11 Ottobre 2024
Aperti i lavori del 39mo Convegno di Capri dei Giovani imprenditori di Confindustria. Dopo i saluti di Vittorio Ciotola, presidente dei Giovani industriali della Campania, la parola è passata al presidente nazionale Riccardo Di Stefano.
"Ci sono epoche in cui è difficile capire a fondo ciò che stiamo vivendo. Capirne i risvolti e le conseguenze. Distinguere i cambiamenti secolari da quelli passeggeri. Quando tutto cambia a velocità accelerata il senso di spiazzamento è molto forte. La nostra è un’epoca di cambiamenti secolari.
Occorre, allora, una bussola speciale, per orientarsi. E una mappa nuova, che oggi vorrei leggere insieme a voi. Una che segue le rotte politiche, economiche e sociali tutte insieme. Sarà un esercizio difficile, anche se le mete ci saranno familiari. Ma se impareremo a farlo, non le guarderemo più con gli stessi occhi. Apriamo allora questa mappa e ruotiamola da Nord-Ovest a Sud-Est. Perché è così che sta girando l’asse del mondo. Non sappiamo di quanti gradi si sposterà quest’asse, o se la rotazione arriverà al suo compimento. Ma si muove.
Seguiamo l’asse verso Sud".
"C’è un orizzonte proprio davanti ai nostri occhi, il Mediterraneo allargato. Qui la rotta politica è caotica: ci convivono medie e grandi potenze di rilevanza regionale e globale, molte di queste impegnate in conflitti di durata decennale, quasi secolare. Dal Libano alla Siria, dalla Palestina alla Libia, da Israele all’Iran passando per lo Yemen, la pace e la stabilità sembrano distanti. L’ondata di conflitti e morte che, invece di fermarsi, si allarga, è dolorosa da guardare. Anche per chi, come noi, vi assiste solo da lontano. Però non dobbiamo distogliere lo sguardo. Perché ciò che sembra lontano, in realtà, non lo è. Trovare soluzioni di orizzonte lungo verso un Mediterraneo sempre più allargato è un dovere morale, oltre che un interesse strategico dell’Italia. Spostiamoci, poi, sulla rotta economica, che risente dell’instabilità, dal Mediterraneo al Medioriente. Quel Mediterraneo che rappresenta solo l’1% delle acque globali, ma da cui passa il 20% del traffico marittimo mondiale e il 65% di quello energetico verso l’Europa.
Su questo scacchiere si gioca una parte del nostro futuro energetico, ed è il Nord Africa a svolgere un ruolo centrale perché il suo gas è ancora l’energia di transizione verso la neutralità carbonica. Ma arriveranno anche l’idrogeno, il solare e l’eolico, con il nostro Sud come punto di snodo verso l’Europa".
"Con questo quadro, proviamo ora a leggere tutte le rotte insieme, politica, economica e sociale. L’area del Medio Oriente e Nord Africa crescerà, nel prossimo decennio, del 6% medio annuo. Lì, entro il 2030, 100 milioni di persone entreranno nel ceto medio. Ci saranno, quindi, 290 milioni di individui che esprimeranno una domanda di consumo pari all’attuale PIL italiano. E il primo investitore estero in quest’area è l’Europa. Per le nostre imprese c’è un grande potenziale. Il Centro Studi Confindustria stima in 6 miliardi l’export aggiuntivo ottenibile nei Paesi del Golfo, 3,5 miliardi in Nord Africa, 4,3 miliardi in Turchia. Ora io vi guardo e penso: se c’è qualcuno che può farcela quelli siamo noi! Noi imprenditori! Che ogni giorno affrontiamo sui mercati i giganti del mondo, guardandoli dritti negli occhi.
E vinciamo perché siamo i più bravi! Attenzione, però. Quando guardiamo a questi Paesi c’è un’illusione ottica da cui rischiamo di essere ingannati: pensiamo di poter scegliere noi dove andare, ma in realtà competiamo per essere scelti".
"Il Mediterraneo e l’Africa non interessano solo agli italiani, o agli europei. C’è una forte domanda a livello globale, e nessuno più di noi comprende la legge della domanda e dell’offerta. Perché l’Africa ha a disposizione quanto c’è di più prezioso, oggi, ovvero energia e materie prime, di cui l’Europa ha un disperato bisogno per produrre e alimentare le tecnologie delle transizioni. Tutte: verde, digitale, dell’aerospazio e della difesa. Gli africani lo sanno. Questo deve essere chiaro. Sanno di potersi scegliere i partner internazionali, perché hanno quello che tutti vogliono. Sanno di avere oltre il 40% delle riserve globali di cobalto, manganese e metalli del gruppo platino, fondamentali per le batterie e le tecnologie dell'idrogeno. Ma sanno anche altro. Sanno di essere il continente più giovane del mondo. E che al 2040 dovranno trovare lavoro a più di 1 miliardo di persone. Sanno, infine, di dover contrastare gli effetti di un cambiamento climatico che colpisce duramente le popolazioni e rischia di innescare nuovi conflitti sulle risorse.
Ecco, teniamolo a mente, e poi domandiamoci, da europei, cosa sappiamo di noi!".
Quello che sappiamo in Europa
"Sappiamo che nell'Unione, al 2040, ci saranno 2 milioni di lavoratori in meno all'anno? Sappiamo che, in 20 anni, il vantaggio nell’indice di innovazione dell'Europa si è ristretto dal 50 al 5% rispetto alla Cina e che gli investimenti in ricerca e sviluppo sono un quinto di quelli americani? E ancora, sappiamo che le filiere della doppia transizione sono saldamente in mano cinese, dall’estrazione alla trasformazione? Certo che lo sappiamo! E allora non dimentichiamolo proprio quando costruiamo le nostre politiche industriali, energetiche e migratorie!".
"La prossima Commissione Europea, quasi ai nastri di partenza, rafforzi il capitolo del Green deal dedicato al Mediterraneo e all’Africa. Perché senza Africa non ci sarà nessun “deal”.
Ma torniamo alla nostra mappa.
Poggiando la bussola sopra il Continente africano abbiamo visto che la freccia punta con forza a Est, verso la Cina. Perché le rotte fra questa, l’Africa e il Sud America sono fortemente intrecciate. È l’asse Sud-Est, appunto, che ruota attorno al binomio inscindibile materie prime ed energia.
"Attraverso misure di controllo e restrizione sulle esportazioni, la Cina potrebbe utilizzare i minerali e le materie prime come arma di pressione politica e commerciale. Lo stesso ricatto che abbiamo già vissuto con la Russia sull’energia. Dobbiamo liberarcene anche riducendo, a monte, l’utilizzo di questi minerali: concentrando gli investimenti su ricerca e innovazione per sostituirli e progettando le tecnologie verdi e digitali in senso pienamente circolare. Insomma, cambiando la domanda per sciogliere il cappio dell’offerta. È questo l’orizzonte a cui puntare.
Certo, nel frattempo, il problema resta.
Come Europa continuiamo a muoverci in ordine sparso, senza riuscire a mettere in sicurezza i nostri approvvigionamenti. Non sappiamo se una soluzione possa venire dalla creazione di un “buyer’s club” delle materie prime critiche. Ne vediamo le opportunità ma anche le criticità. Al momento, quindi, una cooperazione con Pechino e gli altri Paesi estrattori appare inevitabile. Inevitabile, sì, ma difficile e faticosa.
Per diversi motivi: la Cina rischia di tirare giù intere filiere produttive mondiali per la sua sovrapproduzione monstre. Allo stesso tempo, non stimola la domanda interna per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e ridurne la propensione al risparmio. Le tensioni commerciali e di equilibrio della produzione mondiale sono serissime. Difficile, ancora, perché si fa alfiere del cosiddetto “Sud Globale” in senso antioccidentale, come ha detto Xi Jinping in apertura del Forum sulla cooperazione Cina-Africa.
Ora che abbiamo capito come gira l’asse Sud-Est, i bisogni e i rapporti di forza, possiamo guardare al Mediterraneo e all’Africa con occhi nuovi. Consapevoli di cosa chiedere, cosa offrire e quanto rischiare.
Costruiamo, allora, una nuova relazione con i Paesi del Mediterraneo e del continente africano, libera da paternalismi, tentazioni predatorie o neocolonialismo verde.
Ci sembra, sinceramente, il minimo indispensabile".
"Il vuoto lasciato da Europa e Stati Uniti è stato presto colmato. La Cina offre soldi, tanti, e la promessa di un nuovo protagonismo sulla scena internazionale. La Russia addestramento militare, corpi paramilitari e armi. I Paesi del Golfo sempre soldi, sempre tanti, un hub finanziario e una piattaforma logistica fra Africa e Asia. La Turchia investimenti mirati, supporto politico e militare e un programma di avvicinamento formativo e culturale di grande efficacia. L’India, infine, l’indipendenza strategica del “Sud Globale” e l'inclusione dell'Unione Africana nel G20. Ecco…ecco la rappresentazione plastica degli interessi che corrono sulle rotte del Mediterraneo fino al Corno d’Africa".
"Una buona notizia, in tutto questo, c’è: gli interessi di queste potenze non sono necessariamente allineati fra loro o in antagonismo con i nostri. Alcuni di questi hanno ormai ruoli stabili in Nord Africa e Sahel. Troviamo allora nuove forme di cooperazione competitiva che siano fruttuose per tutti gli attori coinvolti. Ma prima di tutto, per gli africani. In un contesto internazionale sempre più martoriato dai conflitti, impegniamoci, tutti, per fare del Mediterraneo e dell’Africa un nuovo orizzonte di collaborazione pacifica!
