08 Marzo 2025
A Milano la via Vittor Pisani che parte dalla Stazione Centrale, dal Pirellone incombente e arriva in piazza della Repubblica dovrebbe essere una delle arterie brevi, nobili del cuore cittadino e invece ha qualcosa come di lugubre, di minaccioso. Di decomposto e non tanto per i barboni che bivaccano sotto i portici sepolti da coperte o quelli che passano e hai la certezza che se gli gira ti tirano una coltellata, così, perché gli gira, adesso anche il vezzo, misterioso, improvviso degli asiatici che si stendono scalzi, i piedi per aria davanti ai locali e i ristoranti dove ti rapinano, 20 euro un piatto di spaghetti alla conserva di pomodoro. Qui, da qualche parte, in un meandro laterale c'è la Gintoneria delle Marchi, madre e figlia, con certi soci da far paura e ribrezzo, il Lacerenza fottuto dalla coca, quell'altro che si fa chiamare “Champagne”. Ma la Finanza immagina tutt'altri giri di malavite balcaniche, di riciclaggi sfrenati e ha chiuso il locale che dava il tormento a tutto il vicinato perché ci andavano i fattoni ricchi, perennemente fuori di testa nello sgasare di fuoriserie e negli strilli delle puttane tra le quali una chiamata puzzola perché maleodorante, non si è capito se per scelta o per sciagura biologica ma era la più contesa, anche diecimila euro per annusarla in tutti gli anfratti. La Gintoneria appena chiusa è diventata un santuario, meta di pellegrinaggio: ci vanno i miserabili a farsi i selfie, i vorrei ma non posso ma voglio lo stesso che si accontentano di una foto davanti al portone sigillato.
Perché ci vanno? Perché quello era il tempio del malaffare, dello squallore, del puzzolente, il sacrario della truffa e della rovina. Ci andavano in tanti, chi poteva e non poteva ma voleva lo stesso, i politici moralisti che sapevano benissimo, le influencer di malaffare che finiscono alla Zanzara di Cruciani, i milanesi laidi dei circoli e circoletti cittadini tra l'affarista e l'evasore, massonici e perbenisti. Diciamo che la “Ginto” era anche la dèpendance di un certo milieu trasversale dove si intrecciano gli affari con la politica e vanno a farsi pagare i parolai in fama di filosofetti o intellettualini, quelli bravi a far credere a parole di sapere quello che non sanno, benaccetti dai trafficanti e trafficoni edilizi di cui il sindaco non si avvede o non si cura. Ci bivaccavano pure gli sbirri corrotti dalle Marchi e dall'ex scaricatore ai mercati generali che in tutti i sensi aveva sfondato, a 60 anni stava con una di 18 e la allevava al mestiere fin da quando era minorenne. Non poteva mancare Corona che vedeva tutto, sapeva tutto e adesso dice che racconterà tutto. Lui, come le Marchi avanzo di galera ma di quelle scorie che com'è come non è rientrano sempre in circolo.
E i nessuno ci vanno in pellegrinaggio. Dare la colpa alla scuola? Alla politica? Alla società? Alla tecnologia? Al liberismo amorale? Ma sì, metteteci tutto quello che volete, trovate gli alibi che volete, sta di fatto che il garantismo consumismo e cattolico è miserabile e incomprensibile, ad uno che cede a peccati da niente spalanca le porte dell'inferno, a chi l'inferno lo abita e lo infligge ad altri perdona tutto, chi siamo noi per giudicare? E siccome giudicare implica distinguere, cioè la sanità di mente, questo cattolicesimo consumistico pretende la lobotomia o almeno l'ipocrisia come massima evangelica. E poi ci lamentiamo perché le giovani generazioni non distinguono? Perché fanno la fila davanti ai sigilli del “Ginto” per ritrarsi con la lingua di fuori e la faccia dei mostriciattoli che inseguono la merda? Oggi, Festa della Donna, se ci andate davanti al “Ginto” trovate una giusta quota rosa di femmine di ogni età pronte a rivendicare insieme la dignità dell'autonomia e l'aspirazione alla prostituzione più degradante. E a fare schifo non è che tanto succeda ma che sembri normale, che sia normale e che l'unica cosa inaccettabile sia ragionarci su, sia giudicare la miseria umana per quella che è. Il senso dei disperati che si fanno i selfie davanti a un bordello chiuso dalla polizia sta in sé, come qualcosa che chiude il cerchio, qualcosa di definitivo che lascia senza parole perché non servono più, perché non c'è altro da dire. Si voleva, si predicava la fine delle categorie kantiane come del manicheismo cristiano, il giusto e buono da una parte, il pessimo e il vietato dall'altra, e alla fine conti chiari, bocce ferme, chi ha agito bene va su, chi ha razzolato male finisce negli abissi dove non c'è redenzione? Ecco, ci siamo, Nessuno mi può giudicare non più una canzonetta beat ma l'unica regola evangelica predicata e praticata anche dai preti. Salvo non transigere sui nuovi peccati sociali e politici che hanno sostituito quelli morbosi, non più l'atto impuro, eccentrico ma il rifiuto di farsi trucidare dai cannibali importati.
Nessuno tocchi Caino vuol dire fate a pezzi Abele, perdonare settanta volte sette vuol dire approfittatevi che niente vi succederà. Nessuno giudichi nessuno significa che anche la magistratura cinica si adegua, le leggi sì, le sentenze e le condanne sì, ma poi chi fa parte del giro losco che mette tutti con tutti non le si sconta o le si sconta col giusto agio, a singhiozzo, nella restrizione domiciliare lussuosa. Non giudicate e non parlate male di Lacerenza, Champagne e delle Marchi madre e figlia perché presto, prestissimo torneranno come sempre in auge e questo i selfatori del Ginto lo sanno: non vanno in pellegrinaggio con l'aria mesta di chi celebra una fine ma col piglio allegro di chi aspetta la resurrezione imminente e certa.
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