13 Ottobre 2025
Nel cuore della discussione parlamentare si è aperto un fronte delicato e potenzialmente esplosivo: quello dell’esenzione dalla Tari per le superfici industriali. La proposta di legge attualmente in esame mira a introdurre un’esenzione totale – sia della quota variabile che di quella fissa – per le aree produttive e i relativi magazzini, presentandola come una "interpretazione autentica" della normativa vigente. Ma dietro questa definizione tecnica si cela un intervento che rischia di scuotere l’equilibrio finanziario dei Comuni e di far implodere l’intero sistema del prelievo sui rifiuti.
La Tari – lo ricordiamo – non è una tassa qualsiasi. Si compone di due componenti distinte: una quota variabile, calcolata in base alla quantità e tipologia di rifiuti prodotti, e una quota fissa, destinata a coprire i costi generali del servizio di igiene urbana. Questa parte fissa è funzionale al finanziamento di attività che prescindono dal conferimento diretto, come la gestione amministrativa, lo spazzamento delle strade, la pulizia dei rifiuti abbandonati, fino agli investimenti negli impianti. Nel tempo, la Corte di Cassazione ha chiarito che anche le aziende che producono e smaltiscono autonomamente rifiuti speciali devono comunque pagare la quota fissa. Perché? Perché si tratta di un servizio pubblico indivisibile: anche se non direttamente fruito, beneficia l’intera collettività, comprese le imprese.
La proposta legislativa – se approvata – comporterebbe l’esenzione totale dalla Tari per tutte le superfici industriali, magazzini inclusi. E non solo per il futuro: in quanto interpretazione autentica, avrebbe efficacia retroattiva, spalancando le porte a richieste di rimborso per gli ultimi cinque anni. L’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) ha lanciato l’allarme: si rischia un buco nei bilanci comunali da centinaia di milioni di euro. E lo Stato, nel testo attuale, non prevede alcuna forma di ristoro per i mancati introiti. Una misura presentata come a vantaggio delle imprese rischia, paradossalmente, di scaricare il costo del servizio pubblico sui cittadini e sulle piccole attività.
Ma non è solo una questione contabile. La proposta entra in collisione con la normativa europea in materia di rifiuti. A livello comunitario, infatti, ciò che conta è la tipologia di rifiuto (classificata attraverso i codici EER, ex CER), non il luogo in cui è prodotto. Invece, il testo collega l’esenzione alla superficie fisica, creando un evidente disallineamento con le regole dell’Unione. Un disallineamento che potrebbe aprire la strada a nuovi contenziosi europei, con impatti negativi anche sui principi di concorrenza e sull’attuazione dell’economia circolare. La giurisprudenza nazionale, poi, è tutt’altro che ambigua. La Cassazione, con una serie di sentenze culminate nell’ordinanza n. 13455 del maggio 2024, ha stabilito che:
Ignorare questa giurisprudenza consolidata significa scardinare un principio ormai chiaro: anche le imprese, pur non conferendo rifiuti urbani, beneficiano indirettamente del sistema pubblico di gestione. Un punto critico riguarda i magazzini industriali. La normativa attuale già consente di escludere dal calcolo della Tari i depositi strettamente collegati a processi produttivi che generano esclusivamente rifiuti speciali. Tuttavia, la nuova proposta amplia l’esenzione a tutti i magazzini, anche quelli dove si generano rifiuti ordinari, come imballaggi e materiali assimilabili ai rifiuti urbani. Una scelta che, secondo i giudici, contraddice lo spirito della legge, che richiede invece un’analisi puntuale della tipologia di rifiuto e del suo trattamento. Un magazzino non è automaticamente escluso solo perché "industriale": ciò che conta è cosa vi si produce e come viene smaltito.
L’aspetto forse più problematico della proposta è la retroattività. Se approvata, potrebbe legittimare una valanga di richieste di rimborso, costringendo i Comuni a restituire somme già incassate – e spesso già spese – negli ultimi anni. Una scelta che minerebbe la certezza del diritto e metterebbe in discussione la solidità dell’intero impianto tributario locale. Non è solo un problema tecnico. È una questione di fiducia nello Stato, nella sua coerenza e nella capacità di garantire una fiscalità equa e stabile.
L’Anci non si limita a criticare: propone una soluzione alternativa. Nessuna esenzione totale, ma una modulazione più equa del prelievo, prevedendo riduzioni mirate per le aree che producono esclusivamente rifiuti speciali, purché gestiti autonomamente. In questo modo si tutelano le imprese senza compromettere la sostenibilità finanziaria dei Comuni né penalizzare le famiglie. La chiave è trovare un equilibrio ragionevole tra le esigenze produttive e il principio – costituzionale – della capacità contributiva. Come ha osservato la Cassazione, esentare totalmente soggetti che comunque traggono beneficio dal servizio pubblico sarebbe irrazionale e potenzialmente incostituzionale, in violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione.
Il confronto sulla Tari e sulle superfici industriali è destinato a proseguire. È una partita complessa, che incrocia diritto, economia, politica e rapporti istituzionali tra Stato e autonomie locali. Ma una cosa è certa: non si può giocare sulla pelle dei Comuni e dei cittadini. Ogni intervento normativo deve garantire chiarezza, equità e sostenibilità. E soprattutto, non può minare i principi fondanti di un sistema tributario che, piaccia o no, deve reggersi sulla responsabilità condivisa. L’alleggerimento fiscale per le imprese non può diventare un boomerang per le famiglie. Serve buon senso, non scorciatoie.
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia