20 Marzo 2024
Tredici anni complessivi di condanna suddivisi fra sei imputati, per l’addebito primario di trasferimento fraudolento di valori. È l’epilogo del processo sul caso “Libeccio”, il bar di Pegli, quartiere genovese del ponente, finito sotto sequestro nell’ottobre scorso, quando per la medesima vicenda il tribunale aveva disposto varie misure cautelari: una in carcere (a carico di Angelo Russo), tre ai domiciliari (Mario Russo, Francesco Cinquegranella e Antonio Novelletti), oltre a due obblighi di firma per il prestanome Liberato Soriente e per Antonietta Russo. Igiudici hanno disposto 4 anni a carico di Angelo Russo (la richiesta della Procura era stata di 5); 3 anni per Cinquegranella e Novelletti (il pubblico ministero aveva proposto per entrambi 3 anni e 4 mesi); 2 anni, con pena sospesa, per Soriente e Mario Russo (la richiesta era stata di 10 giorni superiore); 1 anno per Antonietta Russo, pure in questi frangente con la sospensione della pena, per la quale gli inquirenti avevano chiesto un anno e 4 mesi.
Secondo quanto appurato dai finanzieri del Servizio centrale d’investigazione sulla criminalità organizzata (Scico) e dai poliziotti della squadra mobile, il locale nonostante risultasse di proprietà di Soriente veniva gestito dal carcere da Angelo Russo, recluso nella casa circondariale di Ariano Irpino in provincia di Avellino. Il detenuto - condannato dalla Corte d’appello di Napoli nel 2011 per traffico di stupefacenti e arrestato a Genova nel 2019 sempre per droga - secondo l’accusa sostenuta dal pm antimafia Federico Manotti aveva acquisito la titolarità attraverso l’intestazione di comodo a un uomo originario di Torre Annunziata, ma da tempo residente a Genova: Soriente, appunto.
Quest’ultimo ha sempre svolto l'attività di barista. E sebbene sotto il contratto d’acquisto ci fosse la sua firma, non ha mai avuto alcun potere decisionale sulla gestione del Libeccio, poiché gli accertamenti di Scico e Mobile hanno dimostrato che veniva tenuto all’oscuro di tutto. Altre, come avevano certificato intercettazioni e appostamenti, erano le persone di fiducia di Russo, che per ristrutturare il bar aveva speso fondi propri: denaro «di dubbia provenienza» ha sempre rimarcato la Procura, visto il suo coinvolgimento nel traffico di droga per conto di gruppi camorristi, descritto da precedenti fascicoli. E così le chiavi del locale le avevano il figlio Mario e la sorella Antonietta. Il sostituto procuratore Manotti inizialmente aveva contestato a tutti il reato di trasferimento fraudolento di valori «con l’aggravante d’essere stato commesso al fine di agevolare l’attività dell’associazione denominata camorra».
La stessa aggravante non era stata riconosciuta dal giudice per le indagini preliminari Angela Maria Nutini, quando aveva disposto le misure cautelari, ed è infine rimasta fuori dal processo che si è svolto con rito abbreviato (automatico sconto d’un terzo della pena per gli inquisiti). Nel corso del procedimento gli investigatori avevano sottolineato come tra camerieri e baristi venissero preferiti detenuti che chiedevano la messa in prova o ex reclusi, e avevano registrato la presenza di numerosi pregiudicati tra i clienti. Il Libeccio attualmente è sotto la gestione d’un commissario e non è escluso che in futuro l’immobile venga ceduto all’asta, per saldare i debiti che i proprietari hanno accumulato negli anni con il Demanio, non avendo mai pagato gli oneri di concessione.
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