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Albert Camus e Il mito di Sisifo: il vero significato della creazione artistica non è appagare il proprio narcisismo

Scrittori noti capricciosi come bambini hanno piagnucolato in pubblico perché nessuno li legge: continuerò a non leggerli

07 Settembre 2025

Albert Camus

Albert Camus, fonte: X, @FilosofiaStoica

“La creazione richiede uno sforzo quotidiano, la padronanza di sé, l’esatto apprezzamento dei limiti del vero, la misura e la forza. Costituisce un’ascesi. E tutto ciò “per niente”: per ripetere le stesse cose senza concludere nulla. Ma, forse, la grande opera d’arte ha un’importanza minore per se stessa che per la prova che essa richiede da un uomo e per l’occasione che dà a questo di superare i suoi fantasmi, avvicinandosi un po’ di più alla nuda realtà” (Albert Camus, Il Mito di Sisifo).
Scrivo. E’ la mia forma di meditazione. Ma la meditazione non mi basta, sento una coazione a creare, esprimermi, comunicare.
Quante volte ho meditato sull’assurdità di imparare fino alla fine inevitabile, quante volte mi sono rammaricato che l’essere umano sia soltanto hardware che finisce in discarica, senza alcuna possibilità di salvarne le memorie?
Comunicare, condividere, lasciare una traccia del proprio passaggio, lasciare l’impronta della propria mano nella caverna: “Io sono stato qui, unico, irripetibile, diverso da tutti coloro che mi avevano preceduto e mi succederanno”.
Scrivo. E’ un’ascesi tutta terrena, la mia. Ho iniziato quando ho avvertito per la prima volta tutta l’assurdità della condizione umana (non ho citato Albert Camus a caso).
“Dal dolore, la parola” (Paul Auster). Ho subito trovato la mia forma, poi l’ho persa. L’ho persa perché ho completamente perso di vista l’essenziale. Oggi, dopo 15 anni esatti, mi ritrovo al termine e all’inizio di un percorso, il mio percorso. E’ il risultato di 15 anni di pratica dell’ascesi.
Oggi sono pronto a ripetere le stesse cose senza concludere nulla. Sembra poco, ma è tutto. Ho compreso il mito di Sisifo: sono un Sisifo felice.
La mia è la storia di una guarigione, di una presa di coscienza, di un’accettazione del mio Destino.
Nel mio Destino c’è scrivere e io scrivo. Potrei tranquillamente smettere di farlo, se pensassi che lo scopo è pubblicare. MdPR potrebbe benissimo smettere di studiare se pensasse che lo scopo è tenere conferenze. A cosa serve lo sforzo quotidiano se la pietra continuerà in eterno a rotolare a valle dopo essere stata spinta da Sisifo fino in cima?
Tra un istante tutto finirà e ogni sforzo sarà apparentemente stato vano, l’ignorante e l’erudito giaceranno uno accanto all’altro, per sempre livellati.
Dunque, perché restare ore seduto a scrivere o a studiare? Davvero questa fatica mi avvicina alla nuda realtà? Non è forse più corretto affermare che mi allontana dalla realtà, consentendomi di vivere immerso in un mondo (o quantomeno in un contesto) frutto della mia immaginazione? L’ebbrezza del romanziere è proprio questa: creando una narrazione, la vivo, ne divento parte, evado dalla realtà fisica, dal presente, parto per un viaggio alla mia isola che non c’è.
E’ l’unicità della creazione del romanziere, che basta a se stessa. Poco importa se altri, leggendo, visiteranno quell’isola: resterà comunque la sua isola.
Nel mondo distopico dei nostri tempi, è un grande privilegio avere un rifugio sicuro. Io ho il mio. Poco importa se io abbia iniziato a scrivere per raggiungere “sconosciuti amici”, per essere letto e riconosciuto scrittore. Da 15 anni (dopo sette romanzi, una lunga raccolta di racconti) io pratico il mio quotidiano esercizio e – a mio modo – sono felice. Nonostante tutto, nonostante la piena consapevolezza di quello che accade intorno a me.
Questa è la mia arte e la esercito con dedizione e serietà. Il resto è mercato, volgare commercio: i rapporti con la mia agente, con la mia editrice, i premi letterari, le recensioni, le vendite. Di tutto questo oggi posso fare a meno, non è per questo che scrivo.
Nato elitario, non ho alcuna possibilità di diventare popolare: è parte del mio Destino. Mio, unico, irripetibile.
Per scrivere, occorre essere soli.
In una pagina dei suoi diari, Franz Kafka scrisse: “Ho già pensato più volte che il mio modo migliore di vita sarebbe quello di stare con l'occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale dietro la più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le tirerei fuori!”.
Per scrivere, occorre essere soli e io lo sono. Ho scelto una mansarda piena di luce, da cui vedo il lago: non mi distrae. Passeggio in giardino, mi preparo i miei pasti, leggo moltissimo. Il mondo di Frank Kafka era buio e chiuso quanto il mio è luminoso e aperto.
Tutto è stato già scritto: perché io voglio scrivere? “Ma accorgersi che si era capaci di inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da esser contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava, era qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute. Oltre a questo, nulla importava.” (Ernest Hemingway).
di Alfredo Tocchi, 7 settembre 2025

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