07 Gennaio 2024
Nei giorni scorsi, un noto quotidiano on line ha comunicato il risultato di un sondaggio: “Sei italiani su dieci con Israele e Zelensky”. Forte di questo responso popolare (basato sul voto di qualche decina di lettori, sai che attendibilità!), il Direttore ha rifiutato la pubblicazione di due miei editoriali che denunciavano il genocidio in atto a Gaza e l’inutilità della morte di trecentomila giovani ucraini.
Così, va il mondo del giornalismo in Italia: il lettore non vuole farsi un’opinione leggendo i quotidiani. Il lettore ha un pregiudizio (indotto da quella abominevole cloaca putrida che è la televisione) e vuole leggere soltanto articoli che confermino che il pregiudizio è fondato.
Da ammiratore di Eraclito, sempre convinto che uno valga centomila se è il migliore e – soprattutto – scettico sulla capacità delle giurie popolari di esprimere un qualsiasi giudizio, io ho incassato il rifiuto con il consueto silenzio, senza un sussurro di rivolta o di polemica.
Il primo esempio storico di giuria popolare, sappiamo come andò a finire: “Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: «Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?».” (Matteo 27.12). Nonostante gli esordi scoraggianti – dopo la rivoluzione ci fu la restaurazione – l’utopia illuminista e rivoluzionaria dell’uguaglianza è stata spinta all’eccesso. Quella che era semplicemente da intendersi come uguaglianza di diritti, è stata stravolta in uguaglianza tout court. Così, se la maggioranza gradisce lo sterminio indiscriminato di innocenti, i giornalisti devono stare attenti a non scrivere che il genocidio è il peggiore dei crimini. Naturalmente, se si segue la linea dettata dai padroni dei media, non si subirà alcun fact checking. Io il fact checking l’ho subito senza replicare (e avevo mille volte ragione, avevo scritto la pura verità).
Ma io non vivo di giornalismo, sono anche un avvocato. Mi posso permettere di non scrivere.
Ci vuole coraggio, “cor habeo”, virtù oggi banalizzata, svuotata di significato.
Raffaele Oriani lo ha avuto. Ha scritto una lettera (pubblicata su questo giornale) e ha lasciato La Repubblica. Io non lo conosco, ma – da oggi, senza sapere nulla di lui – lo stimo. Perché non mi serve altro per stimare un uomo, mi basta che mantenga la propria umanità, la propria lucidità, tutta la sua capacità di giudizio anche in questo presente distopico.
Raffaele Oriani ha dimostrato non soltanto di avere coraggio, ma anche di avere compassione, il più nobile dei sentimenti.
Possiamo giustificare la morte di oltre ventimila esseri umani, la persecuzione subita da oltre due milioni di persone da mesi sotto le bombe?
Come si fa a non indignarsi davanti all’immagine del Presidente israeliano che firma le bombe destinate a Gaza, davanti agli israeliani che prendono a calci e pisciano sui cadaveri palestinesi, davanti all’espianto degli organi dei cadaveri, restituiti nei sacchi neri dell’immondizia?
Me ne fotto di quello che pensa la maggioranza, io sono nauseato. Ho già scritto (e il mio parere di avvocato internazionalista è il medesimo di molte autorevoli personalità di religione ebraica, come il Professor Jeffrey Sachs) che quello di Gaza è un disastro umanitario, che il sostegno incondizionato a Israele, lo Stato Nazione degli ebrei (una Nazione che discrimina su base religiosa, esattamente come le peggiori teocrazie islamiche) è il fiancheggiamento di uno Stato governato da criminali.
Raffaele Oriani magari sarà più moderato di me, meno esplicito. Ma lui ha pagato un prezzo per difendere la propria libertà di espressione.
E questo fa la differenza.
Di Alfredo Tocchi, Il Giornale d’Italia, 7 gennaio 2024
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