorso con cieca tenacia l’intero crinale dell’ascesa sociale e culturale, dopo aver attraversato notti di fame e umiliazione, dopo aver scritto febbrilmente come un monaco visionario o un pazzo ispirato, Martin ottiene ciò che aveva inseguito: la fama, la consacrazione, la visibilità. Come accade nei sogni al risveglio, ciò che sembrava sostanza si rivela ombra, ciò che era desiderio si rivela illusione. “Il successo era un fantasma, la fama un ronzio, la gloria un applauso vuoto” (cap. XLVII): queste parole, nitide come epitaffi, riassumono lo sgretolarsi totale del significato. È la “vanitas vanitatum” del Qoèlet trasposta nel linguaggio della modernità, è il grido afono di colui che ha toccato la cima solo per accorgersi che la vetta non è che una lastra di ghiaccio che si scioglie al sole. Il suo disincanto non è il semplice esito di una delusione mondana; è l’agonia dell’ontologia, lo svuotamento di ogni categoria di senso. Il culto dell’individuo superiore, nutrito di Nietzsche, di Spencer, di sogni prometeici e di retoriche evoluzionistiche, si infrange contro l’indifferenza dell’universo, contro l’autismo delle masse, contro l’irrilevanza dell’io. E dire che in principio pulsava nel personaggio una vitalistica, animalesca spinta a un fuoco che ardeva per la vita nella sua forma più greggia, a una natura genuina e diretta, autentica e non ancora così mediata da diluirsi nell’afasia dell’azione, nei veleni morali di valori impagliati, di regole e abecedari morali di un mondo atrofico e segnato dal perbenismo e dalla mancanza di esperienze genuine e contatto liberatorio con la natura e le sue forze primordiali, col lato della vita infine che non muore per asfissia nei salotti.
Ma l’Übermensch si scopre nulla più che un simulacro riflesso negli specchi deformanti della notorietà. Non vi è catarsi, solo una stanchezza cosmica, un dolore lucido e quieto, come quello che si annida tra le pieghe più intime della poesia di Leopardi: “Aveva raggiunto la vetta, ma la vetta era deserta” (cap. XLVII). Come un Giona naufrago fuori tempo massimo, Martin si ritrova nella balena del mondo moderno: inghiottito dalla gloria e rigettato nel nulla. Il suo suicidio, per annegamento, è gesto archetipico, rituale, simbolico: non è un abbandono, ma un ritorno. Ritorno al grembo oceanico, al ventre primordiale dell’essere, là dove la parola non esiste più, dove l’io si dissolve, dove non resta che la culla della notte. È un gesto che non ha nulla di impulsivo: è freddo, consapevole, sacrificale. Come Edipo, Martin si acceca, ma non con lo spillone della colpa: con le acque del disincanto. Si acceca per non vedere più l’ipocrisia del mondo, per cancellare l’ultima immagine riflessa nel suo specchio d’orgoglio. In questo gesto si sovrappongono molte ombre illustri. Come Emma Bovary, Martin muore non tanto per l’amore deluso, quanto per il crollo dell’immaginario che lo sosteneva: l’idea di un mondo giusto, di un’arte nobile, di un amore capace di accogliere la verità dell’anima. Come Werther, egli è il martire romantico, l’eroe dell’assoluto che non sopravvive alla volgarità dell’esistenza quotidiana. Come il giovane Törless di Musil, ha attraversato le soglie dell’esperienza estrema, ha osservato l’abisso e vi si è gettato con occhi aperti. Martin è anche una figura cristologica rovesciata: non si immola per redimere gli altri, ma per salvare sé stesso dalla menzogna, per rifiutare il compromesso, per morire intatto, integro, non assimilato. Il suo suicidio è la negazione totale del principio di utilità, dell’etica dell’efficienza, del pragmatismo americano. Anche qui l’analogia con Nietzsche è rivelatrice, là dove il filosofo rigetta ogni “morale dell’utile” e ogni visione utilitaristica dei modelli sociali, ogni forma di espressione del sé eccessivamente mediata e non sorgiva e spontanea, ogni volontà reattiva e non assertiva.
