04 Gennaio 2023
Otto anni senza Pino Daniele: volati senza mai passare. Da non crederci quella mattina di inizio 2015 quando sgomenti scoprimmo che se n'era andato in un'autoambulanza, diretto all'ospedale, a Roma, da Magliano di Grosseto: non voleva, diceva la supero anche questa, sai come sono i napoletani, c'è sempre una nuttata che ha da passà. Quella volta non passò. Poi forse è vero che un pezzo del suo cuore aveva smesso di funzionare quando si era fermato il cuore di Massimo Troisi. Due artisti, un'anima, una città. Un mondo a parte. E se dico che certe voci solo a Napoli possono nascere, solo da lì possono salire, fuggire per tornare sempre, questa non è retorica: c'è qualcosa, ogni luogo ha un suo genio e Napoli è una faccenda speciale, in bene come in male e Pino Daniele Napoli l'amava ma a modo suo, appassionato ma asciutto, l'amore disilluso e amaro che nutre chi non si chiude gli occhi, velato di malinconia per l'ineluttabilità.
Passa ' tiempo e la faccia di Pino cambia per non cambiare mai. Quell'aspetto sciamannato della gioventù, la chioma esagerata che via via diventa bianca per sfoltirsi nella maturità. All'inizio quella faccia si porta addosso un che di ingenuo e perverso, l'esperienza di chi nasce in una faccenda speciale. Poi l'esperienza di musicista globale ne addolcisce i tratti, ma il sorriso resta quello: una tristezza avvolta nella malinconia, sovrastata da una curiosità che nasce dal divertimento per questo strambo vivere.
Coi suoi troppi by-pass, si era rimesso a suonare parecchio in giro; forse troppo. Un giro di telefonate per rimettere insieme quell'incredibile band partita un'epoca prima dall'incredibile combo di Napoli Centrale, che poi aveva innervato il suo capolavoro, Nero a metà, ripubblicato poi scorsa in versione arricchita: ancora tutti loro, il nero del sax, James Senese, Gigi De Rienzo, Agostino Marangolo, Ernesto Vitolo, Rosario Jermano, Tony Esposito, Joe Amoruso, anche Tullio De Piscopo, ripresentatosi su un palco per questa avventura dopo avere sconfitto miracolosamente un tumore al fegato all'ultimo stadio. Vecchi marpioni di un'epopea irripetibile, imbiancati, segnati, ma ancora e sempre ribollenti di musica da far volare. Un sacco di concerti e il 2015 si annunciava strapieno di nuove date, di iniziative. Pino era in forma, la chitarra suonata alta sul petto, alla maniera dei bluesmen. Anche nel solito atroce programma di fine anno, sulla Rai, e davvero pareva assurdo vedere Pino in quell'incubo fantozziano. Ma le vie del Signore sono finite, e quelle del Dio dei dischi pure. Lui lo sapeva, come tanti altri grossi calibri di un passato recente era anche tornato alla dimensione autoproduttiva, fondando una sua etichetta, Blue Drag.
Aveva suonato tanto, in quell'ultima stagione della vita, aveva suonato troppo; forse se la sentiva, i musicisti hanno certe antenne puntate sul destino. Nei filmati appariva a volte stanco, ma felice. Non “fesso e cuntento”, se mai appagato. Sapeva che non avrebbe più venduto come un tempo, sapeva anche che la creatività migliore se n'era andata: “Oggi non potrei più scrivere cose come Napule è, avevo 18 anni”. Ma di certo non mollava: aveva capito che l'unica strada era la strada, era il palco, restare in tour, amministrare se stesso, ancorato a una carriera meravigliosa in cui ha suonato con gente da dimenticare ma ormai se lo poteva pure permettere, dopo avere incrociato il manico con Chick Corea, Eric Clapton, Pat Metheny, Mel Collins e infiniti altri. Come musicista, come chitarrista, era uno dei più quotati d'Europa, come minimo; il tocco pulito poteva riportare a Santana, ma la sua ricerca su tutti i generi era incessante, voleva fonderli, trovare qualcosa di nuovo, da ultimo si era spostato sul madrigalismo, sulla tradizione ottocentesca, sulla romanza.
