03 Luglio 2024
Donald Trump (fonte foto Lapresse)
I giudici della Corte Suprema americana hanno deciso che il tema dell'immunità presidenziale era troppo importante da ignorare. Per questo, la maggioranza ha respinto le pressioni per fare presto, pur sapendo che in questo modo Donald Trump si sarebbe salvato dal processo a Washington per aver cercato di ribaltare le elezioni del 2020. Deve ancora vincere a novembre, però, esito tutt'altro che assicurato, soprattutto se i democratici dovessero cambiare cavallo e puntare su un volto nuovo viste le difficoltà di Joe Biden.
La sentenza è arrivata all'ultimo giorno possibile, forse per effetto drammatico, e in ogni caso prolungando al massimo i termini e così garantendo che il processo non potrà concludersi prima delle prossime elezioni presidenziali. Ma è il contenuto della decisione che fa discutere ancora di più, attirando plausi da Trump e alcuni studiosi conservatori, e invettive dai progressisti preoccupati di gravi conseguenze per il futuro.
Il criterio stabilito dalla sentenza, con una decisione che riflette la divisione ideologica della Corte tra giudici nominati rispettivamente dai presidenti repubblicani e democratici, afferma che il presidente gode di "immunità totale" per i suoi atti ufficiali da presidente, cioè quando agisce per compiere i suoi "doveri costituzionali essenziali". Quando invece agisce per il suo interesse personale, l'immunità non si applica.
Cosa significa nella pratica? La Corte ha fatto degli esempi, ma senza indicare come si deve applicare il ragionamento allo specifico caso di Trump. Ha rimandato la decisione alla giudice Tanya Chutkan di Washington D.C., che dovrà fissare delle udienze per una sorta di processo preliminare in cui si cercherà di stabilire una distinzione chiara in merito alle accuse del procuratore speciale Jack Smith. Il procuratore potrebbe anche ritirare alcuni dei capi d'accusa per fare prima, concentrandosi esclusivamente sugli atti compiuti da Trump candidato, e quindi in veste privata, ma in ogni caso le parti dovranno confrontarsi in tribunale prima di arrivare a una decisione finale su questo punto.
Proviamo a fare un paio di esempi. Il primo riguarda l'uccisione di un terrorista come Osama Bin Laden. Nessuno negli Stati Uniti ha pensato di incriminare Barack Obama per questo omicidio. Bin Laden era definito come un terrorista e una minaccia agli Stati Uniti. Si trattava essenzialmente di un atto di guerra, anche se senza una formale dichiarazione in tal senso, e senza seguire un processo formale.
Ora ci possiamo chiedere: se il presidente dovesse ordinare l'uccisione di una persona non designata come terrorista, sarebbe legittimo? Oppure di un cittadino americano, considerato un pericolo per le istituzioni e per la democrazia? A prima vista, una situazione del genere rientrerebbe nell'immunità stabilita dalla Corte Suprema: il presidente ha certamente l'obbligo costituzionale di eseguire e difendere le leggi del paese, quindi la violazione di qualche regola nel perseguimento dell'obiettivo diventerebbe irrilevante. Non c'è più la possibilità di sindacare sulla condotta di un presidente che agisce per motivi ufficiali.
Paradossalmente, Joe Biden potrebbe essere giustificato a cercare di eliminare Donald Trump in questo caso, se il secondo viene visto come una minaccia per il paese. E comunque, un qualsiasi presidente futuro avrebbe la possibilità di ignorare le leggi penali nel prendere a bersaglio i suoi oppositori, se convinto che sta facendo il bene del paese.
Tutto ipotetico per ora, ma se leggiamo il testo della sentenza è chiaro che la Corte Suprema ha stabilito una sorta di dottrina di "infallibilità" per il presidente quando agisce nel suo ruolo. È chiaro che in alcune circostanze i leader politici devono avere la libertà di prendere decisioni difficili. Ma questa sentenza sembra estendere la libertà in modo indefinito e anche pericoloso, rimuovendo l'idea stessa che tutti sono soggetti alla legge.
di Andrew Spannaus
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