Quella di Martin Eden è la maledizione finale contro un mondo che trasforma l’arte in merce, l’amore in calcolo, l’anima in curriculum. Come nella chiusa kafkiana del Processo, la morte di Martin non è un castigo ma una liberazione, non un fallimento ma una dichiarazione d’irriformabilità dell’esistente. Jack London, socialista e autodidatta, usa la parabola di Martin Eden per dichiarare la bancarotta dell’individualismo eroico. Quello che in apparenza è un romanzo di formazione, in realtà è una via crucis laica, una passione senza resurrezione, un’elegia per l’artista moderno che non trova più casa nel mondo. L’acqua che lo accoglie, infine, non è né amica né nemica: è neutra, indifferente, madre. Martin non annega per fuggire, ma per tornare. Tornare prima del sogno, prima del disincanto, prima della parola. Là dove non esiste più la tensione tra ciò che si è e ciò che si vuole essere, ma solo il silenzio immobile dell’essere. Così termina il romanzo: non con un trionfo, non con una lezione morale, ma con un’immersione nell’eterno, in quel punto oscuro dove tutte le illusioni si spengono, e con esse, forse, anche il dolore. Ciò che rende Martin Eden un’opera gigantesca, dallo statuto quasi oracolare, è la sua ambiguità strutturale e metafisica, la sua capacità di farsi specchio bifronte dell’ideologia moderna. In apparenza, il romanzo di Jack London si offre come una parabola dell’eroismo autodidatta, la celebrazione della forza di volontà capace di riscattare l’uomo dalla miseria e dall’ignoranza: un Bildungsroman muscolare, incendiato dal desiderio di elevarsi, attraversato da un fervore gnostico, da una tensione ascensionale che riecheggia il titanismo nietzscheano. Sotto questa superficie ardente e vitale, pulsa una vena di gelo, una struttura di smascheramento che esplode pienamente solo nelle ultime pagine. Martin Eden è, in verità, una trappola narrativa, un testo dialettico che seduce con la promessa dell’ascesa per condurre ineluttabilmente al naufragio dell’anima. Come una mappa falsata che porta non alla terra promessa, ma a una scogliera invisibile. È lo stesso London, del resto, a spezzare ogni possibile illusione interpretativa con una celebre lettera inviata nel 1915 all’amico Cloudesley Johns, in cui scrive senza ambagi: “Martin Eden è un monito contro l’individualismo. Ma quasi nessuno l’ha capito così”. Questa frase, lapidaria come un’epigrafe scolpita nella pietra, rovescia ogni lettura trionfalistica del romanzo: non siamo dinanzi a un inno all’individuo, ma al racconto di una dannazione, di un’illusione che si svela nel momento stesso in cui sembra coronarsi. L’intera impalcatura narrativa si regge su un paradosso: l’eroe che sembra ascendere è, in realtà, un caduto in volo. Non un uomo che ha vinto, ma un uomo che ha creduto troppo nella vittoria, e per questo è perduto. Il suo percorso, che dalla povertà lo conduce alla fama, non è un’escalation verso la pienezza, bensì una marcia verso il vuoto. Nulla, alla fine, si salva: né l’amore, né la conoscenza, né l’arte. Tutto ciò in cui Martin aveva creduto, e per cui aveva sacrificato la salute, la pace, la gioia, la carne stessa, si dissolve come un sogno all’alba. Il movimento del testo è centrifugo, non centripeto: spinge l’eroe verso l’esterno, verso l’alto, solo per lasciarlo precipitare in un abisso metafisico, un deserto senza nome dove tutto perde senso. L’arte, in cui Martin aveva intravisto la redenzione, si rivela corrotta dal mercato. L’amore, che avrebbe dovuto dargli salvezza, si mostra come calcolo borghese. Il sapere, che aveva promesso libertà, si tramuta in solitudine. E infine il successo, quella cima agognata, quell’altare dove il sacrificio sembrava dover trovare finalmente compimento, si rivela un sepolcro imbiancato, una corona di cenere. “Il successo era un fantasma, la fama un ronzio, la gloria un applauso vuoto” (cap. XLVII): queste parole non sono solo l’amaro bilancio di un’esistenza, ma il requiem di un intero sistema di valori. È in questo vuoto glaciale che si dischiude la solitudine titanica di Martin, una solitudine priva di consolazione religiosa, priva di senso tragico