Lunedì, 08 Settembre 2025

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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

10 Febbraio Giorno del Ricordo
Tratto dal libro “Sono scesi i lupi dai monti”
di Piero Tarticchio
editore Mursia

"A perenne memoria dei martiri delle foibe, degli scomparsi senza ritorno e dei 350.000 esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia”. Non esiste dolore più grande della perdita della terra dove si è nati. È come togliere la dignità all’uomo e privarlo dell’anima stessa. "Per troppo tempo le sofferenze patite dagli italiani giuliano-dalmati con la tragedia delle foibe e dell’esodo hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia. "Sergio Mattarella

09 Febbraio 2022

"Dimenticare e cancellare le foibe è come seppellire la nostra storia. Un Paese senza memoria è un Paese senza identità. "Rinaldo Sidoli

Il 10 Febbraio si celebra Il Giorno del ricordo, una solennità civile nazionale italiana, che ricorda l’evidenza storica dei massacri delle foibe e l'esodo giuliano dalmata. Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, vuole "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale".

Nella data del 10 febbraio 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell'Italia.

“In attesa che le quattro Grandi Potenze, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia, disegnassero i nuovi confini d’Europa, decretando anche la sorte di quel lembo di terra chiamata Venezia Giulia e del suo popolo, Pola era in fermento. Manifestazioni di italianità si svolgevano ogni giorno in forma spontanea con cortei, festoni e bandiere tricolori che sfilavano per le strade della città chiedendo un plebiscito che stabilisse da chi volevano essere governati. Per cercare di influenzare il Governo Militare Alleato e con lui i Quattro Grandi della terra, i polesani gridavano nei megafoni: «Siamo italiani e vogliamo rimanere italiani». “

Piero Tarticchio è un pittore, scrittore e giornalista nato nel 1936 a Gallesano, in Istria. Residente a Milano 2, è Presidente del centro di Cultura Giuliano Dalmata, ha diretto il periodico l’Arena di Pola. Suo è il monumento in ricordo dei martiri delle foibe e dell’esodo Giuliano-Dalmata inaugurato a Milano lo scorso anno in Piazza della Repubblica alla presenza del Sindaco Beppe Sala e realizzato con il contributo di Fondazione Bracco.

La struttura è composta da due blocchi di pietra inseriti uno sull’altro, per un’altezza complessiva di 4 metri e raffigura un uomo in fondo a una foiba, immagine simbolo della sofferenza e del martirio di migliaia di vittime dei tragici accadimenti avvenuti tra il 1943 e il 1954. L’epigrafe riporta la scritta “A perenne memoria dei martiri delle foibe, degli scomparsi senza ritorno e dei 350.000 esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia”.

Diana Bracco, presente alla cerimonia del 2021, ha commentato:
“L’impegno di Fondazione Bracco a favore della cultura è molto forte, ma il motivo per cui abbiamo risposto con entusiasmo alla richiesta d’aiuto per la realizzazione del bel monumento disegnato dall’artista Piero Tarticchio è un altro: all’Istria siamo legatissimi, perché lì ci sono le radici della nostra famiglia. Lì il 15 novembre del 1909 è nato mio padre Fulvio e lì aveva vissuto mio nonno Elio, segretario comunale di Neresine piccolo paese nell’isola di Lussino.”

Il 10 Febbraio 2022 è in uscita il nuovo libro di Piero Tarticchio di Mursia editore, il racconto autobiografico di un bambino privato del padre e degli affetti, strappato alla sua terra in tenera età e destinato a diventare uomo senza passare dall’adolescenza.

Un volume che testimonia con gli occhi infantili e con la caparbia del ricercatore adulto le atrocità che per ragioni politiche sono state occultate per troppo tempo; che ripercorre con lucidità e precisione tutte le tappe di questa tragedia, offrendoci un documento educativo importante per ricostruire una pagina di storia dimenticata.

“Con queste mie confessioni mi propongo di prendere per mano il lettore, di portarlo dentro la mia storia per fargli rivivere il passato, non solo mio, ma anche quello della mia gente. Voglio farlo partecipe di fatti realmente accaduti per sconfiggere le amnesie, il silenzio, i buchi grigi del tempo, insomma per compiere il miracolo del ritorno. In questo senso la mia scrittura diventa mia alleata contro la morte. Non si muore né come individuo né come popolo, finché sarà possibile scrivere, su un foglio di carta o sullo schermo di un computer, le nostre memorie e le nostre speranze.”

Il contenuto di questo articolo è tratto dal libro di Tarticchio “Sono scesi i lupi dai monti” di Mursia Editore.

 “Il lupo non è quello delle fiabe, ma è quello mutuato da un’espressione udita dal nonno paterno Piero, che ha trasmesso al nipote l’amore per le citazioni e al quale sono dedicate pagine intense, è il lupo che segue un branco senza capire e senza pensare, nella sua ferinità, del tutto simile alle bestie matte di Marin: «Bisogneva murî, ma no lassâte,/sassiâ la boca co’ la rossa tera/fra ulivi e vide, pùo ridûsse a piera,/ che ferma l’urto de le bestie mate» . Precisa Gianluca Poldi nella prefazione.

“Dopo l’armistizio, priva di governo e di direttive politiche, la Venezia Giulia andò alla deriva come un vascello senza timoniere in balia della tempesta. I partigiani di Tito scesero dai monti assetati di sangue, in meno di dieci giorni occuparono buona parte del territorio e diedero inizio alle vendette più truci contro gli italiani accusati di avere istituito le leggi razziali, mosso guerra alla Jugoslavia e perpetrato crimini contro le popolazioni slave. Per regolare i conti con l’Italia fascista, i partigiani di Tito presero di mira soprattutto i funzionari italiani che lavoravano nella pubblica amministrazione. Circa mille persone – alcuni sostengono anche di più – scomparvero nel nulla. Il numero venne reso noto dal quotidiano «Il Piccolo» di Trieste e dal «Corriere Istriano» che si stampava a Pola tra le due guerre. I prigionieri, nella maggior parte dei casi, prima di essere gettati nelle foibe furono barbaramente torturati e alcuni anche mutilati. Tra loro, presidi, insegnanti, bidelli, preti, religiosi, funzionari delle poste, impiegati del catasto, messi comunali, podestà, carabinieri, guardie di finanza e guardie forestali, ma anche semplici uscieri e netturbini. Scomparvero uomini e donne, vecchi, ragazzi e perfino donne incinte. Gli infoibamenti avvennero in due ondate, la prima nel settembre del 1943, immediatamente dopo l’armistizio, e la seconda nel maggio/giugno del 1945 a guerra ormai finita, e proseguirono fino al 1954.”

“Avevo 7 anni quando assistetti al funerale di don Angelo Tarticchio, parente di mio padre…al momento del ritrovamento don Angelo era nudo, il corpo martoriato, i genitali tagliati e conficcati in gola. Sulla testa portava ancora una corona di filo di ferro spinato, in spregio alla sua funzione di ministro della fede. La sera arrivò senza che nessuno in famiglia avesse voglia di commentare la tragica fine di don Angelo.”

«Le sparizioni di persone innocenti gettate nelle foibe segnarono l’inizio dell’agonia del popolo istriano. La stragrande maggioranza degli italiani abbandonò ogni avere e intraprese un esodo di proporzioni bibliche. Una sorta di fuga senza ritorno. Uno sradicamento avvenuto nel silenzio e nell’indifferenza dei fratelli italiani dell’altra sponda dell’Adriatico. Una morte civile senza funerali, senza segni di lutto, né di cordoglio, senza lapidi, senza alcun tipo di commemorazione, tantomeno accenni sui testi di storia per le scuole italiane.»

L’eccidio di Vergarolla segnò l’inizio dell’esodo.

