27 Gennaio 2023
Non c’è futuro senza memoria. La memoria è la chiave per decifrare il presente e costruire un palinsesto di senso compiuto in cui il passato, soprattutto le nefandezze del passato, non si ripetano in forme e modalità diverse. Auschwitz non è iniziato con Auschwitz, ci sono voluti anni di discriminazione e demonizzazione per preparare il terreno. Per questo le analogie con il presente sono preoccupanti.
“L’Olocausto è stato messo in moto quando la libertà personale, i diritti legali e i diritti civili sono stati spazzati via” dice Vera Sharov, testimone preziosa dell’orrore della Shoah. Sarebbe stato bello, oltre che coraggioso, se la televisione pubblica avesse coinvolto una figura come Vera Sharov al posto della coppia pop Fazio&Segre per la prima serata di Rai1 dedicata alle celebrazioni della Giornata della Memoria. O, per restare in Italia e a Milano, Moni Ovadia, con la sua lucida, spietata onestà intellettuale. Entrambi avrebbero garantito una lettura della storia capace di allontanarsi da ogni tentazione retorica e autoreferenziale con cui interconnettere passato e presente.
Quando è stata istituita la Giornata della Memoria, con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 1 novembre 2005, si è voluto infatti costruire un ponte naturale e necessario tra passato, presente e futuro. La Giornata della Memoria è diventata così una ricorrenza internazionale, celebrata il 27 gennaio di ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto.
La data del 27 gennaio è stata scelta perché il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva Vistola - Oder, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. A distanza di 78 anni la direzione del museo del campo di concentramento di Auschwitz ha deciso di escludere la delegazione russa dalle celebrazioni ufficiali. Una rilettura oltraggiosa della storia. È sconfortante vedere la memoria piegata al volere dell’ideologia (geo)politica imperante. È l’ennesimo frutto tossico e contagioso prodotto dall’uso ideologico della memoria.
Dopo il licenziamento del maestro Gergiev dalla Scala di Milano, la rimozione di statue dedicate a illustri personaggi russi, la cancellazione di corsi universitari di letteratura russa, l’esclusione di danzatori russi dagli spettacoli di Roberto Bolle, ecc. la cancel culture antirussa si diffonde in modo pervasivo e imperativo.
Come ogni forma di cancellazione culturale esprime il vuoto della civiltà dei mercati, che produce il nulla in ogni ambito. E che di fatto distrugge ogni elemento identitario per produrre lo spazio liscio e desimbolizzato, senza alto né basso, in cui possano scorrere liberamente le merci e le persone mercificate.
Ad Auschwitz la "cancel culture" fa prevalere il risentimento nei confronti della Russia per il conflitto in Ucraina a dispetto della verità storica.
Il fatto che fu l’Armata Rossa a oltrepassare per prima l’entrata del campo di concentramento con la celebre e terrificante scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi) e ad addentrarsi nell’orrore disseminato nel campo di concentramento dalla disumanità dei nazisti, passa in secondo piano rispetto all’urgenza del presente e ai diktat della Nato.
Una esempio plastico di una memoria a senso unico, quella imposta dall’imperialismo a stelle e strisce. Una memoria che celebra, giustamente, le vittime dell’Olocausto e che, allo stesso tempo, perseguita Julian Assange per aver rivelato i crimini di guerra commessi dagli USA e si è prodigata per decenni a stendere un velo opaco sull’Olocausto di Hiroshima e Nagasaki.
Il 6 agosto 1945 alle ore 8:15, un aereo statunitense sganciò la bomba all’uranio, soprannominata Little Boy, sulla città giapponese di Hiroshima. L’esplosione della bomba generò in dieci secondi un’onda d’urto che rase al suolo la città per un raggio di due chilometri, uccidendo all’istante almeno 70 mila persone. Il 9 agosto fu la volta di Nagasaki. Due bombe atomiche che colpiscono la popolazione inerme e incolpevole. Vittime civili, come si ripete spesso nei resoconti del conflitto in Ucraina. Due sole bombe capaci di provocare circa 500 mila vittime.
Con quelle due esplosioni, le uniche vere armi di distruzione di massa mai usate dall’uomo, gli Usa hanno definitivamente imboccato la strada che li ha portati a diventare un impero arrogante e spietato che in 70 anni ha sottomesso con la violenza militare ed economica buona parte dell’intero pianeta. Corea, Nicaragua, Congo, Vietnam, Laos, Cambogia, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria sono soltanto alcune delle guerre, dirette o per procura, che hanno imposto il dominio a stelle e strisce. A partire da quel 6 agosto, gli Usa hanno messo al centro della loro azione politica la guerra, la difesa dei propri interessi con le armi e a ogni costo. Si sono votati a un keynesismo militarista difficile da disinnescare per l’immensa rete di interessi che ha svuotato di senso termini come pace e democrazia.
Il presidente Obama, ossimoro vivente capace di svilire con 8 anni di continue guerre il premio Nobel per la Pace assegnato sulla fiducia appena eletto, è stato il primo presidente a visitare Hiroshima. Coerentemente con la tracotanza del neocolonialismo USA, non ha avuto il coraggio né l’umanità per chiedere perdono e non è stato nemmeno in grado di chiedere scusa ai parenti delle vittime e al popolo giapponese.
L’enormità rimossa e insoluta delle bombe atomiche americane sganciate sulle due città giapponesi reclama, oggi più che mai, l’istituzione di un’apposita Giornata della Memoria oltre che di un Tribunale Internazionale. Invece assistiamo da decenni all’autoassoluzione del colpevole cui corrisponde la mesta rassegnazione delle vittime per questo crimine gratuito e disumano.
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