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Il sonno della ragione genera mostri: veniamo privati della libertà di espressione e nessuno ha il coraggio di protestare?

Se fino ad oggi i grandi gruppi editoriali sono pienamente riusciti nell’intento di controllare l’informazione, con Telegram rischiano di venire smascherati

29 Agosto 2024

Il sonno della ragione genera mostri: veniamo privati della libertà di espressione e nessuno ha il coraggio di protestare?

“Il popolo non sarà privato o limitato del diritto di parlare, scrivere o pubblicare i propri sentimenti; e la libertà di stampa, come uno dei grandi baluardi della libertà, sarà inviolabile”. (James Madison, 4° Presidente degli Stati Uniti).

“Baluardo di libertà”, cardine di tutti gli ordinamenti democratici, la libertà di stampa viene calpestata nel più totale silenzio della categoria che più dovrebbe difenderla, i giornalisti. Il motivo è semplice: l’interesse di bottega. Di questi tempi (come già successe con la televisione) la stampa si è trovata una concorrenza scomoda: i canali Telegram e i social media in genere.

Se fino ad oggi i grandi gruppi editoriali sono pienamente riusciti nell’intento di controllare l’informazione, con Telegram rischiano di venire smascherati. La propaganda non ammette sacche di libera espressione. Limitandoci al nostro Paese, esiste un precedente storico: In data 31 dicembre 1925 entrò in vigore la legge n. 2307 sulla stampa che disponeva che i giornali potessero essere diretti, scritti e stampati solo se avessero avuto un responsabile riconosciuto dal prefetto, vale a dire dal governo. Quelli privi del riconoscimento prefettizio venivano considerati illegali.

Vi ricorda qualcosa? Il Digital Services Act, entrato in vigore pochi mesi fa, pone a carico dei prestatori di servizi digitali l’obbligo di moderare e censurare i contenuti degli utenti, al fine - esplicitamente dichiarato - di prevenire “la diffusione di contenuti illegali” o “l’effetto negativo su diritti fondamentali, processi elettorali, violenza di genere, salute mentale”.

Salutato come una norma a tutela della salute mentale collettiva (?), il Digital Services Act è – almeno nelle finalità - la copia esatta della legge n. 2307 del 1925: un tentativo di censura della libertà di espressione.

Da vecchio liberale, inorridisco davanti a queste dichiarazioni (copio la notizia direttamente dall’ANSA del 26 agosto scorso):

Dal vicepremier Antonio Tajani al commissario UE Paolo Gentiloni, la politica lancia l'allarme sui rischi della disinformazione, rischi anche per la democrazia.

L'occasione è stata la conferenza che ha aperto a Venezia la quinta edizione del Soft power club, l'associazione internazionale fondata da Francesco Rutelli: tra gli incontri, quello dedicato al "Potere della persuasione oggi, tra comunicazione, propaganda e disinformazione ostile".

Gentiloni, intervenuto con un videomessaggio, ha posto l'accento sui social media come veicolo di notizie false. Il loro sviluppo, ha sottolineato, "ha prodotto l'incapacità di mettersi d'accordo persino sui fatti di base". I social per l'ex premier "sono troppo spesso sfruttati da attori intenzionati a seminare discordia nelle nostre società" e "rischiano in definitiva di minare le nostre democrazie". E dire che "nelle speranze di molti - ha proseguito - l'ascesa dei social media avrebbe dovuto democratizzare l'accesso alle informazioni e fornire un nuovo mercato digitale delle idee. Oggi vediamo fin troppo chiaramente che questa visione era a dir poco ingenua".

Sommessamente, mi domando dove vivano questi paladini della democrazia. L’Italia è al 48° posto nella classifica della libertà di stampa. Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa e via di seguito tutti (TUTTI!) gli altri, sono spudorati organi di propaganda politica, senza vergogna.

Se esistono sacche di libera informazione, è qui dove mi state leggendo (e non a caso ho scelto di scrivere) e su Telegram.

Gli altri social sono censurati e pilotati esattamente come gli organi di informazioni mainstream. Queste le recentissime dichiarazioni di Mark Zuckerberg: “Ho censurato Facebook e Instagram, me l’ha chiesto Biden”.

Sempre di più apprezzo la voce fuori dal coro di Marcello Foa, che ha commentato: “Non capita tutti i giorni che il numero 1 di una delle più grandi società faccia mea culpa, ammettendo d'aver ingannato. Nelle regole del giornalismo, è una notizia sensazionale, tanto più perché è Zuckerberg. Invece, silenzio mediatico”.

Se i miei colleghi giornalisti tacciono, altrettanto fanno i miei colleghi giuristi (sono iscritto a entrambi gli Albi, pubblicisti e avvocati).

L’ho scritto mille volte e sono stanco di ripeterlo: è ora di risvegliarci e di difendere i nostri diritti.

Di Alfredo Tocchi.

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