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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Sapessi com'è strano sentirsi di morire a Milano

Cronaca di una giornata particolare, tra smart working, parole di stoppa e una modernità artificiale che non lascia speranze. Ecco come vive la gente, invecchiando senza prospettive e senza socialità. Inchiodata al non saper che fare, al vuoto di una "call", alla paura di ritrovarsi fuori.

13 Dicembre 2024

smart working

Da una parte quelli che tengon su la baracca bestemmiando nel gutturale bergamasco o marchigiano, “non ce la faccio più, la burocrazia europea mi ammazza, ma devo farcela”, dall'altra quelli che vivono di fantasmi, vivono dell'aria mefitica delle parole bugiarde che nascondono inganni crudeli. A Milano sono ospite di un vecchio amico, uno del liceo, il leggendario Carducci di Battiato, Monicelli, Craxi e modestamente anche nostro, 45 anni fa, figuratevi, e lui lavora da casa o, come si dice, in smart working per un gruppo bancario di quelli enormi, europei. La mattina alle 7 si alza e, ancora in pigiama, si collega: “Io annoto numeri, riporto numeri, ma non so letteralmente che cazzo sto facendo”. Stamattina Milano è terribile, una coltre metallica d'inverno, quando i palazzi alti dieci piani ti sembrano schiacciati sotto la maledizione del vivere, ed è giorno di conferenze, tre in successione. “Vieni vieni che ti faccio vedere”. Si collegano in due o trecento per sentire un omarino che si illude che lo stiano a sentire e comincia così: “Buona giornata e, visto che ci siamo, buone feste a tutt e a tutt”. Perché le forme del politicamente corretto vanno rispettate anche in banca. Anche da remoto. Intorno al banco, anzi al desk, ci stanno una decina di sottoposti in un intrico squallido di cavi, di fili, tutti con l'aria vagamente depressa, uno dalla chioma fluente ha puntato la collega di fronte, si vede benissimo anche da qua. L'ometto finge di non accorgersene e, vagamente tetro, rassegnato, attacca una litania manicomiale: “Si chiude un anno di forti criticità che peraltro non ci hanno impedito di empowerare, ehm ehm, i nostri schill nel senso della crescita continua, sempre in linea con quelli che, ehm ehm, sono gli obiettivi primari da condividere”. E va avanti su questo tono, salmodiando parole di stoppa. Il mio amico tradisce un ghigno amaro, io, che pure sto lavorando in remoto, da casa sua, smetto di scrivere perché la cosa mi sconvolge: e sì che me ne occupo da decenni, da quando la Publitalia di Berlusconi e Dell'Utri inaugurò una nuova frontiera del fumo aziendalista, efficientista, divise tutte uguali, sul blu spento, di quell'eleganza un po' sul volgare e un po' sul saldo di fine stagione, mentine per l'alito sempre pronte insieme al prontuario delle frasi fatte, dei “mi consenta”, ricordate?, ma una vertigine del grottesco come questa non l'avevo mai vissuta, supera le colonne d'Ercole del patetismo, raggiunge il punto di non ritorno della stupidità inconsapevole. O forse rimossa, che è anche peggio. Venti minuti inesorabili a furia di schillare e empouerare “in linea con quelle che sono le prospettive, ehm ehm”, il nulla assoluto, abissale, finché l'omarino conclude “Ancora grazie a tutt e tutt e a presto”. Poteva dire “a prest”, come Cattivik.

