03 Luglio 2025
Di libri sulla Resistenza ce n’è una caterva di ogni tipo e genere. Memorie, saggi, romanzi, racconti, poesie… Non mancano, naturalmente, film, spettacoli teatrali, dipinti e soprattutto canti. È naturale che sia così, dal momento che il fascismo è stato un fenomeno vasto e complesso in quasi tutta l’Europa, e da noi in Italia ha prodotto una sanguinosa guerra civile come conseguenza di una guerra ancora più disastrosa: la Seconda guerra mondiale con il suo immane bilancio di morti e devastazione. La Resistenza partigiana, seppure limitata geograficamente, ha finito per diventare l’epopea di un popolo – limitato se vogliamo – ma che nelle sue avanguardie e nei suoi eroi, ha finito per riscattare il disonore dell’intera nazione. Donne, uomini, anziani, padri di famiglia assieme a giovanissimi e quasi ragazzi vi hanno preso parte. Operai, contadini, artigiani, professionisti, studenti, intellettuali, militari, sacerdoti… e ancora: comunisti, liberali, socialisti, anarchici, ex monarchici, senza partito, gente comune, borghesi e a volte persino qualche aristocratico; cattolici, agnostici, credenti e non credenti, atei, ebrei, stranieri di varie nazioni: un universo composito i protagonisti della Liberazione, che contribuirono alla sconfitta del nazi-fascismo. Tanti l’hanno sostenuta quella lotta, nei ruoli e nelle forme più diverse; e tutto quel sostegno è stato prezioso. Si pensi solo a quanti in montagna hanno sfamato i combattenti, hanno dato indumenti, hanno accolto malati, hanno nascosto fuggiaschi, renitenti, disertori; hanno portato messaggi, hanno avvertito di rastrellamenti e di imboscate. Si farebbe un grave torto a molti e al loro sacrificio se si sottacesse tutto questo, come si tenta a fare spesso, quasi la Resistenza fosse stato patrimonio esclusivo.
L’epopea col tempo si fa mito e penetra nelle coscienze, anche di coloro che non hanno vissuto direttamente quegli eventi. Costoro, tuttavia, sentono lo stesso di esserne stati idealmente contaminati, attraverso la memoria, le testimonianze, il racconto storico. Sugli artisti e gli scrittori consapevoli del loro ruolo sociale questa “contaminazione” agisce in modo più accentuato e profondo, e spesso fanno i conti con quella materia anche a distanza di un arco di tempo lunghissimo rispetto agli eventi della storia. Questo perché a loro interessa il portato morale dei fatti, l’insegnamento che i fatti affidano alla coscienza di tutti; il lato umano che sono stati capaci di determinare in situazioni tanto estreme. Ed è per questo che un’autrice nata nei tardi anni Sessanta del secolo scorso, come Elisabetta Violani, tanto lontana da quella temperie, può tornare su quelle vicende settantacinque anni dopo la conclusione della Liberazione, e scriverne in forma di romanzo nel pieno della sua maturità di donna e di autrice. Un tempo divenuto troppo lungo? Uno spazio esageratamente dilatato? No, se si considera che il tempo è una semplice convenzione per uno scrittore ed egli non se ne fa condizionare. È la sua memoria inquieta che sceglie tempi e modi, dal momento che l’arte nasce sempre da una vita che non si appaga, come ho scritto altrove. Se la realtà frustra i desideri, è naturale che debba venire in soccorso la fantasia ad appagarla, come ha detto Freud a proposito dell’arte. E la fantasia corre più del tempo e va scandagliare dove meglio crede.
Sono Coniglio partigiano nasce da tutto questo e assume le forme narrative del proprio tempo, quello del suo artefice. Era rimasta materia viva nella mente della scrittrice ed a un certo punto non ha potuto più contenerla, tenerla a bada: e ha dovuto farci i conti letterariamente. L’attacco è ottimo: un giovane militare di origini tedesche è appeso alla gomena di una nave e rischia di brutto. È nel porto di una città di mare del Nord Italia dove lo hanno spedito contro la sua volontà, come è capitato a tanti. Si tratta di un luogo lontanissimo dalla sua terra, una terra straniera, a combattere una guerra che lui non ha voluto, e che altri hanno deciso per lui. Lui avrebbe preferito rimanere in patria, accanto all’amata madre, a coltivare i suoi sogni di adolescente, quelli di una possibile felicità. Ha naturalmente paura, un’umana paura, e ha deciso di disertare perché non vuole uccidere né farsi uccidere. Giudica la guerra insensata e ha già provato tutto il dolore del distacco: dalla madre, dalla patria, dalla tranquilla vita familiare. Non cade in acqua e non affonda, il giovane soldato; e per fortuna non cade neppure nelle grinfie dei suoi commilitoni. Lo avrebbero passato per le armi su due piedi. La fuga, gli aiuti della giovane lavandaia Bruna per porlo in salvo, la consegna ad un gruppo partigiano che opera in montagna, il nomignolo di Coniglio per paura di sparare – ma del resto lui è un disegnatore, un artista, non un uomo di guerra – e tutto quanto la vita di resistente implica con le enormi difficoltà, gli scontri, le morti, le fughe, il freddo, la fame, le saltazioni e lo sconforto, fino all’epilogo, che compongono la trama, lo leggerete direttamente nel romanzo.
A me preme soffermarmi su alcuni elementi che ritengo di particolare importanza: Coniglio non sceglie di andare in guerra e non sceglie neppure di farsi partigiano. Sono le contingenze storiche e il lato oscuro della vita a decidere per lui, a farne un uomo diverso da quello che avrebbe voluto essere. Fosse stato per lui gli sarebbero bastato l’amore di Bruna e la passione per il disegno. Ma le contingenze ci trasformano e obbligano le nostre nature a disvelarsi. Il rapporto con altri uomini, quando si è costretti a condividere lo stesso destino di pericolo e di morte costanti, può maturarci disvelando gli aspetti umani di solidarietà e di compassione, o precipitarci nell’infamia e nell’egoismo. Coniglio fa un percorso la cui parabola si compie nel segno di una profonda umanità che ha richiesto umiltà, sacrificio, sopportazione, devozione all’amicizia, gratitudine verso i propri compagni e verso chi ha teso la mano. Non ci sono sofisticati confronti ideologici fra i protagonisti di questa avventura; non ci sono impuntature dogmatiche di dottrina, la politica e le idealità restano sullo sfondo. C’è l’esigenza primaria, oserei dire naturale, ancestrale, che presiede a tutto il resto; che viene prima di qualsiasi sovrastruttura determinata dalla cultura e dalla storia; questa cosa si chiama vita, celebrazione e difesa di essa da ogni offesa e da ogni mortificazione. E attorno a questa cosa così semplice che i sentimenti veri e compartecipi trovano la loro misura e il loro significato, i dialoghi si fanno leggeri, ironici e quotidiani, e i gesti rivelano la loro umana nobiltà.
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia