13 Maggio 2025
Nel cuore pulsante delle nostre società moderne si annidano forme sottili ma pervasive di esclusione e sofferenza, travestite da virtù. Questo trattato si propone di indagare il legame tra moralismo, perbenismo e ambizione, evidenziando come la spinta a “fare il bene” o a “diventare qualcuno” possa, se non interrogata, diventare il volto mascherato di una malvagità inconsapevole. Attraverso uno sguardo clinico e sociale, si esplora il ruolo delle identità fragili, delle compensazioni narcisistiche e del desiderio di rivalsa nell’alimentare dinamiche relazionali patologiche e una cultura del successo che, anziché realizzare, devasta.
Il paradosso della virtù
In un’epoca che si proclama laica, democratica e civile, l’ingerenza del moralismo nei temi più intimi dell’esistenza – dalla nascita alla morte – rivela ancora una volta la sua natura più inquietante: quella di un potere invisibile che si traveste da tutela, ma esercita controllo. È accaduto recentemente con l’impugnazione della legge regionale sul suicidio medicalmente assistito da parte del Governo italiano, accolta con entusiasmo dai movimenti Pro Vita, come se il diritto di morire con dignità fosse una minaccia all’ordine morale e non una richiesta estrema di libertà consapevole.
È la stessa logica che, negli anni, ha ostacolato l’accesso agli anticoncezionali, ha condannato la scelta di abortire, ha ignorato il dolore silenzioso delle madri in depressione post-partum o delle donne costrette a mettere al mondo figli non voluti, che finiranno troppo spesso in strutture istituzionali incapaci di offrire quel calore e quella competenza affettiva che purtroppo già manca anche in tutori e caregiver, delegando allo Stato l’onere – e l’illusione – della genitorialità.
Dietro ogni slogan per “difendere la vita” si annida un pensiero che non contempla l’esperienza soggettiva del dolore, della libertà e della responsabilità. Un pensiero che preferisce l’astrazione del “bene comune” alla complessità delle singole vite. Un pensiero, appunto, moralista. E come spesso accade al moralismo, esso non conosce la compassione autentica, ma si nutre di esclusione. Non si pone domande, ma formula sentenze. E nell’illusione di proteggere, finisce per infliggere.
Le donne che decidono di interrompere una gravidanza non sono meno madri di quelle che partoriscono: sono spesso le uniche a portare su di sé il peso etico reale della scelta, in assenza di un contesto affettivo ed economico che garantisca ai loro figli un’esistenza degna. Quelle stesse donne che hanno lottato per emanciparsi dalla dipendenza riproduttiva non hanno cercato una “licenza di uccidere”, ma uno spazio di autodeterminazione per non condannare altri esseri umani a una vita mutilata dalla mancanza di cure, attenzioni, amore. E quando una madre viene lasciata sola, quando un bambino cresce in strutture istituzionali prive di reale calore umano, il danno psichico che ne deriva non è solo individuale, ma collettivo, transgenerazionale.
Analogamente, chi chiede di morire con dignità non rifiuta la vita in sé, ma il prolungarsi di un’esistenza svuotata, ridotta a sopravvivenza meccanica. La richiesta di interrompere un dolore insostenibile non nasce da fragilità morale, ma da una lucidità estrema: quella che distingue l’etica vera dal moralismo sterile.
Questo articolo nasce per smascherare le maschere del “bene apparente” – il perbenismo compiaciuto, il moralismo predicatore, l’ambizione cieca – e per denunciare il danno psicologico e sociale che tali posizioni, se elevate a sistema, producono nei singoli e nella collettività. Danno che si esprime, spesso, in forme insidiose di malvagità inconsapevole: quella che si compie convinti di essere nel giusto, ma che si alimenta dell’esclusione e del giudizio.
Se non torniamo a riflettere sulla complessità delle scelte umane, se non distinguiamo l’etica dalla morale imposta, se non ripensiamo l’ambizione come espressione evolutiva dell’essere e non come compensazione narcisistica del dolore, continueremo a creare vittime invisibili. E alcune di queste vittime, crescendo, si trasformeranno in carnefici: adulti potenti, ma emotivamente disabitati, che scambiano il successo per valore e la forza per verità.
di Edoardo Trifiró, Psicologo e Consulente in sessuologia
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