09 Aprile 2025
Una conversazione tra Lidia Sella e Giacomo Maria Prati
L.S. A quanti anni hai iniziato a riflettere sulla questione del Nulla?
G.M.P. Non ne ho idea. Probabilmente mi ha ispirato la passione per un romanzo affascinante e sottovalutato, che avevo divorato da giovane: La Storia infinita di Michael Ende. Un testo ricco di densità filosofica e simbolica, dove l’“avanzare del Nulla” (altro paradosso) mi sembrava più terribile di qualsiasi mostro o nemico. Storia attualissima, oggi.
L.S. Gorgia, Nietzsche, Heidegger, Schopenhauer, Leopardi, Cioran, Eco… Tanti i pensatori che si sono arrovellati nel tentativo di definire che cosa sia il Nulla. Rispetto alle loro conclusioni, il tuo recente saggio Il Nulla dopo il Nulla. Sfumature di un enigma paradossale (Arca Edizioni, Milano 2025) approda a traguardi ulteriori?
G.M.P. Penso di sì, nel senso che si avvicina a questo tema estremo con uno sguardo nuovo e un approccio differente. Ho cercato anzitutto di difendere la purezza e la radicalità del Nulla, affrancandolo dai vincoli con nichilismi vari, che non mi interessano e su cui c’è già sin troppa retorica e chiacchiera.
L.S. Hai frontalmente attaccato Emanuele Severino per i suoi scritti Intorno al senso del nulla, l’hai accusato di perdersi in “sofismi e giochetti linguistici”. Come mai hai giudicato con tanta durezza il suo contributo speculativo?
G.M.P. Severino ha meriti importanti per la storia della filosofia, specialmente con riguardo al rapporto tra i principi fondanti di Eraclito e di Parmenide (da lui riconciliati) e alla ricezione dell’opera di Nietzsche. Ma, nel libro che hai citato, si appiattisce su giochetti aritmetico-dialettici, nella scia di un hegelismo superficiale. Il Nulla merita più rispetto e più metodo. Affrontarlo in termini di negazione dialettica sarebbe riduttivo.
L.S. Se tutte le civiltà, religioni e filosofie – sia in Oriente che in Occidente – si sono da sempre confrontate con il concetto di Nulla, sorge il sospetto che il Nulla esista davvero, quantomeno in termini di inconscio collettivo.
G.M.P. Certamente esiste come intuizione, pensiero, concetto e “immagine paradossale”. Affrontare il Nulla è un test esistenziale, una prova severa, sempre stimolante. Ci induce a puntare all’essenza, ci proietta verso il limite estremo. La potenza anti-retorica del Nulla,
in un’epoca come la nostra, è quanto mai necessaria.
L.S. Da un lato il Nulla si mostra apparentemente privo di realtà, dall’altro sembra dotato di una natura proteiforme, capace di manifestarsi sul piano esistenziale, intellettivo, linguistico, immaginifico: autentico dilemma, insanabile aporia, labirinto senza vie di fuga?
G.M.P. Tutto questo, e molto di più. Forse l’immagine che più si avvicina ai paradossi del Nulla, e alla sua immediata reattività, è quella dello specchio. Così simili appaiono infatti nella loro radicalità e sfuggevolezza.
L.S. Affermare che il nulla esiste equivale già a strapparlo dalla sua dimensione di “non esistenza”. In un certo senso l’essere umano e il Nulla si minacciano a vicenda, si sfidano di continuo, come ombre che si inseguano. Ma con effetti anche positivi. Senza horror vacui, l’arte forse non sarebbe mai nata.
G.M.P. Tutta l’arte del dopoguerra vive di rendita sulle avanguardie novecentesche, aggiungendovi un desiderio nichilista di dissoluzione che ricorda l’“il Nulla in movimento”. A partire dagli anni Cinquanta si è affermato un processo di disprezzo e di nullificazione dell’arte quale rappresentazione, immagine e forma, che potrebbe derivare dall’influsso della spiritualità ebraica sui vertici elitari del mercato dell’arte occidentale, a trazione anglosassone. L’anti-iconicità del Tempio di Gerusalemme è un valore anche cabalistico, come Nadine Shenkar ricorda nella sua interessante opera Arte ebraica e Cabala. Il problema è che, continuando a “sottrarre”, si giunge al vicolo cieco della pagina bianca, cioè della non riconoscibilità dell’arte stessa.
