24 Febbraio 2023
Una mattina livida di un anno fa l'Occidente, l'Europa, l'Italia scoprivano che il lungo regno della pace era finito. Putin, lo zar forgiato nel sovietismo che non ha mai accettato l'emancipazione delle repubbliche satelliti, invadeva l'Ucraina passando per il Donbass. Operazione che si attendeva, pochi giorni prima il capo russo era andato da quello cinese a ricevere l'imprimatur, l'ENI aveva avvertito le controllate già in ottobre, ma il mondo la coglieva con imbarazzo e fingendo sorpresa. Cominciavano a cadere le città, i palazzi, le famiglie e in Italia partiva il solito pollaio. La comunicazione che regola le umane genti all'inizio tutta spalmata, com'era fatale, sugli invasi, ma, poco dopo, ecco farsi avanti i cavillatori, i sofisti, i nostalgici, i pacifisti pro Mosca all'insegna del solito antiamericanismo a prescindere, alla Totò: invasore Putin? No, patriota, il Donbass era roba sua e ha risolto otto anni di massacri da parte Ucraina. Repubblica autonoma l'Ucraina? No, cresciuta su un colpo di stato. Le annessioni di Georgia e Crimea? No, i traumatizzati dalla fine del Comunismo le consideravano regioni in libera uscita ed era finalmente giunto il momento di riprendersi tutto. I tradimenti dello zar degli accordi sul nucleare fin dal 1994? No, i traditori stanno in America. Putin dittatore? No, l'unica dittatura espansionista è la Nato/USA.
A quel punto il pollaio italiano era già ingovernabile e poco interessavano gli eccidi, le distruzioni, le stragi, una invasione tramutatasi in guerra che si portava addosso il peggio delle guerre, compresa una sorta di pulizia etnica utilizzata a sostegno delle rispettive convinzioni, ideologie, opportunismi ed esibizionismi incrociati da talk show. Sono capitato ad uno di questi programmi di recente e c'erano alcuni personaggi: uno, un cacciatore di Ufo con giacchetta a quadrettoni e l'occhio fisso di quelli che aspettano la grande invasione aliena, recitava: America unica potenza spionistica, padrona del cielo e del mare. Avendogli io fatto notare che Xi, il padrone della Cina, si era vantato all'ultimo congresso del primato militare navale sugli Stati Uniti e della sua dotazione di sicurezza, seconda a nessuno, il cacciatore di fantasmi mi rispondeva: lei mi ha interrotto ma io non so niente di geopolitica. Un altro, in collegamento, era più insidioso, le sue elucubrazioni ricordavano quelle degli anni di piombo, una esaltazione furibonda contro gli Stati Uniti unica potenza canaglia, stragista, cannibalesca, la Cina forza pacifica e saggia costretta a rintuzzare. E lo diceva da Pechino, dove gli avevano dato una cattedra.
È difficile orientarsi nei tranelli della comunicazione farlocca e interessata di ogni colore, oggi più di ieri. Dicono gli antioccidentali a tout prix: chi sostiene l'Ucraina è asservisto all'informazione di regime. C'è del vero, la propaganda americana è stata miserabile in tempi di Covid e resta miserabile, una censura moderna, pervasiva, che passa per i social. Ma Cina e Russia non diffondono a loro volta le medesime fake news, le loro verità false e interessate? Non manovrano anche loro i social? Non praticano l'antica arte dello spionaggio, del boicottaggio? Appena la nostra premier si è fatta vedere con il boss ucraino, i maggiori siti del paese sono stati fulminati da rappresaglie telematiche. L'America, si dice, si ripete, è l'unica dittatura ma mentre Putin e Xi restano inamovibili a vita, per la Casa Bianca sono passati Clinton, due generazioni di Bush, Obama il primo nero, l'ultraconservatore Trump, oggi Biden. Ma basta dire che sono tutti la stessa razza.
