16 Marzo 2024
La frase di Giorgia Meloni sui cinque della scorta di Aldo Moro che “hanno dato la vita per difendere la democrazia” è molto risorgimentale, molto retorica, ma la verità è altra: la scorta di Moro, ragazzi giovani, alcuni di primo impiego, diretti dal maresciallo Leonardi che sentiva la minaccia ad ogni tragitto, cadevano per salvare la vita di uno già condannato. Moro, presidente del Consiglio e della DC, sapeva di dover morire, glielo aveva detto duro Kissinger in due occasioni, prima nel 1974 e poi nel 1976. Da allora, una cupa sequela di dispetti e abbandoni istituzionali ne preparano la fine. Leonardi chiede l’auto blindata e lo Stato gli ride in faccia; il giorno dell’agguato di via Fani, 46 anni oggi, la notizia della strage rimbalza con un’ora di anticipo per le università e perfino le radio libere, la dà, tra gli altri, Renzo Rossellini, il figlio del regista neorealista Roberto che sta nell’alone della sovversione. Via Fani è una via invasa dai Servizi Segreti, losco è il bar Olivetti che funziona da base per l’agguato, ai Servizi appartengono le due automobili parcheggiate per ostruire la circolazione normale avvantaggiando il commando brigatista; invasa dalla P2 controllata dai Servizi è la SIP del boiardo Michele Principe da dove parte un blackout volto ad agevolare i rapitori impedendo le comunicazioni della polizia. Sul posto dell’agguato compare un colonnello Guglielmi appartenente ai Servizi, che non sa spiegare la sua presenza. Si aprono 55 giorni da tregenda: il ministro di Polizia, Francesco Cossiga, che oggi piace rimpiangere quale esempio di servitore dello Stato integerrimo e lungimirante, con trecentomila divise a disposizione fra carabinieri, polizia, finanzieri e reparti coperti, non cava il classico ragno dal buco. In compenso si riempie di comitati strategici inutili ai quali partecipano il faccendiere della CIA Pieczenik, che a cose fatte si vanterà di avere fatto uccidere Moro manipolando i brigatisti, e il criminologo Ferracuti, conterraneo del capo brigatista Moretti.
Quest’ultimo occupa, insieme alla Barbara Balzarani, la compagna Luna esaltata dalle professoresse in fregola nostalgica, un covo di proprietà dei Servizi come tutti gli altri lungo quella via Gradoli dove vive un altro carabinieri dei Servizi, Arcangelo Montani, di Porto San Giorgio come Moretti; il 18 aprile, dopo un depistaggio dei Servizi che indica Moro morto “mediante suicidio nel lago della Duchessa” (l’interessato, dalla sua prigionia, capisce tutto e commenta: è la macabra prova generale della mia esecuzione), i Servizi penetrano nel covo appena lasciato dalla coppia terrorista, lo mettono a soqquadro, e Moretti capisce l’antifona: sbrigati a farlo fuori. La situazione precipita e Moro il 9 di maggio viene trovato cadavere nella zona del Ghetto, in via Caetani, a metà strada fra le sedi della DC e del PCI, con allusione feroce. Qui c’è stato l’ultimo covo dello statista democristiano, ultimo di una serie mai ricostruita. Ma è certo che la famosa base di via Montalcini servì per un periodo assai limitato: Moro, portato via da via Fani in un appartamento della vicinissima via Massimi, zona Balduina, controllato dai Servizi, in uno stabile frequentato dal prelato mafioso Marcinkus, verrà spostato diverse volte, anche fuori Roma, all’altezza di Focene, per poi tornare in città, al Ghetto, in prospettiva della fine annunciata.
Dicono nell’ambiente della politica e dei Servizi: “Non lo vogliono trovare”. Che non volessero o non potessero, cambia poco. Cinquantacinque giorni passano senza un solo riscontro, nessun brigatista fermato, e sì che i comunicati li stampano nella tipografia di via Foà, dove Moretti ha portato alcune apparecchiature di provenienza dagli uffici dei Servizi. Sullo sfondo, la struttura anticomunista Gladio, che Moro rivela a Moretti, il quale la confida al più esperto Senzani, criminologo brigatista contiguo ai Servizi: le BR a quel punto mandano un comunicato infame, il numero 6, che sconfessa tutti i precedenti propositi brigatisti “nulla resterà nascosto al popolo”: “Il prigioniero ha parlato ma non ci sono grandi rivelazioni, non abbiamo più niente da comunicare”. Quando il cadavere di Moro viene estratto dalla Renault 4 rossa, Cossiga è già sul posto e sa già tutto: è stato informato per tempo. Si dimette, ma tempo due anni diventerà presidente della Repubblica. Per servizi resi? Di sicuro un presidente degno del Paese, del tempo: un tempo sconvolto, invivibile, che chiunque abbia da 50 anni in su non può dimenticare. Sospeso tra criminalità comune e organizzata, fra Stato e antistato che si intrecciano e si coprono, i morti ammazzati ogni giorno, banda Vallanzasca a Milano, banda della Magliana a Roma, Bierre e Prima Linea versus i Nar di Fioravanti-Mambro e del “ciecato” Carminati, quello sospettato, ma mai dimostrato, d’aver fatto fuori i due militanti del Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, a Milano due giorni dopo via Fani; vicino ai Nar anche il faccendiere fascista Gennaro Mokbel, la cui sorella Lucia nei giorni di via Fani abita dirimpetto a Moretti e ne informa il questore Cioppa, che lo sa benissimo e la manda a legnare perché non parli, non si prenda strane iniziative. Difficile scindere, dividere, salvarsi in quel tempo melmoso, di sangue melmoso. A distrarci un po’ ci pensano gli Azzurri in Argentina, ci pensa Renato Zero coi suoi Triangoli stravaganti, boccate d’ossigeno in un tempo di apnea, un tempo che non passa, che preme addosso come una mano di ferro e di piombo. Cambierà tutto in pochi mesi, quando il generale Dalla Chiesa otterrà finalmente pieni poteri da un Andreotti comprensibilmente preoccupato delle rivelazioni di Moro catturato: e il generale in breve potrà scoperchiare i covi più importanti, recuperare il memoriale del Presidente martire, in fotocopia, opportunamente purgato dei passaggi più indicibili. Perfino le circostanze di quei ritrovamenti sono oltre il grottesco: la prima versione viene reperita dalla base di via Monte Nevoso, a Milano, l’1 ottobre, dopo che gli uomini di Dalla Chiesa hanno sorvegliato gli spostamenti dei terroristi per 4 mesi, aspettando pazienti che Lauro Azzolini portasse i documenti scottanti da Firenze; una seconda e più scabrosa stesura sgorga dallo stesso appartamento, tenuto sequestrato, 12 anni dopo, a causa di una ristrutturazione, in apparente casualità: anche in questo caso il Memoriale vien intercettato e fatto sparire dai Servizi. L’originale non è mai stato trovato, i terroristi Morucci e Faranda offriranno ricostruzioni implausibili, concordate con ambienti dei Servizi e della sinistra DC. Da allora, cinque processi e due commissioni d’inchiesta non hanno aggiunto niente, solo strati di retorica e corone votive anno dopo anno. Se dopo quasi mezzo secolo siamo ancora qui a parlare di Moro, di via Fani, della scorta, non è per ragioni di cordoglio risorgimentale ma perché quello che non si sa, che non è chiaro, che non è ammesso è ancora troppo e comunque infinitamente più di quanto si è chiarito o così almeno si dice, così almeno si vuole. E pesa.
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