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Stupro di Palermo, da Parrinello a Flores, i 7 mostri nell'Italia dell'opportunismo feroce

C'è come un non detto, un rimorso, un fastidio collettivo che spinge a rimuovere la reale sostanza di uno stupro di gruppo di ragazzini su una ragazzina: la consapevolezza di una incapacità a prevedere e a provvedere, di uno sfascio che ormai è conclamato e perfino voluto.

25 Agosto 2023

Stupro di Palermo

C’è qualcosa nella vicenda dei sette mostri palermitani – sì, mostri, che altro? - che hanno violato una ragazzetta fin quasi a ucciderla, qualcosa, come un riflesso, o rimorso, o coda di paglia che induce a scantonare, alla demenziale chiamata di correo, “siamo tutti colpevoli, tutti complici”, ma che non ce la fa a vedere davvero le cose per quelle che sono. A cominciare dalle facce di questi sette, tutti giovani, giovanissimi, ma dai tratti belluini, accartocciati, tratti bestiali, ferini. E anche il modo di esprimersi, prossimo all’afasico, “uuunununuu, l’ammazzammu, ca divertemmu”, sconcertante in dei diciottenni, poco più, poco meno, che bene o male nella scuola di massa ci sono passati, che non possono non venire contagiati dall’italiano magari stupido, magari approssimativo o insopportabile dei social ma comunque ancora italiano, codificato, diffuso. Invece questi implodono in schegge dialettali, di quelle che piacevano all’intellettuale Pasolini, ma a lui queste cose piacevano, questa degenerazione nazionale, provinciale o borgatara, piaceva, era un provinciale che per tutta la vita ci ha inflitto i suoi rimorsi pederastici, li ha sublimati in una chiave sociologica e politica, è appena uscita conferma di quanto già si sapeva, l’intellettuale, il poeta del marxismo sociale, problematico, l’anticonsumista che in berlina di lusso raggiungeva una villa di lusso dove organizzava orge sadomaso coi riccetti e quelli raccattati per strada. E poi ci faceva i soldi trasformando la vita in arte, in romanzi, in pellicole. Il consumismo che si nobilita se lo pratichi e insieme lo maledici! Scrupoli estetici a parte, la provincia italiana, le cinture italiane intorno alle rare metropoli restano di un precristiano e un presociale, preculturale terrificante. Oggi peggiorate anche dall’afflusso alluvionale di “nuova generazione” che non si rinnova, non si integra o si integra solo nel peggio, nel percepito diritto di stupro e di saccheggio delle bande medievali. Una eterna Italia, eterna ma destinata sempre a peggiorare con l’uso perverso di una tecnologia perversa: davvero i social sono come il coltello che può servire a tagliare il pane o a scannare un cristiano? Ma questi social di fatto servono solo a filmare chi scanna il cristiano, gli toglie dignità di essere umano.

“Aununuuunu, filma tuttu, l’ammazzammu la cagna”. Cosa sta dietro l’eterna alienazione postmarxista, francofortese, marcusiana, che prevede la corresponsabilità integrale, “colpa della società quindi di tutti”, “colpa del contesto quindi nostra”? Al di là dei costrutti arbitrari, idioti delle Chiara Valerio o delle Michela Murgia, riposi in pace, qualcosa di vero c’è, anche se sta nell’esatto contrario così come lo intendono i giustificazionisti che estendono la colpa: un rifiuto, vile, comodo, a intervenire, a far valere un modello di vita basato sulla responsabilità, che cinquanta o sessant’anni di stupida demagogia di sinistra hanno reso obsoleto e chissà perché inaccettabile: conduciti bene, ricordati che le tue azioni portano conseguenze, disponiti ad accettarle. Qui cosa abbiamo? Sette analfabeti radicali che si scagliano sulla donna-cagna, se ne vantano, confidando istintivamente, per il calcolo degli animali feroci, in un paio di cose, una: la faranno franca, l’ordinamento italiano, frutto di una certa concezione del cattolicesimo progressista, ha completamente eliminato il concetto di condanna, di pena anche per gli atti più efferati; e due, che l’opinione pubblica alla fine sarà dalla loro parte, partendo dalle famiglie, che incolpano la vittima, che vogliono querelare i provocatori da tastiera, e poi, a cerchi concentrici, dagli intellettuali cinici e miserabili, fino ai giornalisti a tariffa e ai provocatori a prato basso, gli spaventapasseri dei social.

