30 Novembre 2024
Senza polemica, mi permetto di commentare quanto scritto dalla Segre (qui) sulle pagine del nostro giornale poche ore fa. Due parole che non vogliono essere niente di più di un commento di dissenso al commento.
Non importa se muoiono i bambini, se le famiglie vengono sterminate, se le città sono ridotte in macerie: l’importante è chiamare tutto con il termine giusto.
Perché, come ci insegna l'editoriale della Senatrice, non c’è nulla di più problematico che parlare di “genocidio”.
La questione fondamentale, infatti, non è il numero di morti, le atrocità commesse, o l’umanità che sembra sparire in mezzo alla furia della guerra, ma l’uso di una parola che, come una chiave magica, può aprire o chiudere porte politiche. E che dire della precisione filologica?
La “memoria storica” è un argomento molto delicato, tanto che persino usare il termine “genocidio” potrebbe compromettere gli “anticorpi democratici” della nostra coscienza collettiva.
Se mai dovesse crollare questo “argine”, come avverte la Segre, potremmo scoprirci a rivalutare i peggiori dittatori della storia. Per carità, meglio fermarsi a un linguaggio controllato, dove ogni parola è messa al suo posto, piuttosto che affrontare la realtà brutale delle violenze quotidiane.
In fondo, perché preoccuparsi di fatti concreti quando possiamo sederci comodamente e discutere di lessico e politica? Non si preoccupi Liliana, non è che l’abuso del termine “genocidio” ci farà perdere il senso delle tragedie passate, al contrario: Netanyahu ci aiuta in tal senso incarnando le peggiori brutalità dell'Olocausto.
Stia serena la nostra "testimone della tragedia", la guerra continua, ma almeno abbiamo fatto la scelta giusta: quella di non dire la parola sbagliata.
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