“Vuoi un caffè?” mi chiede il mio amico per prevenire eventuali osservazioni. Vada per il caffè, ma alla svelta, alla milanese, che c'è da collegarsi subito per la seconda conferenza, anzi “la call”. Stessi due o trecento di prima, cambia solo l'ometto che fa gli stessi saluti e ripete esattamente le stesse cose di quell'altro. Il mio ospite ne approfitta per sgranchirsi, fa pure qualche piegamento polemico sulle gambe. Poi mi fa: la vedi quella lì, in alto a sinistra nello schermo? Ecco, a quella le darei volentieri una bottarella, anche due. Io esterrefatto: sto imparando, gli dico, più in questa mattina “smart” che in anni di libri sociologici su come cambia il lavoro. E cambia: il mio amico è un uomo intelligente, possiede il senso dell'autoironia e non ne fa un dramma, anzi dice che gli sta bene così, però mi guarda con occhi indulgenti, quasi comprensivi, che non gli conoscevo: fin dal liceo per lui, per tutti ero quello sentimentale, gozzaniano per non dire un po' sfigato, non parliamo poi quando al primo anno di università, ah, i casi della vita, dovetti lasciare la grande metropoli per rintanarmi nelle Marche marinare; il telelavoro praticamente l'ho adottato, nel 1990, fresco di inutile laurea in Giurisprudenza per gettarmi nel mare periglioso del giornalismo che in provincia era al più un laghetto ma non privo di insidie, di pericoli. Comunque sempre imploso, sempre da solo, da remoto, mentre la tecnologia procedeva nei suoi skill, scatenando i suoi effetti: nei primi, pionieristici anni, battevo i pezzi sulla macchina per scrivere, regalo della prima comunione, li infilavo in una busta con la scritta “fuori sacco” e l'intestazione “Resto del Carlino”, filavo alla fermata della corriera dove il bigliettaio la ritirava per consegnarla ad Ascoli Piceno, alla redazione che distava 60 chilometri. Quindi un primo computer, rudimentale, bianco e nero, collegato ad una stampante ad aghi che pareva una segheria: ancora la corsa fantozziana appresso al torpedone, la consegna, il recapito, finché, Dio delle città, ad Ascoli si dotarono di un fax, anche se il più delle volte la trasmissione su quella carta lucida risultava illeggibile. Da lì la tecnologia si mise a galoppare: il fax virtuale, dal computer, le email, i whatsapp, oggi sono qui che scrivo da un telefono che si apre, diventa un piccolo ufficio e trasmette dal divano di casa del mio amico piazzato in una zona dove ucciderei pur di viverci, ma io non sono felice e lui nemmeno: la tecnologia spara i suoi razzi ma l'umanità si avvoltola, torna alle caverne, confortevoli ma caverne. Il mio amico mi guarda e capisco che mi sta dicendo: finalmente ti comprendo, adesso so la tua pena, l'alienazione che mi hai detto mille volte, per mille anni, di lavorare in casa e non vedere mai nessuno e lasciarsi andare, abbruttirsi e non sentirsi vivi. Perché si è vivi solo in mezzo agli altri e non ci si può consolare col fatto che fuori “il cielo di Milano è una mano sulla testa”, come cantava Umberto Tozzi.

Da una parte quelli che ancora incollano, tagliano, segano, bestemmiano, sempre meno, dall'altra quelli che parlano e pensano come l'intelligenza artificiale che li sta divorando. E questi sarebbero quelli che tirano la carretta di una banca gigantesca? Ma come li ha fatti questo gruppo gli otto, i nove miliardi di utili solo nel 2023? Di sicuro non empowerando e schillando quelle che sono le criticità, se mai con la finanza truffaldina, quella grigia del riciclaggio, quella nera del narcotraffico, delle armi, dei traffici ignobili dell'umanità violata. E, senza dubbio, con la rapina colossale ma polverizzata delle commissioni fantasma, dei trucchi da magliari, per un bonifico via app non andato a buon fine mi addebitano 11 euro di costi misteriosi e se protesto mi rispondono: “Ci dispiace ma è così”. Cioè siamo autorizzati, se non obbligati, a derubarti. Però buona giornata a tutt e tutt. “Ma lo sai” si sfoga il mio amico “che siamo vincolati al codice?”. Che codice? Quello bancario? “Ma no, il codice etico, guai a fare un complimento alla collega, capace che quella subito ti segnala alla direzione e vieni convocato come nei telefilm polizieschi dove c'è sempre il detective casinista che se ne fotte. Solo che noi non possiamo fottercene. E neanche fotterle”.

L'ho detto che il mio amico ha il dono dell'autoironia, che però non può salvarlo da una plumbea consapevolezza, la stessa che mi abita ed è sempre più invadente. Abbiamo un'età delicata, complicata, lui già guarda alla pensione, che io non avrò mai, vive in una bella casa, ma la vita non è fatta di questo, non solo di questo. Cosa siamo a 60 anni noi? Spettri agitati di un secolo estinto? Patetiche testimonianze di una evocazione, come quando in radio passano qualche canzone degli anni '80 e ci sentiamo polvere che si dissolve al vento? In ufficio, spiega lui, sono particolarmente sostenuti, anche incoraggiati i sottogruppi omosessuali o comunque fluidi, “è la politica aziendale in linea col woke”. Ma se vedono una coppia “normale” uscire insieme per due giorni di fila, si scatenano i pettegolezzi, le illazioni di sempre, dei tempi di Abramo. E puoi doverne rispondere ai superiori. Forse è per questo che, secondo una ricerca recente, sarebbero raddoppiati gli amplessi sul posto di lavoro, anzi sul desk, durante la pausa pranzo. Per reazione, per ribellione. “Vieni qua, voltati, che ti approfondisco”, “Sì skillami in linea con quelle che sono le tue prospettive”.

