01 Settembre 2025
In una villa non lontano dal palazzo del cinema il regista vincitore del leone d`oro 2013 ha presentato il suo documentario durante un incontro con la stampa italiana. Rosi risponde anche a una domanda del GDI parlando della fotografia nel film.
R: Un’esigenza narrativa del film. Dietro alla fotografia in bianco e nero, uno deve anche imparare a “guardare in bianco e nero”. Sono passati 30 anni dal mio ultimo film in quei colori, perciò ho dovuto reimparare a vedere a vedere in bianco e nero, ovvero cogliere tutte le sfumature dei grigi. Le nuvole per me sono una specie di protezione. Ti permette di girare a 360 gradi perché non hai ombre o eccessi di luce, ti aiutano a trovare la distanza giusta con quello che stai raccontando, e in questo caso è ancor più importante la presenza delle nuvole: unico modo per non avere un risultato miseramente contrastato. Io e Alberto, il mio assistente di Napoli, che mi ha portato nelle zone più nascoste di Napoli, e con grande pazienza abbiamo aspettato la giusta illuminazione, anche settimane. In quella città piove tantissimo e ci sono delle nuvole meravigliose. Il titolo Sotto Le Nuvole è un po’ una provocazione, in maniera tale da dare per scontato che al suo interno ci siano tantissime nuvole, ma poi mi è tornata in mente la bellissima frase di Cocteau che ridà un’immagine meravigliosa di questo elemento: il Vesuvio che produce tutte le nuvole del mondo. Pensi che Napoli diventa il mondo stesso, attraverso le sue nuvole che viaggiano ovunque e ne raccontano la storia, facendola diventare una città universale. Come il coro del teatro greco, le nuvole sono sempre presenti ma non interagiscono o influiscono mai sulla storia. La cosa molto bella è che quando vedi una giornata di sole e dici “No, oggi non giro”, non ti senti in colpa.
D:Il film rappresenta una riflessione profonda sul tempo?
R: Un viaggio attraverso tempo, spazio e memoria. Una percezione costante di questo confine quasi invisibile tra quello che è, che è stato e che potrebbe essere, il leitmotiv del film. Napoli una macchina del tempo che ci accompagna tra la storia, le storie e lo spazio; attraverso un tempo in costante trasformazione. Questo film era legato alla necessità narrativa di trasformare la realtà in qualcos’altro, per questo la scelta (precedente anche alla stesura della sinossi) della resa in bianco e nero, che quasi ci obbliga a vedere le cose in maniera diversa, a trasformare la realtà in qualcos’altro.
D: Qual è stato il momento o l’impulso che ti ha fatto scegliere Napoli?
R: È stata un po’ una battuta del mio amico Pietro Marcello, napoletano: io ho sempre voluto fare un film a Napoli e lui mi parlava un giorno di Pompei, dicendomi che non sarebbe mai riuscito ad avere la mia devozione per stare per così tanto tempo in luogo e raccontarlo. In quel momento mi ha aperto uno spiraglio: perché non Napoli, è una sfida enorme. Ho fatto un paio di viaggi da turista e la mia prima impressione è stata di qualcosa che nasconde sempre qualcos’altro, come un fuoricampo immenso. Una volta Bernardo Bertolucci mi disse, commentando “Sacro GRA”, mi disse che il motivo per cui lo aveva colpito molto il film era perché raccontavo anche quello che non si vede, quello che resta fuori dall’inquadratura. Questo commento mi diede modo di ragionare in maniera molto diversa: quando faccio un’inquadratura, racconto una storia, devo sempre tener conto del fuoricampo, di quello che non si vede. Io faccio molta fatica a fare le fotografie, poiché non riesco a dare un prima o dopo a quella dimensione, farlo con un solo fotogramma mi sembra impossibile. Napoli contiene costantemente tutto questo: quello che tu vedi è qualcosa che al suo interno contiene qualcos’altro; la ricerca, per questo motivo, è stata sempre quella del fuori campo, ciò che mi ha principalmente spinto ad accogliere questo film e accettarne la sfida implicita.
D: Perché ha sentito il bisogno di mettere nel film le ripetizioni date ai ragazzi?
R: È stato anche quello un incontro: Torre Annunziata è un luogo fermo negli anni ‘50/60 e volevo appunto filmarne i negozi, anche loro fermi in quegli anni, e in quell’occasione abbiamo incontrato Titti, questo maestro di strada, che era con una bambina di 7 anni e gli ho chiesto se fosse la sua nipotina e la stesse aiutando a fare i compiti. Lui mi rispose che faceva il doposcuola per i ragazzi, poco dopo ne entrarono e cominciò a fare lezione a questa comitiva di giovani. Lui, per me, è un personaggio meraviglioso: accoglie questi ragazzi e li toglie dalle strade, aiutandoli a non “perdere la giornata”, in quel luogo riuscivano a lavorare e studiare, legato al senso di devozione di Titti che non vende assolutamente più nulla in quel negozio ma offre a questi ragazzi il suo tempo, la sua conoscenza e soprattutto la sua pazienza, ogni giorno dopo l’orario scolastico. Una delle prime storie che ho incontrato, una delle più difficili da filmare, tenendo a bada tutti questi ragazzini: Titti è stato una delle figure più fondamentali del film, per quanto mi riguarda. Montando, successivamente, ci siamo accorti che i personaggi avevano qualcosa in comune: il senso di devozione, una devozione laica del “darsi a qualcuno”, facendo qualcosa per gli altri e Titti ne è un esempio meraviglioso.
