10 Luglio 2024
Gli aguzzini del gattino scaraventato giù da un ponte passano al contrattacco: basta insulti, vi quereliamo tutti. “Forse che la vita cambia senza un gatto? Vabbè”. La compare, quella che filmava, va persino oltre: “Beh? Io ho solo registrato un video e voi mi insultate? Ma in che mondo siamo?”. Purtroppo, nel mondo che vi conviene. Perché la farete franca anziché finire, come sarebbe giusto, alla rocca di San Leo, a strapiombo sul mare, dove l’unico modo per fuggire è riuscire a gettarsi nel vuoto. Non sarebbe una Nemesi deliziosa? E insomma questi modelli di gioventù protestano, accusano, minacciano. Nessuna sorpresa, già ieri dopo il primo articolo mi ero ritrovato bersaglio di attacchi, provocazioni all’insegna del Nessuno tocchi Caino: il bigotto che, odiando il suo Dio non meno degli uomini, si mette la maschera della carità per velare il suo compiacimento; l’imbecille che svia il discorso e come sempre dirotta la colpa sul sistema, il grande reset, tutto pur di non accusare i mostri; il restiamo umani che vuole per me la stessa fine; l’idiota fallito che si diverte, “pure tu butti i gattini nel burrone”. Non poteva mancare quel gran genio di Selvaggia Lucarelli che invoca la privacy su minori non vittime ma carnefici i quali si sono personalmente qualificati, vantandosi prima, poi sbavando rabbiosi come sopra. E se si sono rivelati è per vanità e per far soldi, per costruirsi la notorietà degli influencer. Ovviamente difesi a spada tratta da “mamme coraggio”, Dio le fulmini, che nelle loro farneticanti tiritere scrivono “xkè” al posto di “perché”. Mi scrivono i normali, gli umani che non si danno pace: ci sarà giustizia un giorno? Ma quale giustizia, ma non lo vedono dove viviamo? Non c’è componente di questo sistema sociale che non sia corrosa, piena di vermi, di putrefazione. Lo abbiamo visto con la pandemia autoritaria: politica, istituzioni, magistratura, mondo scientifico, informazione, non si è salvato nessuno da nessuna parte. Sono emerse facce che al confronto questi imberbi torturatori di bestiole inermi sono cherubini. Ma cresceranno, diventando uguali. Vabbè.
Quale giustizia? Quella di una sistema giudiziario che non vuole punirli anche se gli strumenti li avrebbe? Quella di una politica che si guarda bene dall’emanare leggi adeguate (sapendo che comunque non sarebbero mai applicate)? Quella di una Chiesa balorda, puntata sul perdonismo empio, sull’impunità, sul business che deriva dalla rete dei servizi sociali gestiti dal clero? Non funzionano neppure gli anticorpi sociali, la gente o piange, o ride, o aspetta il karma, il Dio che tutto dovrebbe sistemare. Non serve dire “servono pene esemplari”, non serve chiedere che chi sbaglia paghi se poi tengono banco la tolleranza narcotica e il giustificazionismo fatalistico, opportunamente istituzionalizzato nell’indifferenza generale. Tre irrecuperabili (altro che vanno aiutati) dopo quello che hanno fatto ad un gattino, “vabbè”, si permettono di minacciare, di annunciare querele: stupido attendersi un ripensamento da chi non pensa e a questo punto la fine dei giochi è in se stessa: possono farlo e quindi lo fanno. Come Duns Scoto a proposito del dogma divino dell’Immacolata Concezione. Possono farlo e lo fanno, sapendo che domani tutto sarà dimenticato, che ci saranno nuovi epigoni a catturare l’attenzione. Questa è feccia che cerca di monetizzare, difesa da famiglie, da avvocati senza il minimo scrupolo – perché un legale è un difensore ma non necessariamente deve scadere a complice. E da un potere giudiziario che semplicemente se ne frega, che tira a campare e pensa alle correnti e alle tangenti: punire gli aguzzini di un micio o i sacchi di merda che a Napoli se la prendono coi gabbiani è giustizia misera, indegna del loro ruolo.
“Fra tanta gente nera, una cosa bella”, anzi due: messaggi di anime veramente meravigliose. “Quell’amore incalcolabile che ci unisce nella consapevolezza del privilegio di avere accanto maestri di vita quali sono quelle creature che ci insegnano lealtà, rispetto, abnegazione, fedeltà. Nessuno più di loro mi riconduce quotidianamente alla riflessione. Mi induce ad essere migliore, quando tocco con mano il loro impareggiabile senso di gratitudine e coerenza. E sono solo loro, assieme ai più deboli di ogni specie, che sollecitano la mia sensibilità… Loro mi fanno capire meglio cosa conti e per chi valga davvero la pena di consumarci. D’amore. Di dolore. Di felicità…”. Così questa amica, riservata e presente, che conosce la felicità e la disperazione dispensata dai nostri più indifesi compagni.
“Ciao Max. ho letto quello che hai scritto sul Faro a proposito del gattino e ti confesso che ho pianto. Anche io vivo con un cane e tre gatti, seguo una colonia felina presente sul territorio della mia parrocchia e se riesco a sopportare gli esseri umani il merito è di questi piccoli amici. Pensare che qualcuno possa fare del male a un animale per il puro gusto d'immortalarne la morte è qualcosa che non riesco a capire da qualunque punto di vista io mi collochi. Per giustizia voglio pensare che esista un momento in cui quel ragazzo dovrà guardare quel micio negli occhi e vedere il dolore gratuito che ha procurato a un essere senziente. E come diceva il mio amico Paolo de Benedetti in una preghiera: se in Paradiso non c'è posto per loro, vorrà dire che ci rinuncio. Un abbraccio”. Questa volta è un sacerdote, di quella specie rara che ricorda don Camillo o padre Brown, non i sodali delle ONG che dietro la tratta dei migranti nascondono il traffico di droga. Non mi giudica, non accenna neppure al mio sfogo contro il Dio distratto, nascosto, dal quale invano attendiamo risposte e giustizia. Non mi corregge la crudeltà di desiderare per quelli una malattia atroce. Si limita a condividere il mio dolore. Allora uno come me si ripulisce un po’ dalle cazzate di chi campa con disinvoltura sulla privacy a singhiozzo, dalla schiuma dei farabutti sui social, e torna in qualche modo a respirare. Ma subito gli si strozza il fiato in gola se immagina quel gattino, di poche settimane, tutti occhi e orecchie, raccolto da una di questi zombie che lo carezza, mentre fa le fusa, lo porge all’amico e “dai, fallo”. E il gattino come un Cristo animale vola inghiottito dalla malvagità degli umani. Serve il lamento di Dostoevskij, “Signore, perché”? Per me non serve più, anche perché se è vero che il Dio del perdono infinito chiede troppo e rende troppo poco, non è meno vero che a consentire un tale abominio è un sistema sociale completamente decomposto in tutte le sue componenti. Questo è indiscutibile, ma non può risolversi nella solita attenuante, “la colpa è di tutti”, pur di non vedere quello che tre vampiri senza anima hanno fatto, vabbè. E non vedere serve a non punire.
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