L.S. Temi di più “il non essere” o “l’essere nulla”?
G.M.P. Il “non essere”, perché sembra implicare un fallimento, una diminuzione, una perdita irreparabile, proprio in quanto presuppone comunque, almeno nel suo rinvio linguistico, una centralità dell’essere; mentre “essere nulla” può tradursi anche in un’esperienza, non così rara, e già biblica, scritturale. Il “sentirsi nulla” non sempre è negativo. Può risultare purificante, “rettificante”. Il Nulla ti sollecita a prendere una posizione netta sui grandi temi dell’Uomo, esige autodisciplina. Non ti lascia tranquillo!
L.S. Di fronte al Nulla provi terrore/angoscia o stupore/meraviglia?
G.M.P. Ciò che mi ha spinto a sondare il Nulla è stato un passeggero senso di angoscia, precarietà e vacuità, che ritengo connaturato al passare del tempo. Il mio discorso sul Nulla vuole comunque essere non nichilista, anzi è anti-nichilista. E non è un paradosso!
L.S. Che rapporto intercorre tra Tempo e Nulla?
G.M.P. Nel mio saggio elenco innumerevoli proprietà del Nulla. Una di queste è l’acronicità, l’impossibilità di correlare il Nulla al Tempo, a ogni tempo. Il Tempo è invece assimilabile al Nulla, sia per la sua componente paradossale che per l’ambiguità sostanziale.
L.S. Nel tuo testo hai citato tredici “amici del Nulla”, fra cui lo zero, il silenzio, l’oblio, il deserto, l’abisso… Ma perché in questo elenco hai inserito anche l’Universo? Nella percezione comune infatti il cosmo di solito include il Tutto, anzi finisce addirittura per coincidere con esso.
G.M.P. Perché l’ “Uni-verso” ha per definizione, anche lessicale, un movimento e una direzione. Ma come può muoversi se è la totalità? Verso dove si muove e in che cosa si muove? Non a caso esiste una linea di riflessione che considera il Nulla co-temporale e co-essenziale all’Universo, alla materia, alla fenomenicità.
L.S. La fisica ha dimostrato che il vuoto quantistico è ricco di particelle prodotte da fluttuazioni casuali: a riprova che il Nulla rappresenta una condizione feconda, creativa?
G.M.P. …Oppure a conferma che il Nulla non esiste. O non è percepibile.
L.S. In veste di cattolico, credi che Dio abbia plasmato la realtà, la vita e la coscienza, proprio a partire dal Nulla? Oppure potrebbe essersi limitato a gettare sul terreno del Nulla i semi dell’essere e del divenire, nella speranza che prima o poi attecchissero?
G.M.P. Hai colto una delle ambiguità che probabilmente spiega il sorgere del pensiero del Nulla all’interno della teologia cattolica del Duecento: cioé l’ambiguità lessicale del termine ex nihilo, che da un lato rimanda al Nulla come antecedente temporale o causale dell’essere e, dall’altro, sta a indicare la creazione quale atto assoluto e unilaterale di Dio.
L.S. Per quali ragioni sei convinto che la poesia, più di ogni altra forma d’arte, possa cogliere l’essenza del Nulla?
G.M.P. Perché poiesis ama i paradossi, l’estremo, il limite. L’a-peiron, connaturato alla poesia quale forma di linguaggio e di esperienza, si avvicina all’irrappresentabilità e all’ineffabilità proprie del Nulla.
L.S. Nel 1983 Carmelo Bene ha scritto: “Io sono la musica del nulla. Non ho messaggi da offrire agli uomini…”. Mancanza, negazione, perdita, assenza, ferita, abbandono, esilio, delirio sono topoi ricorrenti nella poetica di Carmelo Bene. Dunque non è un caso se tu lo consideri il più perfetto interprete del Nulla.
G.M.P. Carmelo Bene lo considero un profondo filosofo e artista, molto più che un semplice performer e drammaturgo. La poetica beniana può leggersi in negativo e tramite la negazione di tutto ciò che l’autore rigetta: la rappresentazione, la mimesis, la finzione scenica, la mediazione, il personaggio, i nessi causali, i finalismi. Carmelo Bene, quale artifex, è estremo quanto il Nulla, come L’unico di Max Stirner. È più facile cogliere l’essenza della sua arte attraverso il Nulla e la negazione che non sulla scorta di asserzioni o descrizioni.
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