redentivo. “Era solo. Aveva sempre saputo di essere solo. Ma ora lo era per sempre” (cap. XLVI): il tono lapidario di questa frase riecheggia il silenzio siderale della morte stessa. Non vi è pathos, né dramma; vi è solo consapevolezza, anagnórisis, l’intuizione brutale della realtà: l’Io isolato è un deserto che si crede montagna. L’uomo che credeva di elevarsi al di sopra della massa ha costruito, attorno a sé, una torre troppo alta per essere abitata. Un’altra versione della Hybris, che non trova però castigo negli dèi, ma nell’anima stessa dell’eroe. Ed è qui che il romanzo raggiunge la sua potenza profetica. In un’epoca come la nostra, in cui l’io è spettacolo, esibizione, apparire privo di reale presenza, progetto, narrazione, performance; in cui il successo è l’unica legittimazione possibile del valore; in cui ogni esistenza sembra dover dimostrare la propria eccezionalità sui palcoscenici sociali della visibilità continua, Martin Eden risuona come una campana funebre. Ci dice che l’Io, se idolatrato fino al delirio, implode su sé stesso. Che nessun talento è sufficiente a colmare la fame d’amore, il bisogno di senso, la necessità del legame. Che l’individuo, lasciato solo con la propria grandezza, muore di vertigine. Martin Eden è il romanzo che ci ricorda l’inabitabilità della vetta, la freddezza della cima. Ci mostra che nessun successo può compensare la perdita di senso condiviso, nessuna arte può sostituire il calore umano, e che la gloria, se non è nutrita da sentimenti autentici, è solo vento tra le mani. . Non è solo la morte di un uomo: è la morte di un’epoca, di un’ideologia, di una fede. È la dissoluzione di un intero universo narrativo. E il lettore, trascinato con lui negli abissi, non può che rimanere in silenzio, con un senso di sconfitta non dell’eroe, ma dell’umanità intera. Ecco, dunque, la vera vetta a cui Martin Eden è giunto: quella del nulla. E dalla sua cima, il solo panorama che si scorge è l’abisso. Nella parabola discendente di Martin Eden si rifrange, come in uno specchio infranto, l’eco profonda delle figure dostoevskjiane, quei personaggi liminari che abitano la soglia tra follia e metafisica, tra razionalità e rovina, tra coscienza lucida e dissoluzione dell’io. Il giovane marinaio autodidatta, che ascende con furore prometeico verso il mondo della cultura e della gloria letteraria, si rivela, nella sua essenza più tragica, un uomo del sottosuolo travestito da self-made man. Più cresce in lui il desiderio di autenticità, più si diparte dalla realtà che lo circonda: l’amore, la società, l’arte, persino la sua stessa immagine riflessa nella fama. “La coscienza è malattia”, scrive Dostoevskij nel 1864, anticipando la diagnosi che si compirà pienamente in Martin: non è l’ignoranza a uccidere, ma l’eccesso di consapevolezza. Martin si interroga incessantemente sull’autenticità del proprio agire, sulla verità della propria identità, sulla legittimità del proprio successo. La sua coscienza è come una lente bruciante, che rende insopportabile ogni forma di compromesso. Alla fine, come l’uomo del sottosuolo, che si auto-confina in una cella sotterranea, prigioniero del proprio rifiuto del mondo, egli perde ogni contatto con l’umano. Nella sua confessione estrema, al culmine del disincanto, si legge: “Mi sono reso conto che non c'è nulla. Nessuna verità. Nessun significato. Solo parole, parole, parole” (cap. XLVII). È una dichiarazione devastante, che sembra rovesciare il Lògos stesso. La parola, da veicolo della salvezza letteraria, si è fatta guscio vuoto, simbolo dell’inanità del pensiero moderno. In essa si sente l’eco, amplificata e secolarizzata, della formula più inquietante dell’Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”. Ma mentre Ivan è dilaniato dalla tensione fra l’anelito al bene e il rifiuto teodiceico, Martin non conosce più la colpa: la sua è un’agonia non religiosa, bensì borghese, estetica, e infine biologica. Non si danna per aver tradito Dio o l’uomo, ma per aver capito che non c’è nulla da tradire. Dove Dostoevskij mette la colpa, London mette il nulla. Martin Eden, in questo senso, è un Dostoevskij senza Dio, dove