20 Dicembre 2023
Fedez e Ferragni, fonte: imagoeconomica
La grigia epoca degli influencer segna il trionfo dei selfie della gleba e degli egomostri, l'epoca in cui il far sapere spodesta il saper fare. È la vittoria del cogito interrotto e della logotomizzazione, cioè della distruzione del Logos. Il trionfo della società dello spettacolo, in cui il soggetto decade a semplice startupper che non ha un'impresa, ma è esso stesso un'impresa autovalorizzantesi e disposto a tutto e di più per autovalorizzarsi. Una società di atomi per i quali tutto, a partire da se stessi, è merce disponibile: il valore sostituisce la dignità, l'avere rimpiazza l'essere. Il regno dei mercanti all'ennesima potenza. Con la figura dell'influencer, il capitalismo raggiunge il grado massimo, quello in cui lo sfruttato e lo sfruttatore coincidono nella stessa persona: ci si sfrutta per il profitto, ci si muta in merce per autovalorizzarsi all'infinito, si chiede a se stessi il massimo in nome del proprio business. Bene dice Sloterdijk, quando sostiene che il grigio è la tonalità per eccellenza del nostro tempo, anche se nascosta dietro l'onnipresente arcobaleno della mercificazione integrale di tutto e di tutti. Il modello dell'influencer tende a farsi paradigma universale. E, così, già da tempo la politica si è adattata, assumendo il triste stile degli influencer e della loro permanente messa in mostra volta alla valorizzazione e, nel caso specifico, al potenziamento illimitato dei consensi. Debord scriveva che la società dello spettacolo è quella in cui il capitale raggiunge un tale livello di potenza da farsi spettacolo, e lo spettacolo non è se non la società capitalistica mediata dalla fantasmagoria delle immagini.
Di Diego Fusaro.
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