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Albert Camus, o dell’assurdità della vita, del suicidio e della felicità

La grandezza di Albert Camus sta nell’avere compreso che l'essere umano - anche se intelligente e consapevole - può essere felice, nonostante tutto

12 Maggio 2024

Albert Camus, o dell’assurdità della vita, del suicidio e della felicità

Fonte: Facebook @Albert Camus

Nel suo saggio del 1942, Il mito di Sisifo, il filosofo francese Albert Camus paragona la condizione umana alla condizione di Sisifo, re di Efira, obbligato a spingere per l’eternità un enorme masso fino alla vetta dove questo finisce per rotolare di nuovo giù a valle. Il mito di Sisifo viene utilizzato da Camus come un’allegoria per giustificare il fatto che la vita sia assurda e senza senso, ma nonostante ciò deve essere affrontata come una sfida. Sisifo è il simbolo dell’umanità così come la sua punizione è simbolo di quello che noi facciamo ogni singolo giorno durante le nostre vite. Nella visione di Camus, le nostre azioni sono senza senso e senza risultato, esattamente come quelle di Sisifo. È una prospettiva terrificante, eppure Camus ci rassicura:
“il faut imaginer Sisyphe heureux”
“bisogna immaginare Sisifo felice”
Sisifo è felice perché ha accettato la punizione assegnatagli. Immaginando Sisifo felice, anche noi possiamo affrontare l’assurdità della vita, e solo quando prendiamo coscienza dell’assurdo possiamo superarlo e trovare una certa forma di felicità.
La speranza è il desiderio di qualcosa, il cui opposto è la paura, il desiderio che qualcosa non accada: in ogni speranza c’è la paura, e in ogni paura c’è la speranza. Ma Sisifo è senza speranza, non spera più in nulla per la sua vita, non desidera più nulla per la sua vita. Eppure, può ancora essere felice, proprio perché riconosce e accetta la sua situazione e allo stesso tempo trascende da essa.
Ogni giorno milioni di persone si chiedono: vale la pena di vivere questa vita? È questa la stessa domanda che si pone Camus quando dichiara che:
“il n’y a qu’un problème philosophique vraiment sérieux: c’est le suicide.”
“C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio.”
Camus afferma che il suicidio è la confessione che, dopotutto, la vita non vale la pena di essere vissuta. E questa confessione è strettamente legata al sentimento dell’assurdo della vita. La scelta del suicidio implicitamente dichiara che la vita “è troppo”; è la via più semplice per scappare dall’assurdità della vita, l’immediata fine del proprio essere e del suo posto nell’universo.
Uccidersi è confessare: confessare che si è superati dalla vita o non la si è compresa.
È quindi l’idea che la vita sia senza senso a implicare che la vita non valga la pena di essere vissuta e che di conseguenza il suicidio sia la sola soluzione all’assurdità? Camus propone una soluzione: la vita è assurda e senza senso, ma è possibile rivoltarsi contro l’assurdità e trovare la felicità. È impossibile trovare una risposta soddisfacente alla domanda sul senso della vita, e ogni tentativo di imporre un senso è inutile. La scienza, la filosofia, la società o la religione non potranno mai trovare un senso alla vita che sia immune al problema dell’assurdità. È possibile vivere senza speranza. Dobbiamo immaginare Sisifo felice. Capire e accettare che la vita è priva di senso è per Camus il primo passo verso l’essere veramente vivi.
(Elena Ramella)