la tragedia nasce non dal peccato ma dalla delusione, dove il silenzio di Dio è sostituito dal silenzio del mercato editoriale, e il diavolo è la mediocrità sociale. Se Dostoevskij fornisce la cornice psicologica e morale del personaggio, è forse Knut Hamsun, con il suo Hunger del 1890, a offrirne il correlativo letterario più diretto e profondo. London lesse Hunger con fervore e ammirazione: lo definì “il romanzo più moderno che io conosca, perché l’unico che parla del dolore della coscienza con verità senza difesa”. Lì, come in Martin Eden, l’eroe è un giovane scrittore affamato, umiliato, al limite della follia. Si muove in una città che lo respinge, si ribella con orgoglio, si autodistrugge con lo stesso furore con cui cerca la salvezza. Anche lì, la tensione tra il bisogno e l’orgoglio diventa insostenibile. “Mi sento come se una parte della mia anima fosse divorata dall’altra”, afferma il protagonista di Hamsun: una frase che Martin avrebbe potuto scrivere nel suo diario, a margine dell’ultima pagina. Entrambi i personaggi si nutrono della stessa fame di assoluto, fame letterale, fame metafisica, e finiscono per consumarsi come fiaccole nel vento. È in questa lacerazione senza risoluzione che Martin Eden trova la sua affinità segreta con l’uomo assurdo di Camus, quell’uomo che, nel Mito di Sisifo, viene definito come colui che, pur consapevole dell’assenza di senso, rifiuta sia la speranza che il suicidio metafisico. Camus, del resto, riconobbe in Martin Eden“un romanzo tragico sul nulla moderno, reso ancora più straziante dal suo furore di vita”. In questa formula ossimorica, furore e nulla, vitalismo e vuoto, è racchiusa tutta la disperazione moderna: Martin non è un nichilista freddo, non è un decadentista rassegnato, non è un ironista. È un appassionato che brucia, un orante senza altare, un santo laico della letteratura che, giunto al sacro del linguaggio, scopre che non c’è Dio a rispondere. Ciò che unisce Martin Eden all’uomo del sottosuolo, all’Ivan Karamazov, al protagonista di Hunger, e all’uomo assurdo di Camus, è questa coscienza disillusa, questo rifiuto di ogni consolazione, ma anche l’impossibilità di tornare indietro. Come Edipo che si acceca dopo aver visto troppo, Martin si lascia inghiottire dal mare: ma non per fuggire, bensì per sancire l’irrimediabilità del suo sapere. La sua morte non è solo un gesto di disperazione, è un atto metafisico, una dichiarazione ontologica: “Se nulla ha senso, anche la mia sopravvivenza è priva di significato”. A differenza del Sisifo camusiano, Martin non accetta di rimanere nel gesto eterno della sfida. La sua grandezza tragica consiste proprio nel non poter essere assurdo fino in fondo. È troppo letterario, troppo morale, troppo umano per sopportare la verità inumana che ha scoperto. Martin Eden si staglia nel panorama della letteratura novecentesca come una figura tragica e lucida dell’intellettuale moderno, erede illegittimo di Dostoevskij, fratello per elezione di Hamsun, precursore inconsapevole di Camus. Egli è l’emblema di una generazione che ha smarrito i dogmi, ma non ha trovato nuove fedi. È l’immagine scolpita nella pietra di un io che ha raggiunto la vetta, ma l’ha trovata deserta. Da lì, in silenzio, ha scelto di sparire. Nel suicidio finale per annegamento, gesto estremo, ieratico, carico di stratificazioni simboliche che affondano nei depositi più remoti dell’immaginario occidentale, si condensa in Martin Eden una lunga tradizione letteraria, filosofica e mitopoietica della morte romantica, tragica, assoluta. In quell’atto silenzioso e solenne, London non rappresenta soltanto la fine di un individuo, ma la disintegrazione di un’intera visione del mondo, la caduta verticale di una religione dell’io e della volontà in un oceano privo di risposte. Martin, come novello Narciso, si guarda nell’abisso, e l’abisso, come in Nietzsche, gli restituisce il volto della propria vacuità. È l’epilogo di un destino che si configura come un doloroso e irriducibile conflitto tra l’ideale e il reale, tra la sete di assoluto e l’insipienza del mondo borghese. Come Werther, anche Martin è vittima di un sogno amoroso