19 Luglio 2025
Fonte: Facebook, @Francesca Iseppi
Francesca Iseppi è poetessa in forte crescita, sia stilistica che tematica. Avevamo incontrato la sua precedente poetica saggiando freschezza di idee e delicatezza di stile. Qui, in questa splendida silloge, “La fragilità del verso” – che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima e che uscirà a breve –, sembra farsi più concreta, talvolta persino perentoria, con costruzioni metaforiche più complesse e che rimandano sovente a elementi sanguigni e a una profondità prospettica inedita.
Il suo poetare sembra nascere dall’esigenza di una narrazione, di un riordino di eventi della vita che cadrebbero altrimenti nell’abisso dell’indistinto o in un caos disarticolato. Ma narrare, qui, è passare al setaccio la materia greggia dell’esperienza e reinventarla alla luce di un cuore pulsante e di una mente che fa cristallino il lutulento, concreto l’impalpabile, e disegna paesaggi, dà esito a piccole e grandi storie altrimenti gettate nell’oblio. Il segno della sua poesia è preciso e incide ferite annose quasi a volerle far suppurare; ma accanto al bisturi v’è la rosa, accanto al raggio preciso della parola, v’è l’imponderabile e una misura che è più divina che umana. Così la leggerezza, in questi versi, è avere nella visuale di una vita il coraggio di lambire e carezzare anche la superficie delle cose: gesto che non significa fare astrazione del resto, della loro sostanza, ma omettere uno scavo figlio di ossessioni circolari, per preferirgli una forma che è già sostanza: perché distintiva e sposata alla natura profonda di ciò che si approccia.
V’è un registro della parola che evoca elementi sensoriali precisi, spessi o sottili, evocatori di realtà così concrete da rimandare alla natura sensibile dell’esperienza, traslandola non in una semplice opera di astrazione, ma facendola strumento di passaggio a un piano quasi “teoretico”; non sintomo di conoscenza e indagine, ma piuttosto reale apportato di un pensiero incarnato, fragile quindi ma anche desto e ardimentoso, in perenne movimento e mai sazio. Così, scrive la poetessa: “Le frasi mi attraversano / prima ancora di essere dette: / sono ombre febbrili, / lame di miele / che chiedono dimora.” Perché le emozioni, i pensieri, tutte le impressioni di una vita, cercano dimora nella parola, delubro sacro del non detto che giunge a essere detto, di una realtà che, da muta e ostile, diviene dicitrice e plasmabile, non più avversa e incommensurabile, ma conciliata nel gesto salvifico di coglierla e aprirla come una rosa entro il paesaggio ricco della parola.
Tutti questi elementi sono come i noti personaggi in cerca di autore di Pirandello... Urge in loro l’avvento di sé nella vita e nell’estro di chi può porli entro, appunto, una narrazione. Sembra infatti che la vita bussi alla porta dell’ima natura di questa autrice che l’accoglie e la fa ospite nel proprio canto. “La vita ci lambisce, insiste / ma le mani restano ferme / e la polvere si posa, lieve, / nelle pieghe di gesti dimenticati / sulle ore che non sanno più accendersi.” E se poi, il “tempo scorre uguale” e con “la stanchezza di un pendolo esausto”, occorre non consegnare all’oblio nemmeno la fatica del farsi al mondo come miracolo di sé proprio al centro di quell’oscillare uguale, mesmerico, figlio di una indifferente (nel doppio senso di indolente e uguale) rassegnazione; occorre accendere la fiaccola di una resistenza viva da passare di mano in mano: proprio perché le mani non siano raggelate in una paralisi che più niente dice o sente al tatto, ma siano in accordo al dire, e con un fare che sposa la vita al di là di ogni opprimente ripetersi, al di là della stagnazione e dell’inespresso. E allora questa autrice straordinaria, sempre in crescita e su un versante che non può essere irreggimentato in facili definizioni e attribuzioni: semplicemente “brucia” e “non per un credo”, non per redimere o redimersi, non per offrire se stessa sull’altare di chi attende il suo consumarsi, ma perché il bruciare stesso è l’unica lingua che essa conosca: splendida immagine e splendida dichiarazione. Non v’è qui un credo o una vocazione a qualcosa di nobile e virtuoso di per sé, ma v’è il consumarsi febbrile che raccende ogni verso, che promana luce e calore, che divora e trasforma, esagitata fiamma che è natura della poetessa stessa; non strategia di vita o del verso, ma quello cui ella non può sottrarsi, sua respiro e suo sangue, sua visione e suo cuore, ganglio di ciò che è ed a cui è destinata.
“Crescere”, poi, a volte è “smarrirsi per sempre”, perché trovare sé è prendere il largo per un mare aperto e inquieto, è farlo in modo erratico, allontanandosi per sempre per cogliere una “visione”, qualcosa che non sta nel raggio della prossimità, qualcosa che prende vita e cresce, appunto, nell’incontro con l’ineffabile e lontano da abitudini e domestiche sicurezze.
Vogliamo concludere questo nostro itinerario nella nuova poesia di Francesca Iseppi citando suoi splendidi versi: “Mi abito di pelle, / confine sottile / tra il mondo e l’anima. / In ogni fibra / un sussurro antico / di vita che pulsa. /V’è un respiro / che non passa dalla bocca / ma si versa – lento- / tra i polpastrelli / e l’insonnia della carne. / E lì dove tutto tace / tu esisti. / Sfiorami, / e non sarà il corpo a tremare, / ma la coscienza che, nudata, / viva si riconosce. / E la pelle / mia, tua, nostra, / si fa dimora del sacro, / del proibito, / del vero.”
Perché tra il mondo e l’anima v’è una placenta sottile e nel gesto di offrire l’anima alla vita stanno mille osmosi e travasi, e tra il tatto e una carne sempre desta, sempre permeabile, sempre arresa alla vita, si versa un respiro che si fa albergo del Sacro, di un vero inoppugnabile, perfino del proibito. Il proibito, poi, sembra oggi la sola via per essere dissidenti attraverso l’arte e la poesia: più complessi e veritativi e significativi di ogni breviario morale, di ogni compilazione di norme e condotte, fuori dal domato fuoco della civiltà - per rifondarla.
Il verso è forse fragile, ma lascia segni indelebili, sfida l’obliquo e la dimenticanza, si fa voce non spenta di cammini vivi e vitali.
Di Massimo Triolo
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