Prendere coscienza che la vita è priva di senso e continuare comunque a viverla, giungendo persino a essere felici, richiede coraggio. Il grande scrittore americano Richard Yates lo ha riassunto in maniera magistrale: “Hopeless emptiness. Now you’ve said it. Plenty of people are onto the emptiness, but it takes real guts to see the hopelessness.”.
La maggior parte delle persone va avanti per forza d’inerzia, non si pone neppure il problema del suicidio e non prende coscienza che la vita è priva di senso.
“Illudersi è meglio di non illudersi”, l’ho scritto molte volte. Ciascuno coltiva le proprie illusioni, personali e collettive: c’è chi crede in una religione, chi in un significato occulto e persino qualcuno, per fortuna pochi, che sostiene che noi non siamo vivi (il filosofo Nick Bostrom, ad esempio). I più fortunati sono proprio forse questi ultimi: se non siamo vivi, non possiamo toglierci la vita.
Io, da agnostico, so di non poter escludere nulla perché la mia comprensione della condizione umana e universale è limitata. Come ho scritto nel mio romanzo Undici al 17 – (Husserl e le notti di Milano), nemmeno la manifestazione del Dio creatore sarebbe sufficiente a convincermi dell’esistenza di Dio.
“Si può sospendere il giudizio sull’esistenza del mondo, ma è evidente che esso appare alla coscienza: non posso sospendere il giudizio sul fatto che io sto pensando il mondo.” (Edmond Husserl). Con questa frase in testa, Luigi osserva le formiche. Seduto sulla panchina nell’area riservata ai cani del parco CityLife, guarda le formiche trascinare un pezzetto di croccantino. Le formiche – con i loro sensi in miniatura su scala umana - avranno una loro microscopica coscienza? Osservando il molto piccolo, o il molto grande, l’uomo impara a relativizzare. Il parco è nuovo, sorto sull’area della fiera campionaria. Le formiche avranno visto un uomo scaricare da un camion sacchi di terriccio, piantare le siepi e gli alberi, seminare l’erba, mettere la panchina: lo crederanno dio creatore? Notando altri uomini indaffarati, altri dei creatori, saranno diventate politeiste? Com’è possibile credere, se persino il miracolo più grande – il manifestarsi di dio creatore – può essere un abbaglio? “La fede non s’impone… Tommaso credette non per aver veduto Cristo risorto, ma perché già prima voleva credere… Delle prove materiali dell’al di là! Ah, che gente!” (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov). Husserl ha ragione: la percezione sensoriale della cosa reale è sempre, essenzialmente, inadeguata. Dove finisce il mondo delle formiche? Attraversare Piazza Giulio Cesare, sempre trafficata, sarebbe un’impresa simile alle umane conquiste spaziali. Quelle formiche non conoscono – né conosceranno mai – i fiumi, i laghi, il mare, altre formiche diverse da loro: rosse, più piccole, più grandi, altri insetti, animali giganteschi come gli elefanti o le balene. Eppure, la società delle formiche - in termini di evoluzione - è più avanzata della nostra. Le formiche nascono già predisposte per il compito che dovranno svolgere nel formicaio: la regina, le operaie, i soldati… Succederà anche all’uomo? Nella Shanghai tower – un grattacielo di 128 piani alto 632 metri - lavorano circa sedicimila persone: cosa ci importa dei loro destini individuali? Cosa le distingue dalle formiche? Un tempo si sarebbe detto l’anima, ma cosa ne sappiamo dell’anima? Oggi il singolo non conta, contano le pluralità organizzate. Non si parla più del grande avvocato tal dei tali, ma dello studio legale tal dei tali, di cui nessuno conosce i soci, sostituibili. Più una società è complicata, più l’uomo dalla cultura classica, universale, arretra davanti all’uomo nuovo, altamente specializzato in qualche cosa di oscuro per gli altri ma al tempo stesso lo scopo della sua vita. Così muore l’illusione della libertà individuale, sostituita dalla necessaria interdipendenza. E comunque, noi umani quanto siamo piccoli sulla scala di grandezza dell’universo? La coscienza elabora una propria concezione di mondo in base ai sensi e la esprime col linguaggio. Tutto è relativo e al tempo stesso assoluto, perché i nostri sensi sono cinque e non ci consentono di vedere il troppo grande o il troppo piccolo e tutto ciò che potrebbe essere visto soltanto con altri sensi, non umani. Visto dallo spazio, il civico 17 è meno, molto meno di un formicaio: è un invisibile luogo sopra un pianeta blu che ruota intorno a una stella seguendo un’orbita ellittica. E gli inquilini formiche intente a percorrere – giorno dopo giorno, anno dopo anno – lo stesso brevissimo itinerario. In termini spaziali, persino la circumnavigazione del globo è un tragitto irrisorio. Un romanzo è la narrazione di quei brevi tragitti umani, di quel frenetico affannarsi a sopravvivere. E ogni vero scrittore, uomo dalla cultura classica, universale, alla fine arriverà comunque a porsi la domanda: “Perché?” e, davanti allo spaventoso vuoto di un’assenza di risposta, penserà al suicidio.”
