16 Settembre 2024
Viviamo giorni di grande caos, politico e ideologico. Un ministro dell’attuale Governo è stato costretto ad abbandonare il suo ruolo istituzionale per motivi di carattere politico sentimentale e un nuovo Ministro ha preso il suo posto: Alessandro Giuli. A sinistra il nome ha prodotto malumori: l’uomo non ha un curriculum all’altezza, si è detto, non è neppure laureato. E, tuttavia, l’uomo ha scritto diversi libri, ultimo in ordine di tempo Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia culturale, edito da Rizzoli. Non Julius Evola o Ezra Pound, meno che mai Friedrich Nietzsche, che sono tutti morti, ma Antonio Gramsci, morto a sua volta in carcere sotto il regime Fascista dopo 11 anni di detenzione.
Un sillabario, quello di Giuli, che richiama alla mente l’opera di Goffredo Parise, uno dei migliori prodotti letterari del ‘900 italiano, nata dal bisogno di raccontare in maniera semplice, senza ricorso alle ideologie, ai paroloni, ai concettoni, la realtà quotidiana, la complessità della vita e dei suoi sentimenti di base, dall’amore all’amicizia, ai rapporti famigliari. Sillabe, appunto, “unità fonetiche minime che possano essere articolate e percepite acusticamente, e in cui ogni parola può essere divisa”.
L’obiettivo di Giuli è un altro: scolpire le sillabe di base di una nuova concezione della destra ideologica, post-fascista e democratica, costituzionale e libertaria. E che nutra la vocazione gramsciana all’“egemonia”, ovvero non solo di occupare i posti di potere dai quali la cultura promana, ma di caratterizzarsi come sapere diffuso e condiviso, in un orizzonte valoriale solidamente conservatore. Certo poi, nel succitato libro, ci sono le dovute correzioni sulla progressività del conservatorismo, ma qui si aprirebbero questioni di leopardiana memoria sulle “magnifiche sorti e progressive” che ci porterebbero troppo lontano e, come si è detto, di confusione ne abbiamo già a sufficienza. Proviamo invece a semplificare.
La destra immaginata da Giuli è molto lontana dalla triade mazziniana “dio, patria e famiglia” che costituisce tuttora l’ossatura della mentalità di destra nel nostro Paese. Ed è proprio su questa mentalità, su questa destra popolare, che si fonda l’attuale consenso della destra di Governo, al di là delle sfumature e delle diversità dei partiti che la compongono. Ma con questa mentalità non si va né in Europa né nel mondo. Diciamolo pure: “dio, patria e famiglia” è un motto che potrebbe andare bene anche in Iran.
Ora, il problema politico è questo: come traghettare la destra dalle sillabe alle parole intere, alle frasi con un soggetto, un verbo e un predicato senza perdere i suoni gutturali del consenso popolare, delle madonnine agli angoli delle strade, della mamma e del papà, del genius loci e della tradizione? Più che al libro di Giuli, a Gramsci e alle sue ceneri, per una risposta bisognerà rivolgersi a Marzullo, quel Marzullo, Gigi, quello di mezzanotte e dintorni, quello di “si faccia una domanda e si dia una risposta”.
In una ospitata di qualche tempo fa, facilmente reperibile nel catalogo mutimediale di Viale Mazzini, Giuli, allora giornalista e conduttore Rai, afferma di essersi formato sulle opere di Platone e di esserne un grande estimatore. Bisogna fidarsi, e non c’è ragione di non farlo. Prendiamo la macchina del tempo che ci aveva lasciato in compagnia di Mazzini alla metà dell’Ottocento e riprogrammiamo il timer al 400 a.C. Evitiamo di incorrere nello stesso errore del precedente Ministro della Cultura che definì Dante un intellettuale di destra. Chiediamoci invece: che cosa può dare Platone alla cultura di destra? Innanzitutto la sua biografia. Platone, che di nome faceva Aristocle, venne chiamato così per via delle spalle larghe da pugile qual era. Pederasta come buona parte dei suoi concittadini maschi ateniesi, si è più volte espresso nelle sue opere a favore dell’omosessualità, o meglio si è proclamato indifferente alla stessa, così come all’eterosessualità che considerava naturale come pure il suo opposto. Incarcerato come Gramsci per le sue idee politiche, Platone fu liberato da amici potenti, come invece non accadde al povero Antonio, e continuò a scontrarsi con i dittatori della sua epoca predicando i valori della libertà e della responsabilità davanti agli dei e ai concittadini. Ce n’è a sufficienza per evitare di addentrarsi nei meandri, che so, de La Repubblica, testo di riferimento per la visione politica e istituzionale del filosofo greco. Non servirà, insomma, chiedersi se sia accettabile l’evidente plutocrazia espressa nel testo, o se sia o no il caso di lasciare fuori dalle mura della polis i poeti, poveri pazzi. Basterà riconoscere nella vita del filosofo un paio di concetti in trasparenza. Il primo riguarda l’idea di vocazione. Platone non si occupa di merito, né considera l’impegno civico un valore. Essi sono semplicemente necessari, una dotazione di base, diciamo. Non c’è nessun merito e nessun valore nell’essere dei buoni cittadini: perché la Repubblica funzioni è banalmente necessario. Ciò che conta per Platone è che ogni cittadino possa riconoscere il daemon che lo abita, la sua vocazione come essere umano, e che la Repubblica predisponga le condizioni necessarie perché il daemon possa maturare e donare i suoi frutti.
Il secondo concetto riguarda la necessità del daemon di manifestarsi a prescindere dalle condizioni della Repubblica, della Dittatura o della Monarchia nel quale si trova temporalmente a manifestarsi nella vita di ciascuno. Platone, infatti, nato filosofo, è rimasto tale per tutta la sua vita, a dispetto dei tiranni, del carcere e dei suoi avversari. Ecco la tanto vexata dialettica tra Stato e cittadino, tra controllo necessario e necessaria libertà, ma anche tra libera competizione e tutele sociali, ecco il rovello che fu di Goethe e di Foscolo, ma poi pure di Popper e, per certi versi, di Mill.
Con Platone alle spalle, il nuovo Ministro della Cultura saprà certamente orientarsi nella realtà multiforme in cui viviamo, nella complessità socio economica di un mondo in perenne crisi, saprà mutuare della grecità, ancora prima che dall’Impero Romano, il concetto di cittadinanza, di cosmopolitismo e di municipalità insieme. Si può sperare, infine, che radici profonde 2400 anni non rendano più necessario andare ancora più indietro fino alla Terra di Mezzo, agli hobbit e al Signore degli Anelli. Il futuro ci attende, anzi, è già qui.
Di Marco Marrocco
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