“Domenica 18 agosto 1946, nelle prime ore del pomeriggio, era stata programmata una manifestazione patriottica con festoni e bandiere tricolori. La cerimonia prevedeva anche gare di nuoto, di remi e di vela. Un quarto d’ora prima che iniziassero le gare scoppiò il finimondo. Un boato tremendo che mandò in frantumi tutti i vetri della città. I 28 ordigni erano deflagrati. E fu la strage. Un atto criminoso, che causò la morte di 110 persone, in gran parte bambini e di un soldato inglese che ebbe la sventura di fare il bagno nelle vicinanze. Molti corpi furono disintegrati dallo scoppio. Chi ebbe l’opportunità di vedere la scena dopo l’esplosione la paragonò a un’apocalisse. Il mare era rosso di sangue e i gabbiani banchettavano con i resti dei corpi dilaniati dall’esplosione che galleggiavano sulle acque antistanti Vergarolla. Poiché fu subito accertato che l’atto terroristico era di matrice slava, il messaggio che Tito mandò ai polesani fu chiaro e inequivocabile: «Italiani dovete andarvene».”

Tarticchio racconta la deportazione del padre.

“Alle due di notte tra il 4 e il 5 maggio 1945, udimmo dei colpi secchi alla porta. Andò ad aprire nonna Maria, a piedi scalzi e in camicia da notte. «Chi è a quest’ora?», domandò. …Qualche delatore doveva averli preventivamente informati dove fosse la camera da letto dei miei genitori. Io dormivo in anticamera e fui svegliato di soprassalto dal fracasso prodotto sulle tavole del pavimento dagli scarponi chiodati dei soldati. Vedendoli nella penombra sembravano fantasmi, mi spaventai e in tutta fretta corsi a rifugiarmi tra le braccia di mia madre, la quale in camicia da notte ai piedi del letto tremava e piangeva. L’uomo in borghese si rivolse a mio padre, esprimendosi prima in serbo-croato, poi in italiano: «Ne pitajte, ustanite i oblačite se, morate poći s nama u zapovjedništvu. Moramo vas pitati o karticama s obrocima/Non fare domande, alzati e vestiti, devi venire con noi al comando. Ti dobbiamo interrogare riguardo alle tessere annonarie». Mio padre si vestì senza fiatare. risposta perentoria…

Gli legarono i polsi con il filo di ferro stretto con le pinze. A quel punto, ricordo che papà mi guardò e i suoi occhi si fusero coi miei. Che cosa volesse dirmi in quei brevi istanti non lo saprò mai, tuttavia l’espressione di quello sguardo mi penetrò nell’anima e, vivessi mille anni, non lo scorderò mai.

Era come se mi dicesse: «Io sarò sempre con te. Nell’aria, ovunque. Se vorrai parlarmi, chiudi gli occhi e cercami. Ma non nel linguaggio delle parole ma nel silenzio».”

“…Passarono due settimane senza avere notizie di mio padre, e mia madre decise di andarlo a cercare. Ai primi di giugno a Gallesano circolava la voce che a Karlovac, una località all’interno della Croazia, si trovava il Centro di smistamento prigionieri di guerra. Non saprò mai dove mia madre abbia trovato il coraggio per affrontare un tragitto di 220 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno da sola. Un viaggio allucinante, con mezzi di fortuna, fra gente ostile e senza conoscere la lingua. Ricordo solo che quando partì mamma portava degli orecchini d’oro e di perla, ma quando ritornò non li aveva più. Li aveva barattati in cambio di qualche informazione che si rivelò inattendibile. Un’inutile illusione.”

La fuga da Gallesano a Pola.

“…il nonno aggiunse: «Lucia, se guardi il calendario, vedrai che ieri è iniziata la luna nuova di giugno. Questa notte il buio sarà totale... Tu e il bambino state pronti, potrebbe essere per questa notte...», ma non finì la frase perché la voce gli rimase strozzata in gola. Decidemmo di partire la sera stessa con i soli vestiti che avevamo addosso e 143 lire in tasca. Era tutto quanto era riuscito a raggranellare il nonno dopo il saccheggio del denaro contante da parte dei titini, avvenuto durante la notte in cui portarono via mio padre. Chiesi alla mamma il permesso di portare con me un piccolo zaino contenente Il libro della giungla...”

L’aiuto di un pastore fu cruciale per percorrere i tratturi ed evitare i pattugliamenti.

“Nel momento in cui mia madre e io passammo sotto il filo di ferro spinato, tenuto sollevato dal pastore, il vento soffiava forte e pioveva a dirotto, una vera e propria bufera con tuoni e fulmini che illuminavano a giorno la campagna. E quel temporale fu la nostra salvezza. Impiegammo non più di tre minuti a strisciare sotto i reticolati. I tre minuti più lunghi della mia vita. Il confine che separava la Zona B dalla Zona A era pattugliato giorno e notte da ronde di partigiani slavi. Probabilmente il nubifragio che si era abbattuto quella notte sulla bassa istriana li aveva convinti di rimanere all’asciutto anziché bagnarsi sotto la pioggia battente. Quando arrivammo a Pola, il temporale era passato da un pezzo e noi, seppure coi vestiti fradici, eravamo salvi.”

Istria. 

Pietre, velate di pini che cercan la linfa dentro le rocce. Pietre. Cunicoli fondi dipinti di morte; irte foibe abissali percosse d’urla inumane. Istria! Terra di pietre e di vento, terra d’odio e d’amore. Istria, terra del mio dolore. Bepi Nider

“Dei 32.000 abitanti di Pola, 28.000 hanno optato per l’Italia. Come il lupo, la cui zampa è rimasta imprigionata nella tagliola, che pur di raggiungere la libertà non esita a staccarsi a morsi l’arto imprigionato, altrettanto stanno facendo gli istriani strappando le radici che li legano alla loro terra e se ne vanno abbandonando tutto.”

Dal diario del 1947 trovato in un baule Tarticchio trascrive l’esodo e il silenzio italiano.

“Il nostro esodo sta diventando un travaso di popolo, la migrazione forzata di persone che stanno abbandonando tutto in cambio di un sogno chiamato libertà. Caro diario, amico mio prezioso e cassaforte delle mie confessioni più care, questa è l’ultima volta che ti scrivo da Pola. I miei familiari sono già partiti per Milano, solo io sono rimasta per chiudere tutto e spedire le casse con i nostri effetti personali. Nel pomeriggio mi imbarco sulla motonave Toscana diretta ad Ancona, poi prendo il treno che va a nord.”

“All’entrata nel porto di Ancona una moltitudine di persone si sta accalcando sulle rive per accogliere festosamente noi esuli. Purtroppo il mio ottimismo si è tramutato in cocente delusione. In effetti la manifestazione di accoglienza è organizzata dal Partito Comunista Italiano. La folla ci sta investendo con una grandinata di insulti e maledizioni. È la sorpresa più sconvolgente che abbia mai provato nel vedere quel tripudio di bandiere rosse con la falce e il martello manifestare tutta la rabbia e l’ostilità di un’Italia che non riconosco. Non sono grida di benevola accoglienza quelle che sento, ma di offesa: «Sporchi fascisti non vi vogliamo, il vostro posto è nelle foibe, tornatevene a casa vostra». Trovo spregevole inveire vigliaccamente contro la migrazione di un popolo in fuga. Non è ciò che mi aspettavo di trovare al mio arrivo in Italia.”

“In questa Italia del dopoguerra, nata dalle ceneri del fascismo, i comunisti italiani che hanno abbracciato la causa della falce e martello agli ordini di Mosca stanno divulgando l’equazione nella quale noi profughi istriani, fiumani e dalmati siamo tutti reazionari e fascisti, mentre i titini, comunisti, marxisti leninisti sono i liberatori. Siamo diventati un corpo estraneo che tenta di inserirsi in un tessuto sociale che non ci vuole. Ho l’impressione che intorno a noi si stia costruendo un muro di silenzio.”

Per gli slavi eravamo italiani.

Per gli italiani eravamo slavi.

In realtà noi eravamo il nulla,

gente senza casa, senza patria e senza identità.

Che cosa è cambiato da allora? Troppo poco.

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