Naturalmente, non nascondo che occorra davvero molto coraggio per continuare a vivere con questa consapevolezza. Eppure, almeno nella mia condizione di privilegiato, io riesco a essere felice in tante occasioni e per tanti motivi diversi.
Forse l’unico senso della nostra vita che noi possiamo comprendere è la prosecuzione della specie. Ogni altra ipotesi si scontra con la nostra limitatezza. Cinque sensi: così pochi da poterli contare con le dita di una mano… siamo tanto limitati eppure ci crediamo creatori. Esagitati sempre scontenti della nostra condizione, sempre intenti a porci domande sulle questioni essenziali, quando già il verbo riflessivo dovrebbe farci capire che non saremo mai in grado di darci risposte. “Cercare il perché delle cose è tanto vano quant’inutile” (Galileo Galilei).
L’uomo, come ha scritto Emil Cioran, è un eterno disadattato, un degenerato al vertice del mondo animale che tende in ogni modo a non identificarsi con la propria condizione, che è quella di “un devastatore che accumula misfatti su misfatti per la rabbia di vedere un insetto procurarsi agevolmente ciò che lui, con tanti sforzi, non riesce a ottenere.” Ma “L’impossibilità di astenersi, l’ossessione del fare denotano, a ogni livello, la presenza di un principio demoniaco” e tale principio demonico alberga nell’uomo, l’eterno insoddisfatto della creazione. E’ questa la vera essenza della condizione umana: il nostro mondo è casa, ma noi – in questo davvero simili a dei creatori – abbiamo in noi, innata, un’idea di come il nostro mondo dovrebbe essere. Nostalgia di altri mondi che abbiamo perduto, aspirazione ideale di un essere vivente che non si accontenta della propria condizione di natura ma al tempo stesso ossessione di fare demoniaca che ci rende eternamente insoddisfatti.
Forse l’atteggiamento giusto è quello di Fernando Pessoa: dovremmo limitarci a vivere come “animali in maniche di camicia”, imparando a godere dell’hic et nunc.
Possiamo cercare il come, limitandoci all’osservazione dei fenomeni naturali con il metodo scientifico. Ma “l’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupéry) e tutte le nostre conoscenze sensibili sono solo apparenti (Robert Musil).
Tornando all’argomento del suicidio, le motivazioni per togliersi la vita possono essere le più disparate. Come Bertrand Russell stilò una classifica della moralità delle guerre, potremmo esercitarci nello stilare una classifica della moralità dei suicidi.
Al fondo, ci sarebbe certamente il suicidio di molti scrittori, che si sono tolti la vita perché non adeguatamente apprezzati. Al vertice, forse, il suicidio socratico per sottrarsi alla privazione della libertà.
Ho vissuto la difficile condizione di figlio che non ha saputo mantenere le promesse dell’infanzia, o meglio non è stato capace di vivere all’altezza delle aspettative dei propri genitori. Il problema, però, non è mio ma loro: non sono stati capaci di amarmi per quello che sono. Il loro amore è sempre stato condizionato al mio raggiungimento degli obiettivi che loro di volta in volta ponevano. Obiettivi oltretutto che non erano i miei e, spesso erano irraggiungibili. La felicità è frutto di una difficile alchimia, un momentaneo ed effimero equilibrio tra la realtà e le aspettative. Un bambino fa quanto possibile per compiacere le persone che ama, ma una persona adulta a un certo punto prende coscienza che questo tipo di atteggiamento da parte di genitori è una modalità dell’anaffettività, una vera e propria patologia. No, non ha senso suicidarsi perché si ha avuto la sfortuna di avere genitori patologici.
La vita qualunque cosa essa sia resta la nostra condizione, l’unica occasione, un miracolo eternamente sottovalutato per il quale ciascun essere vivente e ciascun attimo sono diversi dai miliardi e miliardi che li hanno preceduti e che li seguiranno. Per questo, la vita è sacra e lo è anche per me che sono agnostico. Per questo va rispettata qualunque vita, inclusa la propria. Il suicidio è un atto violento quanto un omicidio ed è altrettanto grave, perché pone fine all’esistenza di una creatura unica. La risposta agli istinti suicidi è iniziare ad amarsi perché amarsi è il primo passo per amare riuscire a provare compassione (il più nobile dei sentimenti) per la propria (e altrui) condizione umana. Se i nostri genitori non sono capaci di amarci per quello che siamo e il loro amore è sempre condizionato e subordinato al nostro diventare qualcosa di diverso da ciò che siamo, non per questo dobbiamo smettere di amarci o, peggio, toglierci la vita.
I malati sono soltanto loro e il nostro gesto disperato e infantile non li renderebbe migliori. La nostra vita resterebbe un’ipotesi, un’opera incompiuta e nessuno, neppure noi, saprebbe mai quello che abbiamo perso.
La grandezza di Albert Camus sta proprio in questo, nell’avere compreso che l'essere umano - anche se intelligente e consapevole - può essere felice, nonostante tutto.

Di Alfredo Tocchi.

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