Ne deriva il solito balletto inverecondo, la solita danza macabra: questi che vengono presi, spediti in galera, ma per pochi giorni, e intanto, non si capisce come, fioriscono i filmati, le foto dell’arroganza, “siamo più forti di prima”, “cerchiamo altre cagne da stuprare”: falsi? Provocazioni di chi soffia sul fuoco? Può darsi, ma almeno in un caso, quello dell’unico minorenne, immediatamente dirottato ai “servizi sociali”, era tutto reale: talmente servizi sociali, che questo pirla se ne stava comodo col telefono in mano, uno reo confesso di stupro di gruppo e neanche lo smartphone gli avevano tolto, e lui inseriva contenuti demenziali: “Io sono la morte, sfidare me è sfidare la morte”. E l’hanno carcerato insieme agli altri, inconsapevole emulo dell’arditismo fascista, teschi e coltelli, ereditato dall’apocalittismo della guerra mondiale, la grande mattanza che aprì il secolo.

Una demenza che sembra travolgere tutti, che non fa prigionieri. I responsabili con le loro reazioni anormali, mostruose; i parenti che riescono a difenderli; il sistema sociale, educativo che appena può li manda dai preti; l’informazione che trova modo di preoccuparsi per questi infami “che si sono rovinati la vita” e manda l’allarme siccome in galera, secondo la legge della galera, vogliono farli fuori; i giudici che ce li mandano “perché si sono pentiti” e poi, scoprendo che non si sono pentiti per niente, che è la solita farsa, si pentono loro e li ingabbiano. Ma non si pentono neanche i giudici, cercano solo di metterci una pezza, di scampare le polemiche. Ma come un magistrato che presta fede alla “resipiscenza e rivisitazione critica dei fatti” in un balordo ritardato che ha appena stuprato una con altri sei come lui, è un magistrato a sua volta allo sbando, uno dei tanti, come il procuratore di Rovereto, che ammirava il nigeriano “scultoreo, col fisico da pugile” e aveva appena ammazzato a pugni una poveretta.

Ne esce, a fatica, con pena ma trapela la consapevolezza di una incapacità a prevedere e a provvedere, di uno sfascio che ormai è conclamato e perfino accettato. Da cui uno sbando generale che tutti fingono di non vedere, che non vogliono vedere anche per non ammettere che così non si può andare avanti, che una soluzione va presa, altrimenti i macelli delle donne per la strada continueranno e sempre di più. E la soluzione non può che essere di tabula rasa, di rasoio di Occam: basta con le scemenze della sociologia comprensivista, con il cattolicesimo del rimorso delle suore incanaglite, con l’affarismo sociale del recupero che genera impunità, con il cinismo dei buoni “che così buoni non sono mai”. Basta anche coi Tar che impongono la promozione di una fannullona insufficiente in 9 materie – ma che? Anche in ginnastica, in condotta era bestia? - siccome “bocciare non deve essere la prassi”. In un paese dove si registra il 99,9% delle promozioni e ogni esame è ormai meno di un pro forma. Poi Scriveva il picciotto Parrinello, a cavallo di una maggiore età che non avrà mai, nel suo periodo di “resipiscenza e rivisitazione critica dei fatti”: "Cumpà, l’ammazzammu, Ti giuru a me frati, sviniu. Ficimu un maciellu, nn’addivirtiemmu". L’immagine, presa dalle telecamere di strada, dei sette intorno alla donna-cagna è spaventosa, ha in sé qualcosa e più di qualcosa della dannazione nazista, suggerisce una portata al sacrificio da mostri senza volto nell’eterna banalità del male. Di questa barbarie pre cristiana e pre umana, è vero, siamo responsabili in tanti. Però per eccesso di comprensione, per difetto di serietà nell’eterna Italia dell’opportunismo feroce.

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