Guai a farsi scappare un apprezzamento, un'occhiata, ma ai tempi del Covid il mio amico novax passava i suoi guai col capo di filiale che, quando gli girava, proditoriamente pretendeva di visionare le app, i tamponi, e ammoniva, rampognava, rompeva i coglioni. Da cui la grigiastra nostalgia, quell'astio irrazionale per le multe cancellate ai novax: ma che gli cambia a questi omarini illusi di contare qualcosa? Gli cambia che a migliaia rimpiangono quel piccolo potere da kapò, l'abuso legalizzato, la piccola vile tortura con cui regolare finalmente conti personali, meschinità irrisolte. Ma il colosso finanziario non demorde, ha appena mandato ai suoi centomila dipendenti la letterina per indurli a vaccinarsi contro tutto ma soprattutto il Covid. Una “comunicazione” analfabeta, questi senza mimetizzarsi negli skill e negli empowerment affondano nella palude semantica, zeppa di luoghi comuni e di bugie, una circolare draghesca, bancaria, che si conclude così: “Vaccinarsi contro l'influenza e il Covid 19 aiuta a ridurre il rischio di contagio, a limitare la diffusione del virus e a proteggere sé stessi e le persone più fragili della comunità”. E a far salire le azioni della farmacopea finanziaria sulla quale prosperano i colossi bancari, ma questo non occorre specificarlo, non è in linea con quelle che sono le criticità ovvero i dipendenti lo sanno bene e sanno ancora meglio che non gli conviene dirlo visto che da questa truffa stragistica dipende la loro sopravvivenza.

La mattina è finita. Triste, cupa, desolata come il verme solitario di Ernesto Ragazzoni, ma istruttiva. Saluto il mio ospite e mi disperdo per Città Studi, passo il Politecnico con le tendopoli dei "palestinesi”, i muri della sterminata università diffusa coperti di cartoni animati di mostri, di scritte farneticanti “no capitalismo boia”, “canne contro i cannoni” e mi sento di avere ancora 17 anni. Ma ne ho 60 e ho appena combattuto un cancro e tutto intorno a me è incomprensibile. No, alieno, come sulla luna. Arrivo a Piola, discendo gl'inferi del metrò, circondato da zombie che bruciano la vita tra le parole puttane dell'inglese psicotecnico, tutti uguali e orrendi, completino nero da becchini, pantaloni troppo corti, alla caviglia, da zompafosso, scarpette di plastica ignobili. Cupi, disperati anche loro, ma forse sperano di skillarsi, di raggiungere quelle che sono le prospettive, un passo alla volta, una umiliazione alla volta, una promozione alla volta, una piccola viltà alla volta, finché, arrivati a dirigere una call, uno staff, una task force, potranno vendicarsi, ritorcere le antiche torture su quelli sotto, quelli nuovi. Ma ne resteranno? Con l'intelligenza artificiale che li spazza via come la morte falciata? E allora che resta da fare se non consolarsi con il miraggio eterno, diventare uno di quei megadirettori fantozziani che impongono le gare ciclistiche, la Coppa Cobram, per puro sadismo selettivo, malthusiano? Ma i “cari inferiori” di fantozziana memoria potevano a loro modo sentirsi vivi inseguendo una illusione di felicità: adesso c'è solo buio e rassegnazione, c'è lo smart working che imprigiona e invecchia, indebolisce e disbosca, ruba l'anima ma non rende piacere, non rende niente. Solo schiavitù, dei numeri che non si sa a che cazzo servono, delle “call” che durano poco ma non finiscono mai. “Skillati acca 24”, per dire mai in santa pace anche se sempre da soli: pian piano ci si inselvatichisce, si diventa disadattati e la droga dello stress induce a qualsiasi pretesto pur di salvarsi da se stessi. Ho un'amica che pur di non restare in casa coi figli e il marito “skillato” si costringe ogni sera alle frequentazioni più miserabili, il sottopotere politico, gli imbonitori spacciati per filosofi, per intellettuali. Poi ogni tanto mi telefona in lacrime, ubriaca.

Vado sempre via malvolentieri da Milano, ma questa volta un po' meno: invischiato in un sottile dispiacere, come cantava Lucio Battisti, ma non saprei a cosa imputarlo veramente. Prima di salire sul treno mi infilo nella cappellina della Stazione, che non manco mai di visitare, in fondo a destra per chi entra, vicino c'è un bistrò, devi cercarla se no non la vedi, tutto è piccolo e immenso qui dentro, in questa oasi di serenità meneghina severa ma accogliente, malinconica e calda. Qui tutto parla di Milano per chi l'ha persa tante vite fa. Da tempo non ricevo più risposte e mi sono finito pure le domande, ma questa volta una cosa per cui ringraziare la Madonna del viaggiatore, lì nella nicchia, che mi guarda non saprei dire se materna o incazzata, ce l'ho: grazie per non avermi lasciato a una vita del genere, da becchino, grazie per aver fatto della mia libertà una benedizione da scontare, e ne ho pagato tutti i prezzi, ma libero son rimasto, perdio! Ed ero il meno attrezzato, il meno probabile, e invece mi permetto il lusso di essere come sognavo al liceo. Ancora oggi. Il treno parte e mi scorre davanti il mio quartiere, Lambrate, solita fitta dalle parti del cuore, ma stavolta per qualcosa d'altro: io muoio orgogliosamente in un mondo che non trovo più, che non capisco, “ci dispiace ma è così”, ma così non è vita e non è mondo, è la Geenna, è l'inferno in terra.

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