26 Agosto 2024
“Sollevate e fermi!”. A questo grido fatidico, che alle 21 del 3 settembre di ogni anno risuona immancabilmente a Viterbo, la folla risponde con un ruggito terrificante. L'ordine successivo, “Santa Rosa, avanti!”, scatena poi un vero delirio. Grida di gioia, lacrime di commozione, incitamenti, applausi scroscianti: è come lo scoppio di una polveriera. E la Macchina di Santa Rosa inizia così il suo Trasporto trionfale tra mille candele scintillanti.
La torre vertiginosa pesa parecchie tonnellate, è alta 30 metri e avanza lenta per i vicoli appositamente oscurati, portata a spalla da 113 uomini, più altri 60 che la trascinano con travi e funi: sono i celebri Facchini di Santa Rosa, riuniti nell'omonimo Sodalizio ed acclamati come supereroi dall'indescrivibile calca. Una popolarità che potrebbe insuperbirli? Niente affatto. Loro vivono con modestia e semplicità un ruolo impegnativo e rischioso. Com'è il Trasporto? Bellissimo. Perché lo fate? Per amore di Santa Rosa. Rispondono così, succintamente. Anche la scelta del nome sottintende una sudditanza volontaria, accettata di buon grado, per la “Santa bambina” nata nel 1233 e morta diciottenne. Bisogna averci l'inclinazione perché portare la Macchina è un atto di fede ed è un grande onore diventare Facchini. Non si diventa Facchini a caso.
La festa della patrona dura fino al 15 settembre, è vissuta dai viterbesi con una partecipazione appassionata e rievoca la traslazione del corpo incorrotto della giovane Rosa, nel 1258, dalla chiesa di Santa Maria in Poggio al santuario che le verrà intitolato. La sfilata della Macchina, esaltante e spettacolare, da 800 anni è il clou delle celebrazioni. E l’Unesco l’ha dichiarata Patrimonio immateriale dell'Umanità nell’ambito della “Rete delle Grandi Macchine a spalla” insieme ai “Gigli” di Nola, alla “Varia” di Palmi e ai “Candelieri” di Sassari, tutte sculture gigantesche care alla devozione popolare.
Il Trasporto di Santa Rosa sale alla ribalta nel XIII secolo. Da allora la Macchina si è sbizzarrita in forme sempre più colossali e liriche tra fiori, angeli, archi, globi fiammeggianti, lampade e torce, brillando accecante nel buio delle strade. “Sembra che Dio sia sopra i tetti di Viterbo...” ha scritto un poeta locale cogliendo la drammaticità di questo insidioso percorso, 1200 metri in salita e in discesa, da piazza San Sisto al sagrato di piazza Santa Rosa, sofferti e non scevri di suspense: nel 1814 e nel 1820 una paurosa inclinazione del baldacchino rese impossibile il Trasporto, nel 1801 la Macchina fu avvolta dalle fiamme in piazza delle Erbe, e nel 1790 cadde rovinosamente alla partenza (“la mossa”), tra il panico dei presenti…
Ma ecco che questa straordinaria manifestazione sta per iniziare. Abitanti e visitatori si assiepano fin dal mattino in 50.000, aspettando pazientemente per ore e ore lungo via Garibaldi, via Cavour, piazza del Plebiscito. I Facchini, con la tipica divisa bianca dalla fascia rossa, tra gli squilli delle fanfare, si riuniscono alle 20,30, tesi, seri, consapevoli dell'azzardo che li attende. Hanno superato la “prova di portata” camminando per 90 metri con una cassa di 150 kg sulle spalle. E qualche ora prima, fatto il tradizionale giro delle chiese viterbesi munendosi di santini che infilano in vita, si sono ritirati nel convento dei Padri Cappuccini per una pausa di raccoglimento. Poi c'è stato il saluto ai familiari, colmo di emozione.
Ora sono come i leggendari cavalieri della Tavola Rotonda che si votavano con abnegazione alla ricerca del Santo Graal. Ognuno ha la sua funzione, ognuno la sua importanza nella riuscita di questa impresa titanica. I 63 “ciuffi” con il particolare copricapo di cuoio imbottito, “accapezzato” (indossato) per proteggersi il collo, vanno a posizionarsi sotto la Macchina, sorreggendone il peso maggiore; le 12 “stanghette” si schierano davanti e dietro alla base per attenuarne le oscillazioni (“accollate”); le 16 “spallette” agguantano le travi laterali; e così via fino alle “leve” e alle ”corde” che spingeranno nel tratto finale, il più critico, per l'ardua pendenza di via Santa Rosa.
Aspettativa e pathos cominciano a ribollire. Sincronizzato come un solo uomo, il manipolo obbedisce al Capo Facchino che scandisce l’avanzata con le sue imperiose ingiunzioni: “Allunga!”, intima dopo un rallentamento, quando si riprende il passo normale; “Dentro le teste!”, comanda nei transiti più difficili dove tra i Facchini e le abitazioni non c'è che una decina di centimetri, mantenendo sempre un ammirabile sangue freddo, carismatico e autoritario.
Con lo scorrere dei minuti, la fatica diventa immane. I Facchini sono stremati, hanno le facce stravolte, il respiro affannoso, i muscoli gonfi da scoppiare. Non si pensa più a niente, diranno dopo, concordi; si bada soltanto al passo dei compagni: guai a perdere il ritmo! E vanno avanti, sempre avanti, mettendoci il cuore. Cinque soste tra piazza Fontana Grande e piazza Verdi, con la Macchina appoggiata su cavalletti di 100 kg, poi finalmente il santuario. “Calate adagio!” risuona stentorea la voce del Capo Facchino. E la Macchina è abbassata. È deposta sul sagrato. È ferma.
Allora le ovazioni salgono alle stelle, gli evviva dilagano liberatori. Parenti, amici, conoscenti, turisti, perfetti sconosciuti si abbracciano entusiasti, tra i battimani assordanti. Tutti i viterbesi in quel momento sono Facchini. Non è folclore, non è spettacolo: è il trionfo di un'intera città che ha patito e pregato. Con grandissimo sacrificio la Santa è stata onorata di nuovo. Di nuovo un Trasporto è andato a buon fine. E sui volti disfatti dei Facchini la terribile tensione si dissolve lentamente, lasciando il posto alla felicità.
Di Carla Di Domenico.
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