infranto, di un amore che non ha saputo superare la distanza tra l’anima e la società. L’una invocava l’elevazione eroica, l’altra imponeva l’adattamento. E l’eroe, come il giovane goethiano, sceglie di dissolversi piuttosto che deformarsi. Laddove Werther si uccide con una pistola, in un gesto lirico e teatrale, Martin si consegna al mare: un suicidio senza clamore, una resa cosmica, oceanica, che rinuncia perfino al pathos. Più vicina, per struttura profonda, è Emma Bovary di Flaubert. Come Emma, Martin non muore semplicemente a causa della delusione sentimentale, ma per qualcosa di più radicale: la frattura insanabile tra l’immaginario letterario che lo ha formato e la realtà borghese che lo circonda. Entrambi sono figli illegittimi dei libri, creature allevate dalla carta stampata, nutrite di sogni e retoriche, e quindi irrimediabilmente inadatte alla prosa del mondo. Emma sognava l’amore assoluto e trovò la mediocrità; Martin aspirava all’autenticità e trovò la superficialità del mercato. Entrambi morirono intossicati da ciò che li aveva nutriti: la letteratura stessa, divenuta veleno quando il reale non ne riflette più la luce. Come Jay Gatsby, Martin Eden si spegne non tanto per una colpa, quanto per l’incompatibilità tra il mito personale che ha edificato e il mondo che lo circonda. In entrambi, si consuma il dramma dell’eroe moderno che tenta di auto-crearsi secondo un’immagine ideale: il successo, la bellezza, l’amore puro. Eppure, se Gatsby muore nel suo giardino, crivellato di colpi, mentre attende una telefonata che non arriverà mai, Martin si dissolve volontariamente, consapevole che il mondo non condivide il suo sogno, né la sua grandezza. In Il grande Gatsby, si legge: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”; ma Martin non rema più, non lotta: egli si lascia travolgere. È l’onda stessa che lo inghiotte, come un Dio elementare che esige la restituzione del proprio figlio ribelle. Il mare, d’altronde, non è solo un semplice luogo della sua fine. Esso rappresenta per Martin l’origine e il compimento, l’archetipo materno e il grembo della dissoluzione. Da giovane marinaio, il mare era stato per lui simbolo di libertà, di iniziazione virile, di contatto primigenio con la grandezza della natura. Aveva conosciuto sulle onde l’ebbrezza dell’avventura, l’ebano dei porti lontani, il misticismo elementare dell’orizzonte. In vecchiaia dello spirito, perché tale è Martin alla fine del romanzo, un vecchio stanco in un corpo giovane, il mare si fa tomba, luogo della resa e del silenzio. Come scrive London: “Aveva raggiunto la vetta, ma la vetta era deserta” (cap. XLVII). Allora l’unica vetta rimasta è quella dell’onda, e l’unico rifugio, la culla dell’abisso. Non a caso, nella concezione naturalistica di Jack London, la natura è sempre ambivalente: salvifica e selvaggia, materna e indifferente, generosa e spietata. Il mare di Martin Eden è esattamente questo: non giudica, non punisce, non consola. È il luogo in cui ogni costruzione umana – ideologica, morale, artistica, si dissolve nel battito eterno delle acque. È l’alternativa mitica alla società, il ritorno allo stato originario, il gesto estremo di chi, fallito il tentativo di vivere secondo i propri ideali, sceglie almeno di morire secondo essi. Il suicidio per annegamento diventa, così, un archetipo tragico moderno, che unisce l’eroe romantico, l’intellettuale disilluso, l’individuo novecentesco stanco di sé stesso. È, infine, una morte sacrificale: Martin Eden muore per testimoniare l’impossibilità di conciliare grandezza e mondo, arte e mercato, sogno e realtà. È l’estrema coerenza di chi, pur avendo tutto conquistato, rifiuta il compromesso. Un gesto non tanto disperato quanto assoluto: come ogni vera tragedia, una morte per onore.Così, nel mare che avvolge Martin Eden, non annega soltanto l’uomo: vi si seppellisce una civiltà dell’individualismo eroico, un’epoca che aveva creduto nel primato dell’Io come forza ordinatrice dell’esistenza. La sua ultima immersione è quella definitiva: non un ritorno al nulla, ma al vero. Un mare antico e indifferente, che tutto riceve, tutto trasforma, tutto dimentica.