D: Fare un film in bianco e nero su Napoli è un paradosso quella è la città del colore e del rumore. L’operazione è stata fatta con quale spirito? Come mai nessuna ripresa della cappella di San Severo, uno dei posti più strani di Napoli?
R: Questo perché ho girato la Napoli dei paesi vesuviani, una scelta iniziale. Ho girato soltanto i sotterranei del MAN, dove ho incontrato Maria, personaggio incredibile, custode della memoria e del passato. Tutto il resto del film è stato girato nei paesi vesuviani, quindi nella Valle del Sarno che per me è “l’altra Napoli”, la zona forse meno conosciuta e più legata al passato (un altro dialetto, altre abitudini culinarie). Il bianco e nero è stato una scelta narrativa e non estetica, un’esigenza di creare un archivio contemporaneo.
D: Secondo lei Napoli è diventata troppo rumorosa per ascoltarsi davvero?
R: Per me il silenzio è fondamentale, anche nel film. Nel mio racconto quando parlo di silenzio parlo anche di quel legame che c’è tra una storia e l’altra e quindi raccontarlo è stato un’altra sfida nel film. Le voci protagoniste nel film sono quelle delle persone che chiamano il centralino dei vigili del fuoco, attraverso le quali si può viaggiare con l’immaginazione verso un lugo, un contesto, un evento. Per questo ho il silenzio, per me diventa una voce, diventa i suoni della natura, diventano i suoni che abbiamo registrato sott’acqua.
D: Ha creato il film nell’arco di tre anni. Quanto materiale è rimasto fuori?
R: Ha aiutato moltissimo costruire il film attraverso il montaggio, mentre con tutti gli altri lavori ho iniziato il montaggio una volta terminate le riprese, in questo caso ho sentito la necessità di montare durante le riprese. Il film ha vissuto una riscrittura importante attraverso il girato, ciò ha aiutato moltissimo a sintetizzare, creare dei raccordi e dei legami tra una storia e l’altra. I personaggi non sono mai stati scritti prima, sono arrivati in maniera casuale: incredibile come ogni storia che nasce da mondi così diversi, attraverso il montaggio trova un unico legame, diventando una cosa unica. Il difficile è stato decidere quando fermarsi con una storia, quando dovesse avere un inizio e una fine, quando nel montaggio entrare in un altro racconto: una riscrittura costante fatta nell’arco di tre anni.
D: Le immagini di repertorio del film sono trasmesse all’interno di due cinema dismessi, fatiscenti. Le sale cinematografiche sono anch’esse un sito archeologico, alla pari di Pompei, Ercolano…?
R: Inevitabilmente c’è un richiamo di archeologia in queste sale distrutte che contengono solamente memorie. Io volevo usare l’archivio in questo film ma non in maniera convenzionale, non volevo fosse un contrappunto dei racconti, non volevo semplicemente accostarlo delle storie. Quando ho incontrato questi cinema abbandonati ho capito che quello sarebbe stato il modo per raccontare l’archivio, come se questi schermi inesistenti trattenessero la memoria, il passato, ciò che rimane. Come se le proiezioni diventassero anch’esse scavo, archeologia.
D: Napoli sta subendo una trasformazione spaventosa: come va evitata la turistificazione iperbolica?
R: Girando dall’altra parte, non nella Napoli turistica. Trovo che il turismo sia una nuova forma di colonizzazione che distrugge il tessuto sociale, anche a casa mia a Roma ora è cambiato tutto, persino i piccoli negozi che avevo davanti a casa sono diventati B&B. Un turismo mordi e fuggi le cui conseguenze sono più gravi dei vantaggi di crearlo. Se avessi girato a Napoli sarebbero stati due film completamente diversi.
D: Cosa ne pensa del dibattito del festival scatenatosi negli ultimi giorni della questione palestinese. Se e come racconterebbe quanto sta accadendo come documentarista?
R: Per raccontare quanto sta accadendo uno dovrebbe vivere a Gaza, in quell’inferno. Per quanto riguarda il dibattito: quello che mi dispiace è che tutto si risolva in un momento, quello che poi mi preoccupa è che finisca tutto qua. Mi chiedo per quale motivo non ci sia stata una manifestazione con 3 milioni di persone davanti all’ambasciata, e in tutte le altre ambasciate nel mondo. Ben venga la dimostrazione, ben venga tutto, la mia paura è che tutto dopodomani finisca vittima del nostro egoismo quotidiano. Questo è forse il mio film meno politico, anche se credo che dietro ogni inquadratura ci sia sempre una forza di racconto politico, una presa di posizione.
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia