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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

La regista italiana Maura Del Pero trionfa al Festival di Venezia

Un film delicato che ha portato in laguna una storia intima sullo sfondo di una montagna che intimorisce. Nel 1944, l'arrivo di un soldato ferito nella remota Vermiglio travolge la quotidianità di un insegnante e della sua famiglia, dopo che la maggiore delle sue figlie se ne innamora e decide di sposarlo.

10 Settembre 2024

Vermiglio

Il Giornale D`Italia ha incontrato ad un ristretto incontro stampa, la regista Maura Del Pero, vincitrice con il film Vermiglio, del Gran Premio della Giuria della Mostra del Cinema di Venezia 2024.

Riguardo alla natura come elemento del film la cineasta ha risposto a IDG. 

MDP: Ho vissuto tanto tempo in montagna e tanto tempo in pianura e credo che ci si muova diversamente. In pianura c’è posto per aprire il petto, mentre la montagna ti ricorda che sei piccolo, fa freddo, si cammina contro vento…Abbiamo lavorato molto con chi veniva dalla città, in un lavoro che levasse piuttosto che aggiungere. Un proverbio trentino dice che “la lingua sta meglio dentro ai denti”, c’è un modo di espressione diverso. Il film è pieno di emozioni, perciò come muoversi in questo film con questi tratti di montagna pur facendo trasparire questo vulcano di emozioni (ce ne sono parecchi di attivi ma silenziosi nella pellicola, come Tommaso, Ada). Non si tratta quindi solo del paesaggio in sé, ma anche di come esso influenzi il modo di essere e muoversi delle persone.

D: Il nome della valle dove viene girato il film? 

MDP: Val di Sole al confine tra Trentino e Lombardia, negli anni ’80 è stata invasa dal turismo ma che ha ancora dei piccoli paesini che hanno resistito all’invasione.  Faccio un lavoro di pre-casting e pre-scouting location da sola e in questo caso con Santiago, uno dei produttori, siamo stati tantissimo sul territorio prima che ufficialmente scouting e casting iniziassero, perché è un mio modo di immergermi, di scrivere e di stare nei luoghi ma era anche un modo per scovare possibili piccole gemme rimaste nel tempo. Quando dico immergermi intendo andare nei bar a sorseggiare qualche birra o grappa assieme ai signori del posto, che poi finisco per portare con me all’interno del film: ho scelto ogni singola comparsa, ogni bambino ecc. Perché sono quelle facce e quei modi di muoversi che hanno, so che non si presenterebbero mai ad un casting, perciò ho voluto fare un lavoro di pesca per catturare quel modo naturale e tipico di muoversi e di parlare e soprattutto il dialetto. Amo moltissimo lingue e accenti, mi è stato chiesto se era possibile farlo in italiano ma per me filologicamente non era accettabile, ho rotto molto le scatole agli attori che non avevano quell’accento specifico, perché è una delle “musiche” del film.

D:Il film ha citato Olmi e l’Albero degli Zoccoli, fino a che punto ti senti parte di questa storia? 

MDP: Se l’anima gentile di Ermanno volesse reincarnarsi in me anche per pochi minuti per me sarebbe una gioia immensa, perché lo amo e amo quel film. Il mio metodo di lavoro non guarda mai fuori, guarda sempre dentro. Quello che cerco di fare, sul piano del processo creativo, è mettermi in ascolto di ciò che il mio inconscio vuole comunicare, senza il filtro della razionalità e di ciò che è successo nella mia vita lo influenzi. Questo film in particolare è nato da un moto dell’anima, nasce da un evento triste che è stato la morte di mio padre e allo stesso tempo nasce da un evento felice perché lui stesso mi apparve in sogno: era un bimbo di 6 anni nella sua casa d’infanzia. Il mio metodo in questo caso mi ha spinto a seguire ciò che mi è apparso in sogno e seguendolo ho iniziato a scoprire persone che conosco profondamente - infatti il film parla della mia famiglia - e di luoghi che conosco molto bene in un tempo che non ho conosciuto, la fine della seconda guerra mondiale. È stato interessante come lavoro, mi sono potuta appoggiare sul dialogo tra qualcosa di molto intimo e che conoscevo molto bene e allo stesso tempo uno spazio per l’immaginazione, per la rappresentazione che mi ha aiutato molto a livello di strutturazione drammaturgica, il fatto di dover riempire dei vuoti. Da questo sentimento è nato il film.

D: Film profondo, che travolge. Parla di temi adulti attraverso i bambini. In che modo secondo lei i bambini vedono il mondo?

MDP: Secondo me sono una specie di coro, come le tragedie greche, c’è questo commento nei letti, le notti, il sussurro è uno dei suoni del film. Sono bimbi strappati all’infanzia per il momento che vivono, sono bimbi in una società deprivata dalla guerra e allo stesso tempo hanno lo sguardo più ironico del fanciullino pascoliano che dovremmo cercare dentro ognuno di noi. Anche in quel caso, tornando al casting, cerco sempre di aiutarmi lavorando sull’età, banalmente, anche perché spesso cerco bambini di 4/5 anni che sono complessissimi da gestire. Credo però ci sia un abisso tra un bambino di quell’età e uno scolarizzato. Nella scelta di Pietrini, che è un personaggio che avevo nel cuore proprio per l’apparizione di mio padre bambino in sogno, quindi importantissimo: avevo bisogno di quella lettura del mondo che non è ancora passata attraverso l’istituzione, la scrittura, che rimanesse ancora nell’immaginazione. Proprio perché avevo pensato che uno dei codici del film era lasciare a loro il commento, mi interessava raccontare un mondo in maniera più…C’era l’idea dell’affresco storico, sociologico, antropologico, ma ho sentito nella cinematografia fino ad oggi una sorta di pregiudizio rispetto al fatto che era un mondo più di necessità che di desideri. Credo che i desideri ci fossero ma fosse più difficile raccontarli, cinematograficamente questa cosa mi interessa moltissimo, come ad esempio per il personaggio di Ada che ha un grande mondo interiore, che non può dire quello che le succede ma in qualche modo attraverso qualche piccola confessione o solamente guardandola muoversi si racconta tutto questo mondo sotterraneo dell’infanzia.

D: Bambini deprivati dalla guerra. Immagine che vediamo molto rappresentata qui al festival ma purtroppo anche nella realtà di tutti i giorni. La guerra, in questa storia, che cos’è?

MDP: Si tratta di un film sulla guerra ma senza la guerra, nel senso che il codice del film è quello di relegarla fuori campo, ma la sua presenza si sente come un sassolino lanciato nell’acqua, ci sono tanti cerchi che vengono creati dall’impatto e la storia cerca di raccontarli: le mine che rimangono nel terreno, la vita delle persone rimaste a casa, la vita nelle cucine, i bebè morti, l’impossibilità di studiare e formarsi di una persona…il caos burocratico di una guerra. Mi piace molto quello che rimane in “OFF”, perché spesso è molto più potente di quello che rimane in “ON”. L’idea era quella di avere la guerra onnipresente, in una prima versione del film c’erano nella sceneggiatura dei bambini che giocavano con i cimeli di guerra, c’è sempre stata questa idea per cui è una sorta di onnipresente deprivazione e di come tutti comunque continuino a cercare di vivere. Mi interessava anche il fatto delle 4 stagioni che portano dalla guerra alla pace non solo per questo chiasmo paradossale per cui la famiglia perde la propria pace quando nella macro storia si riguadagna, ma anche perché credo sia stato un passaggio epocale importantissimo quello del dopoguerra, che ci ha consegnato al mondo attuale. Il passaggio dal paese alla città, dal collettivo all’individuale, dall’antico al moderno. Questo passaggio per me è stato cardine per il racconto.

D: Volevo saperne un po’ di più sulla costruzione della paternità, anche alla luce di quello che è stato detto del tuo sogno. Quanto di quel padre che ti è venuto in sogno c’è in Tommaso Ragno se c’è qualcosa, e come avete lavorato assieme per la figura definitiva.

MDP: Tommaso Ragno era mio nonno, che era il maestro del paese, una figura che al tempo era importante. Era una figura di riferimento nel paese. Racconto un piccolo aneddoto che mi ha colpito molto: mio padre ad un certo punto è stato alunno di mio nonno che poi non è stato più l’unico maestro del paese, ne sono arrivati degli altri tra cui una maestra che aveva il vizio di bere, non godeva di un’ottima fama per questo. A fine anno è arrivato a casa con la pagella e la promozione tutto felice e mio nonno ha strappato la pagella dicendo che non era valida perché era stata data da una maestra non in grado. Un livello di crudeltà che a noi sembra inaccettabile: il lavoro che ho fatto con Tommaso non è stato solamente quello che si diceva in precedenza, la creazione di un uomo di montagna, ma anche un lavoro sulla contraddizione del personaggio che si fa a amare e odiare. Un personaggio che ha i limiti e la bellezza degli illuministi, che credono tutto sia illuminato dalla ragione e poi si perde in un sacco di cose che avvengono in casa, che magari può cogliere meglio una figura femminile. Si fida molto del proprio giudizio ma è incapace di intravedere un’intelligenza emotiva come quella del figlio maschio, crede di controllare tutto ma non si accorge dei mesi di gravidanza che non tornano della figlia maggiore, non si accorge di condividere del materiale erotico con la figlia di mezzo che semplicemente non considera perché non gli assomiglia. Una scena secondo me è interessante per raccontare questo. Mi interessano molto le situazioni in cui tutti hanno un po’ ragione: la scena dei dischi in cui la moglie di Cesare gli rinfaccia l’acquisto dei dischi in un momento di ristrettezza economica: chi non è d’accordo con lei nel riconoscere che c’è una priorità nel nutrire i figli e renderli forti davanti alle malattie della guerra; ma chi non vorrebbe una lezione vivaldiana come quella che Cesare impartisce ai propri studenti portando bellezza in un momento in cui il nichilismo della guerra la porta via a tutti?  In questa contraddizione c’è molto il personaggio di Tommaso, un uomo tutto d’un pezzo che è da una parte il pater familias, dall’altra è un intellettuale che viene da un mondo contadino, numerose sfaccettature che hanno reso il compito di vestire i suoi panni un compito davvero difficile.

D: Che evoluzione, anche artistica, hai sentito dalla tua opera prima? Come sei riuscita di fronte all’antropologico e al naturalistico a fara un film di personaggi attuali con desideri che siano odierni e non datati?

MDP: Credo che da una parte ci sia un salto e dall’altra una continuità. Riconosco una evoluzione nella ricerca del lingueggio, che continua ad interessarmi e su cui lavoro moltissimo a volte con frustrazione a volte con risultati che mi rendono felicissima, perciò continuo a lavorare su quella che per me è la ricerca di un’immagine sintetica, di un’economia dello sguardo. Se dovessi dire quello che cerco è un andare di poesia più che un andare di prosa, perché credo che l’immagine in movimento abbia la qualità in sé e nel raccontare il film sto sempre cercando di trovare un punto dove fermarmi che “racconti tutto senza raccontare”. Sento di averlo trovato in questo film quando Ada è sdraiata a croce nella stalla, nella posizione delle novizie che diventano suore, mentre la sorella è sdraiata scoprendo l’amore. O l’immagine di Lucia sulla cascata, un’immagine in cui sento di volermi fermare perché si percepisce l’attaccamento di Lucia alla vita, la sua fuga nella natura ha sapore di suicidio ma che sento in verità sia una necessità di attaccarsi alle radici della terra per rimanere in vita e quella cascata sono le sue lacrime. Visivamente si riesce ad arrivare a qualcosa dal valore stratificato, metaforico, che tocca i 5 sensi. Continuo a prediligere la coralità, nonostante sia molto difficile, anche dalla posizione politica e ideologica. C’è stato un passaggio dal materno al paterno, una decisione che mi ritrovo a capire a posteriori, così come quando inizio a scrivere non so mai che film nascerà.

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