Martin Eden si staglia come una figura emblematica all’interno di una lunga e inquietante galleria di protagonisti letterari novecenteschi: l’intellettuale alienato, l’artista tormentato, il poeta senza patria, costantemente in conflitto con una società che non sa né accoglierlo né comprenderlo. In questo senso, Martin si delinea come un fratello spirituale di Stephen Dedalus, l’alter ego giovanile di James Joyce, che aspira a “volare oltre i limiti della religione, della patria, della famiglia” (da Ritratto dell’artista da giovane), sfuggendo a ogni forma di radicamento tradizionale per abbracciare una dimensione di assoluta autonomia creativa e morale. Entrambi incarnano l’anelito moderno all’autonomia dell’Io, alla liberazione dalle catene di un mondo che opprime, ma pagano questo prezzo altissimo con una profonda solitudine e un senso di estraneità radicale. Tuttavia, Martin Eden si proietta anche in avanti, anticipando quella schiera di protagonisti che animeranno la letteratura esistenzialista e realista del Novecento: le anime stanche, disilluse e lucidamente disperate che dominano le pagine di Sartre e Moravia. Personaggi che osservano il mondo con un “disgusto lucido”, come scrisse Sartre ne La nausea, segnati dalla coscienza dell’assurdo e dall’incomunicabilità. Martin è dunque, a suo modo, un precursore di questo dramma esistenziale: non è più il giovane ribelle che lotta per affermarsi, ma un uomo maturo che scopre amaramente l’impossibilità di riconoscersi in una collettività o in un sistema di valori condivisi. L’eredità più profonda di Martin Eden risiede proprio nella sua rappresentazione della coscienza tragica dell’individualità. London, con penetrante intuizione, mostra che l’Io, per quanto forte, determinato e coraggioso, rischia di dissolversi nella propria stessa vertigine se non si radica in una comunità di senso, in un tessuto sociale e spirituale che gli offra ancoraggio e significato. L’individualismo, dunque, che pure sembra celebrato in prima battuta come supremo atto di libertà e autoaffermazione, si rivela un abisso senza fondo: “Era solo. Aveva sempre saputo di essere solo. Ma ora lo era per sempre” (cap. XLVI). Questo profondo senso di isolamento esistenziale e di incomunicabilità segna Martin come una figura profetica, capace di leggere nel cuore vuoto dell’individualismo moderno, e postmoderno, ben oltre il semplice malessere giovanile o il momento di crisi. Non si tratta di un giovanile “senso di inadeguatezza”, ma di una scoperta definitiva: quella che nessuna ribellione, nessun successo, nessun amore può colmare la voragine che si apre quando l’Io si trova sradicato dal mondo, senza radici né casa. Martin Eden denuncia l’illusione che l’individualismo assoluto possa condurre a una vera realizzazione, mostrando invece come esso, alla fine, sia una forma di alienazione estrema, una condanna a vagare “come un animale selvaggio, rinchiuso, senza luce” (cap. XXIV). Non a caso, il romanzo si chiude con un senso di profonda amarezza e di catastrofe interiore, consegnandoci un ritratto dell’artista e dell’intellettuale come figure tragiche, eroi sconfitti da un mondo che non vuole né accettare la loro grandezza né ascoltare la loro voce.
La parabola di Martin Eden è dunque un monito senza tempo: in un’epoca che celebra il culto dell’Io e della performance individuale, ci ricorda che la grandezza senza radicamento è destinata a perdersi nel nulla, e che l’appartenenza è condizione imprescindibile per la salvezza dell’Io stesso. Così, Martin Eden non è solo, come già accennato, un romanzo di formazione, ma una profonda meditazione sull’essenza dell’identità e sul dramma dell’uomo moderno: un individuo che cerca disperatamente di affermarsi, ma rischia di morire nella propria stessa affermazione, come un’isola nel mare dell’indifferenza universale. In definitiva, Martin Eden è il requiem della modernità borghese: quella fondata sulla volontà, sul successo, sulla cultura come riscatto sociale. Ma non è un romanzo reazionario. È, piuttosto, una confessione tragica. Un uomo ha tentato tutto: la cultura, l’amore, l’arte, la fama. E ha scoperto che nessuna di queste promesse salva davvero l’anima. La frase finale del romanzo, silenziosa, lasciata all’immaginazione, è forse questa: la vetta era il deserto. Martin Eden, come l’Ulisse dantesco, “per l’alto mare aperto” navigò con tutto il suo ingegno. Ma, come lui, fu inghiottito. Come scrisse Antonio Gramsci: “Il tragico di Martin Eden è quello di tutti coloro che si sono illusi che l’intelligenza e la volontà potessero bastare, senza amore, senza popolo, senza radici.”
Di Massimo Triolo e Giusy Capone
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