In Ucraina si continua a morire, a gelare d'inverno, a perdere la casa, i figli, i parenti ma interessa sempre meno; dicono i moralisti confessionali: la guerra è brutta, è infame e ingiusta. Bastasse questo! Dicono i tifosi di Putin, con malcelata fierezza: lasciatelo fare quello che vuole altrimenti capace che scatena l'irreparabile. È, né più né meno, l'invito ad affidarsi a un pazzo, ma un pazzo con le mani sulla valigetta rossa. Esaltato dagli estremi di destra e di sinistra che si odiano ma nell'antioccidentalismo storico trovano il comune sentire: evoliani e francofortesi, staliniani onirici e orfani dello spiritualismo autoritario, fino ai cretinetti in corteo che urlano senza timor del comico: viva Cospito, viva Tito, viva l'Unione Sovietica.
Ma anche gli atlantisti di ferro sono in difficoltà, in questa guerra o invasione quasi surreale debbono adeguare le loro opinioni, le loro convinzioni sempre più ad ogni giorno che passa: che si sta facendo per arrivare a una tregua, che azioni ha messo in campo finora la realpolitik americana, occidentale a parte le tarantelle della baronessa Ursula e i viaggi da popstar del commander in chief Biden? “L'Ucraina vincerà e vinceremo insieme a lei”. Nel solito gioco della ricostruzione senz'altro, ma nel frattempo che succede? Si continua con le sanzioni? Fino a quale livello di tollerabilità per chi le emette? Ci sono scelte che sembrano perdenti comunque le prendi: se invii altre armi allunghi il conflitto, se le blocchi l'Ucraina dura meno di una settimana, Putin sfonda ed è garantito che non si ferma: adesso vuole riprendersi la Moldavia, passando per la Transinistria che diventerà un tormentone perché é evocativa. Ma i suoi avvocati: “E che doveva fare? È stato provocato”. Le provocazioni, non si è capito come mai, sempre e solo da una parte.
Questa guerra, o conflitto, o invasione, cade in un momento infausto, di enorme confusione, di fine delle certezze, un momento in cui lo stesso Occidente ce la mette tutta per odiarsi e farsi odiare. Ci son di quelli che dicono: forza Putin, vieni a liberarci, dai nostri marchingegni e dalle nostre depravazioni alle quali non sappiamo rinunciare. Che il prezzo da pagare sarebbe senza dubbio terrificante, è obiezione che non sfiora nessuno e ci sono pacifisti pelosi come Conte che tuona contro l'invio di armi dopo essere stato il primo a mandarle.
Tutto pare ribaltato, evanescente, inafferrabile come l'ideologia gender che sarebbe cambiare sesso e, in definitiva, percezione di sé ogni giorno che passa. Vale tutto e il suo contrario. Al talk show un garbato mattocchio, di quelli che passano fisiologicamente dal rifiuto dei vaccini a quello dell'Occidente in blocco, così mi ammaestrava: caro Del Papa, finché l'Italia non si emancipa dai guerrafondai americani ogni discorso è inutile. Solo da quelli?, gli ho risposto: no, da tutti, si salvava lui. Ma una soluzione svizzera te la puoi permettere se sei la Svizzera, se non conti niente oppure conti più degli altri: noi eterna provincia dell'impero non siamo autosufficienti in alcun modo, anzi ogni volta che la nostra ricerca escogita qualcosa di decisivo, subito la boicottiamo, la blocchiamo e ci tagliamo le palle. Sì che un presidente del consiglio in carica deve essere realista e le alternative non sono molte. È vero, è verissimo che Giorgia Meloni nella sua fase giovanile era una putiniana di ferro, contro la Nato, contro le sanzioni: come praticamente la totalità del panorama politico nazionale, ma adesso, da primo ministro di una provincia imperiale, che cosa dovrebbe o potrebbe fare? Chiamarsi fuori? Giocarsi la sponda americana in favore della tagliola sinorussa? O rinunciare al business della ricostruzione praticato da tutti gli altri? Sarà anche logica coloniale, neocoloniale, ma chi ne ha mai fatto a meno a memoria d'uomo?
Certo, un po' più di misura non guasterebbe. Meno sbaciucchi, meno proclami. Ma in questa guerra, o invasione, o conflitto tutto sembra recitato e le recite sono per natura estreme, caricate. Meloni non fa in tempo ad abbracciare Zelensky che Berlusconi le tira un siluro per destabilizzarla creando una mezza crisi internazionale e passando in gloria degli stessi che da trent'anni lo vogliono far fuori: il solito osceno gioco delle parti. Ma anche questo Zelensky è un capo come minimo anomalo per non dire di peggio: ambiguo, arrogante, spregiudicato, è la prima volta che il presidente di uno stato oppresso lungi dal chiedere aiuto lo pretende e alle sue condizioni. Una tracotanza che non agevola né la comprensione dei fatti né una riflessione il più possibile serena, distaccata. Un teatrante che tende a ridurre a farsa qualsiasi occasione in cui si infila. Nel suo infinito tour pubblicitario-spettacolare doveva passare per Sanremo ma aveva sottovalutato quei figli di puttana di italiani che gli hanno trovato la soluzione all'italiana, puttanesca e vigliacchesca: un monologo tra quelli di Chiara Ferragni e Paola Egonu, però letto da Amadeus che l'ha letto alle due di mattina, quando tutti aspettavano solo la consacrazione dell'usignolo efebico.
E la gente continua a scannarsi e a morire senza più turbare le nostre coscienze social. Secondo un riscontro ONU, i paesi che corrispondono al 65% della popolazione mondiale si sono astenuti per dire che della situazione ucraina se ne lavano le mani, qualcosa che non li riguarda. In Europa accendono la Torre Eiffel, in Italia abbiamo l'affarista Ferragni col vestito griffato giallo e blu ma certe cose si sentono solo qui: che vergogna quegli ucraini, sono spietati, si difendono con crudeltà. E che dovrebbero fare? Ucraini e russi sono popoli fratelli, separati dalla storia e dalla politica, popoli durissimi, non omogeneizzati come i nostri e quando i fratelli prendono a odiarsi lo fanno nel modo più atroce e feroce. Battaglione Azov contro battaglione Wagner: questa è la guerra, la guerra dei popoli slavi. Ne avevamo avuto già un saggio con la dissoluzione jugoslava, terribile, barbara, ma allora ci sembrò una faccenda circoscritta, destinata a rientrare: questa volta la sensazione è che il conflitto potrebbe allargarsi in ogni momento a dimensioni catastrofiche e definitive. Certo, dietro la facciata, dietro i pollai e i teatrini la diplomazia agisce col lavorìo perenne che sta sommerso sotto ogni guerra, ma i risultati non si intravvedono e, alla fine, la solita desolata constatazione: “durerà ancora a lungo”. A lungo quanto? La cosa peggiore è che l'assuefazione è arrivata in fretta, un massacro alle porte non sembra riguardarci, è vissuto come una proiezione, come una rappresentazione. Ci sono certi inviati, come la Stefania Battistini del tg1, che danno, forse senza volerlo, l'impressione di muoversi in una fiction, che offrono una interpretazione personale della guerra, ora languida ora patetica, molto egoriferita. Poi ci sono i commentatori da social che li piglieresti a sberle, come quella imbecille che ha scritto: “Ke palle ancora sta storia del popolo invaso, argomento trito e ritrito”. Se è trito e ritrito è perché si tende a dimenticarlo. Ma non tutti sono cinici o nostalgici, molti, il grosso è gente che non ne può più dei problemi che ha già, che non riesce a riprendersi dopo tre anni da incubo, che vive continui allarmi all'insegna della transizione infame, oggi la macchina, domani la casa, dopodomani le locuste e le mosche nel piatto, e non ha nessuna voglia, nessuna forza di soffrire per le disgrazie altrui. Non può essere un caso che in un'Europa grossomodo coesa nel sostegno ucraino, i più distaccati siano gli italiani che sono anche i più provati dallo scellerato regime concentrazionario dei Conte, i Draghi, gli Speranza, i Mattarella. Da qui a saldare l'indifferenza con il risentimento per gli stessi che ieri ci rinchiudevano e oggi ostentano solidarietà al paese occupato, è un attimo. E l'Ucraina non ci riguarda più, che si arrangi o si fotta.
Guerra vicina, così lontana e così rimossa. È passato un anno e abbiamo scoperto che con una guerra endemica e perenne possiamo convivere benissimo, basta rimuoverla, basta non chiedersi mai cosa succederà dopo. Del resto è solo una guerra di più nell'inferno del mondo.
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