03 Settembre 2025
Si fa un gran parlare della miniserie di Marco Bellocchio sul “caso Tortora” presentata a Venezia, se ne loda l'accuratezza scenica, la ricostruzione meticolosa di un'Italia a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta che ormai è archeologia. Va bene, esaltiamo pure l'amarcord estetico, ma il caso Tortora fu qualcosa d'altro, fu la macchia nera dell'Italia repubblicana e garantista, che non va via, che non passa anche a rimuoverla. E non passa perché copre tutto, offende ogni ambito della vita democratica, la magistratura come l'informazione, la politica come la pubblica opinione. Enzo Tortora, stella del giornalismo e dell'intrattenimento fin dagli inizi della televisione, diventa in una notte un criminale mafioso per la giustizia e per l'opinione pubblica: il suo incubo si trasformerà in formula, modo di dire, vittimismo peloso, "Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora". Non è quello che avrebbe voluto la vittima del "più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese", come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca. Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Feltri, Montanelli tra qualche caduta di stile - proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il "crucifige!", col solo Partito radicale di Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno, tutti, clamorosi balzi in carriera fino a conquistare i massimi ermellini; oppure nella pubblica amministrazione, perché si sa che il giudice è multitasking, lo puoi far salire di grado, mettere in Parlamento, nei giornali, alla guida di una casa editrice come nella burocrazia.
Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”. Si era scatenato il cafarnao, dare addosso a Tortora era facile e in certo senso doveroso: la stampa non va per il sottile, ci sono opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, che dimostrano superficialità carognesca: "Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto". E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi "commissari torturatori". Tortora è ligure affabile ma spinoso, odia la volgarità del divismo, nel privato è scostante, non frequenta, “io non ho colleghi, la parola colleghi l'ha inventata, credo, la mafia”; è uomo di giudizi trancianti e di poche amicizie dunque il bersaglio ideale, in chiesa sua madre viene insultata. È difficile considerare Tortora innocente, si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono, la logica sommaria del “qualcosa avrà fatto” condiziona anche qualche giudice legalitario e antimafia.
Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando il presentatore viene riabilitato, cedono alla commozione, piangono come lui, insieme a lui. 1.768 giorni dura il calvario di Enzo Tortora, dal giorno dell'arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8. Dopo di lui, gli italiani scoprono che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell'impotenza sembrano non avere mai fine.
Alla vigilia, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente con tanto di nome forte, uno della televisione. Uno grosso, “Uno che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto”. Quella giusta è la“T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, riattacca e non ci pensa più. Lo andranno a prendere poche ore dopo, in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ma fa più effetto più la sua faccia stravolta, stupefatta e disfatta mentre i giornalisti scattano sui polsi e dalla folla sale la schiuma dell'odio: “Pezzo di merda, figlio di puttana, ladro, pena di morte!”.
Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: "Tortora ha confessato". Quando, dove? Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle. Scriveva su “la Nazione” del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n'è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella.
E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto "Applausi e sputi". Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta. Un bel giorno Tortora si scoccia: “Se lei continua ad insistere – risponde – passerò la faccenda all'ufficio legale della Rai". I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800mila lire più per pietà che per altro. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari. Sarebbe la prima prova d'accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati. “a scrivere è un altro Barbaro", un omonimo. Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o Giappone", sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l'agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "Provate a chiamà, dottore...". Cinque mesi ci mettono, i giudici, a "provare".
Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a rilasciargli un certificato, ha tentato di annientare i parenti, padre, madre e fidanzata. "Schizoide e paranoico" per i medici, bocca della verità per i giudici. È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero. Si era pentito. Un altro è Pasquale Barra detto "o ‘animale", serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è rimasto recluso fino alla morte, nel febbraio del 2015, ma sotto regime privilegiato con uno speciale programma di tutela. Il più appariscente è Gianni Melluso detto "il bello" o "cha cha cha", aspetto di cialtronesca ricercatezza, da cantante da crociera. Entra ed esce di galera, ultimamente per sfruttamento della prostituzione. Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino. Ammetterà Gianni cha cha cha, ma solo nel 2010, in una intervista all'Espresso: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla, l'ho distrutto a malincuore dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie" (supplica rispedita al mittente: “resti pure in piedi”). Un altro che lo accusa di spacciare davanti a tutti negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti, una vita di espedienti, frustrazioni e compagnie da sottobosco, una di quelle figure squallide che però possono anche distruggerti. Anche lui, a tempo largamente scaduto, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo.
Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo, accusa che suscita ironia nello stesso supercriminale: nel carcere dell'Asinara, dove sconta l'ergastolo, "don Rafaé" incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare: il breve dialogo che ne consegue, è surreale: "Dunque, io sarei il suo luogotenente". Poi porge la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cose che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte fra l'altro discordanti, costruiscono il loro castello accusatorio. I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191).
Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento Europeo; il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine in 6 tomi, uno dei quali appositamente su Tortora per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l'inversione dell'onere della prova. Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce romanticamente Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che Tortora sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria".
Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile. Già eletto a Strasburgo, si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare: nel frattempo ha maturato una consapevolezza nuova, l'impegno assiduo in favore dei compagni di prigionia: "Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito". Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere fino alla fine: “Io sono innocente” dice ai giudici; “Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Gli credono, finalmente. Il 15 settembre 1986 la Corte d'Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, “Dove eravamo rimasti?”. Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella. Lo hanno spezzato.
E finisce così. Nessuna commissione parlamentare questa volta, meglio voltar pagina e dimenticare. Ma “il caso Tortora” non finisce, diventa emblematico, per la cifra allucinante, perché molti lo usano, perché la stessa magistratura ci ricasca troppo spesso. Da malato terminale, Enzo Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire. Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, sorto sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca. Nel frattempo la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette. L'ultima intervista, al programma "Il Testimone" di Giuliano Ferrara (che rimedia una querela da tre giudici), è atroce. Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: “Lei mi disse allora: "Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei...' E io le dissi: "Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo...". Poi non riesce più a parlare, gli manca il fiato, stava già morendo. Non lo uccide il cancro, il cancro è solo il cedimento del fisico ad una mente straziata, che non regge la vergogna dell'innocente.
Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti che le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare. Resta l'impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Marco Pannella.
Se volete andare a trovare Enzo Tortora, le sue ceneri riposano al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Ogni tanto c'è chi lascia foglietti, immagini sacre, è capitato perfino qualcuno che chiedeva perdono. Sotto l'urna, che dietro il vetro sembra ricordare un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione:
"Che non sia un'illusione".
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