06 Luglio 2022
Se ci svegliassimo improvvisamente il 6 settembre del 1971 a New York, non sentiremmo che una notizia propagarsi di bocca in bocca per tutta la città: “Satch è morto!”. E subito dopo “la sua bara è nell’Avenue Park per l’ultimo saluto!”. Subito dopo, probabilmente, saremmo anche noi in fila per dire addio al divo e alla sua mitologica cornetta. In compagnia di decine di migliaia di persone, tra cui politici e i più grandi musicisti dell’epoca. Louis Armstrong avrebbe voluto un funerale in stile New Orleans, con molta musica suonata di fronte al suo corpo, ma sua moglie decise per qualcosa di più tranquillo. Ella Fitzgerald era presente, ma in ogni caso era troppo triste per cantare.
Non crediamo che Louis avrebbe approvato una scelta del genere.
Louis Armstrong, morto 51 anni fa, inventò il jazz per come lo conosciamo oggi
Molti trombettisti avrebbero superato Armstrong per tecnica, ma non è certo con la tecnica che si spiega l’influenza immortale della sua musica. L’elemento del suo stile che ispirò migliaia di musicisti jazz fu il suono profondamente personale dei suoi assoli. All’epoca, il jazz era musica suonata essenzialmente dalle orchestre, e con un marcato orientamento al ballo e alla danza. C’erano già gli assoli, ma il loro scopo era più quello di aumentare la sofisticazione degli arrangiamenti orchestrali che di esprimere l’individualità dell'esecutore. Con Armstrong, l'equazione si ribalta: l'arrangiamento va in secondo piano e tutta l'attenzione si concentra sul talento del solista. Il suono di Armstrong, invece, è un’icona di individualismo. Nei brani di Armstrong gli assoli diventavano sempre più lunghi, sempre più stravaganti, fantasmagorici e pieni di tensione e dramma; e nel frattempo, la sua tecnica si faceva sempre più precisa e istrionica. Rispetto ai suoi colleghi, Armstrong aveva una vasta conoscenza della tromba nella musica classica e si ispirava con gusto al suono dei clarinettisti, assai più fluido e distinto di quelli dei trombettisti coevi. Sintetizzando questi elementi, ecco gli elementi caratteristici della sua tecnica: mobilità, continui stacchi, ritmi ballabilissimi, insistenza sulle note alte.
L’aspetto predominante della sua espressività era il buonumore: nella musica di Armstrong l’angoscia non esiste. Alcuni, più tardi, avrebbero criticato l’allegria ostentata e spettacolare del suo stile, vedendo in esso una riproposizione dello stereotipo razzista dei minstrel show, del “nero felice” del profondo Sud che canta per divertire i bianchi. Giudizi sciocchi per due ragioni: la prima è che Armstrong era profondamente coinvolto nei movimenti contro la segregazione razzista e soprattutto nelle questioni legate alla scolarizzazione dei giovani afro-americani; la seconda, è che la felicità, ancora prima che una scelta stilistica, era un qualcosa che costituiva Satchmo fino alle ossa. Tutti i suoi colleghi concordano: mentre lavorare con King Oliver, il suo maestro, era estremamente stressante (era solito appoggiare una pistola carica sul tavolo guardando storto i ritardatari), con Armstrong lavorare era «rilassante, e lui dava sempre il suo meglio». Non si drogava, non picchiava, trattava con tutti con cortesia: come disse Duke Ellington, «nacque povero, morì ricco e non fece male a nessuno nel mentre».
Benché molti critici lo metterebbero sotto, come solista, a Charlie Parker, John Coltrane o Art Tatum, Armstrong è indubbiamente il musicista jazz più influente mai esistito. «No him, no me», disse con disarmante franchezza Dizzy Gillespie, tra i principali inventori del jazz moderno. Armstrong insegnò ai giovani afroamericani che la musica poteva – doveva – essere un modo di esprimere la propria personalità, la propria inventiva, la propria scelta personale – anche a costo di sbagliare. Aprì la strada a dozzine di altre personalità monumentali della storia del jazz, nessuna delle quali aveva dimenticato la sua lezione di libertà. Non male per un menestrello.
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