Si è fermato alla boa dei 40 anni di carriera. E davvero avendo ridefinito i lineamenti di un suono diventato “Neapolitan Power”, un calderone ribollente di tradizione – Roberto Murolo il suo mentore - compromessa col blues, il jazz, soprattutto un funky torrido, nero a metà ma anche qualcosa di più. Daniele era di quei musicisti che sanno di essere musicisti da subito e studiano, studiano e ridefiniscono il suono, approfondiscono le armonie. I suoi primi colpi hanno la semplicità virtuosa, che sfronda, e consente melodie bellissime: un lavoro già esperto, ma aveva 20 anni e poco più. I primi quattro dischi, Terra Mia, l'omonimo Pino Daniele, Nero a metà appunto e Vai Mo' a cavallo tra i '70 e gli '80, lo fanno uscire con metodica progressione, fino alla consacrazione, il graduale spostamento verso atmosfere world, anche una commercializzazione discussa, con quello Scarraffone in tributo dell'Renato Carosone, 'O Sarracino. Furono proprio i problemi di salute, il cuore di carta a rallentarne la corsa all'inizio degli anni Novanta, quando si era già affermato anche come autore di colonne sonore per il cinema, regolarmente per pellicole che trattavano della sua città. L'ultimo colpo nel 2012, con la raccolta di inediti La Grande Madre, che tornava a un livello compositivo di tutto rispetto amalgamando nel modo più felice da tanti anni le molteplici influenze della sua musica. Con dentro almeno un paio di potenziali grandi classici, Melodramma, scritta con Gianluca Podio, e Le Scarpe, dove scomodava perfino i Procol Harum. A modo suo, senza scansionare nessuno. Gemme da infilare nel Pantheon di questo autore insieme a momenti meravigliosi come Napule è, Chi tene 'o Mare, Terra Mia, Maggio se ne va, Acqua 'e rose, Viento, Sulo pe' parlà, Quanno chiove... Sono queste, anzitutto a parlare per lui. Brani pieni di sole, e di sale, e di mare, che parlavano un napoletano univerale e arrivavano dritto al cuore, lacerandolo, distruggendolo. E se dico che quelle canzoni hanno dentro un sole diverso, velato, feroce, sporco come una cartaccia, ma felice come un lazzaro, sarà anche retorica ma provate voi ad ascoltare passeggiando per quelle strade: allora si capisce tutto, e tutto va al suo posto.
A risentirle adesso, queste canzoni, viene addosso uno struggimento dolcissimo e invincibile che forse solo chi è salito da Napoli può capire davvero, una saudade inzuppata nel sole, nel casino e nelle contraddizioni; gli altri, possono solo intuirla. Ma la intuiamo. Possiamo impregnarcene, anche noi, gente della provincia e l'Italia è tutta una provincia. Qui c'è una lingua musicale tutta particolare, fatta di finezze, ammiccamenti e ironie, di sguardi, come quelli scambiati con il fratello di sangue Massimo Troisi. Avevano di bello, oltre al resto, quei pezzi, che erano suonati, arrangiati da gente che saliva da quel fumo di terra, un battito, una blue note sapevano cambiare il mood. Chi ascolta magari non coglie ma ne viene attraversato. Ma non vi piglia dentro qualcosa, la voglia di andare a Napoli per mimetizzarvi col male che avete dentro, e che non passa, sta con voi anche se fuggite via da tutto, vi disperdete come una carta sospinta dalla brezza?
Pino Daniele era un polemico. I compromessi gli davano rabbia proprio. Tante cose non le sopportava, a Napoli e al mondo. Con quel culto dell'Africa, della negritudine, della Terra in generale, da salvare, da difendere. Forse oggi avrebbe scritto una canzone sull'ambientalismo onirico, fortuna Dio ce l'ha scampata. Resta la sana incazzatura di chi tiene gli occhi bene aperti: non è il caso di farlo santo per questo, ma era un artista fatto così. Non i vani gesti eclatanti – il suo campanilismo campano non prevedeva eccessi, volgarità: lasciava spazio alla linguaggio del suono. Ma è sempre stato uno scontento, da subito. Je so pazzo, la celebrazione di Masaniello “cresciuto”, diplomato, si annuncia insofferente fin da quel meraviglioso arpeggio di chitarra acustica nell'introduzione; poi un ritmo ossessivo, i tonfi di rullante a sostenere il disagio di chi, in fondo, si sente esule di posti che gli appartengono. “E oggi voglio parlare”, la maschera eterna che zitta non ci sta, che vuole rompere i coglioni. C'è più violenza qui dentro che in tutte le fanfaronate estreme che ci fracassano i padiglioni in mille salse, quasi sempre insipide. Ma una violenza bella, piena di significato, di poesia, mai cieca, mai stupida. Ecco cosa fa un artista, ecco come un artista diventa un fuoriclasse. Ogni volta che un grande musicista si imbatteva nelle sue canzoni, fosse dall'Africa o da Londra o dal Brasile, diceva più o meno la stessa cosa: non capisco cosa dice ma sento che sta dicendo cose importanti. Quando poi lo conoscevano, ne restavano conquistate. Se poi ci suonavano insieme, tenevano quei momenti nello scrigno dei ricordi più preziosi. Più intensi. Più violenti. Uno così ha un cuore che non può invecchiare.
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