Quindi torniamo in gioco e offriamo un partenariato vero. Come italiani e come europei. Colmiamo le distanze, mettiamo in soffitta i “doppi standard”, troviamo indicatori di benessere e di crescita finalmente condivisi. Costruiamo, con questi popoli, una relazione paziente e trasparente. Ma per creare progresso e lavoro e rispondere alla pressione demografica di quest’area, c’è una sola strada: l’industrializzazione. Quale, è il nodo da sciogliere proprio insieme a loro. Perché deve essere in linea con interessi pubblici di prosperità e sicurezza per ambo le parti. Prima di tutto, dobbiamo supportare le imprese africane nel risalire le catene del valore. Poi, dobbiamo resistere alla tentazione di guardare al Mediterraneo e all’Africa solo come fornitori o mercati di sbocco. Non è così che ci faremo scegliere rispetto a chi ha già adottato questo modello, ovvero comprando le materie prime a basso costo e rivendendo loro il prodotto finito. Come fanno i cinesi con i pannelli fotovoltaici o le macchine elettriche".
"Proprio l’Africa - che ha il 60% delle risorse solari del mondo - sfrutta solo l’1% della sua capacità fotovoltaica, oltretutto con istallazioni comprate all’estero. La vedete la contraddizione? Bene, loro la vedono. Non caschiamoci anche noi.
Siamo i primi a voler essere trasparenti, e allora parliamo chiaro: sostenere l’industrializzazione dell’Africa e del Mediterraneo faciliterebbe anche un percorso di nearshoring di importanti filiere italiane. Per costruire tutto questo servono partenariati strategici, e il Piano Mattei può essere davvero uno strumento utile. Noi, come giovani, vogliamo rafforzare le relazioni col continente più giovane del Pianeta. Il Piano ha un ampio raggio strategico, e un nuovo approccio organico. Finalmente, bene. Al momento c’è l’impianto, ma è necessario accelerare le fasi di implementazione, dall’iter del provvedimento alla sua operatività. È un Piano, peraltro, che va oltre questa legislatura e per questo è importante che sia largamente condiviso. Sarà davvero valido se avrà strumenti concreti e seguirà due direttrici: la prima, diplomazia politica ed economica, la seconda, diplomazia industriale.
Una delle più importanti relazioni pazienti da rafforzare col Piano Mattei è quella politica, con i Paesi africani e mediterranei e le loro organizzazioni multilaterali, come l’Unione Africana. Una parte di questo lavoro andrà fatto da soli, come Italia. Un’altra, coordinandoci con l’Europa, con il G7 e il G20.
Che sia necessario coordinare il Piano Mattei con strumenti internazionali esistenti ce lo ha detto già il Presidente Meloni. Come quelli delle grandi istituzioni finanziarie e le iniziative congiunte. Perché la richiesta da parte africana è spesso di unire programmi di investimento a sostegno finanziario. C’è lo sviluppo, ma c’è anche il debito. Noi insistiamo su un punto: i meccanismi di collegamento devono essere chiari, strutturati e prevedibili. E devono essere di natura politica, progettuale e finanziaria.
Solo così mobiliteremo investimenti su larga scala, concreti ed efficaci e, quindi, di maggiore impatto".
"Quello delle risorse è un nodo fondamentale. A ogni latitudine. Il Piano Mattei, al momento, ha una dotazione di 5 miliardi e mezzo. Pechino, circa un mese fa, ha promesso ai Capi di Stato e di Governo africani investimenti per 50 miliardi di dollari in tre anni. Che si sommano a quelli già in corso. Davanti a questi numeri, serve una dose massiccia di capitale politico e privato per rendere appetibile il Piano Mattei a quei Paesi. E serve diplomazia industriale.
La presenza e il sostegno della nostra rete diplomatica sono, dunque, importanti per costruire una rete di fiducia con le comunità locali e per dare contesto ai nostri investimenti. Lo stesso vale per la Cabina di regia del Piano Mattei. Il suo ruolo sarà importante, concreto, a patto che le imprese ne facciano parte in modo stabile. È questo il luogo giusto dove condividere le soluzioni che il Presidente Meloni chiede. Perché ha ragione: il lavoro vero, di rischio e investimento, spetta a noi come imprese. Per farlo, però, non possiamo dire la nostra in modo sporadico. Questa struttura di missione avrà bisogno di strumenti e competenze per supportare i progetti di investimento, anche dal punto di vista dei processi. Così da guidarli rispetto agli accordi nazionali, internazionali e con le istituzioni locali. Dateglieli. Perché seguire il corso dei progetti, fin dalle primissime fasi, sarebbe un importante passo avanti".
"Dobbiamo avere grandi ambizioni. E allora non basta guardare alle imprese che sono già presenti nel Mediterraneo e in Africa. Rendiamole capofila di una operazione Paese. Dobbiamo costruire canali per farne arrivare di nuove e di filiere diverse. Non solo grandi, ma anche medie e piccole. Ad oggi, però, come si diventi una “impresa del Piano Mattei” non è chiaro.
Abbiamo bisogno di progetti coordinati e strutturati. Per esempio, affiancare i Paesi africani nel capacity building amministrativo e istituzionale, va in questa direzione. Perché i colli di bottiglia amministrativi scoraggiano gli investimenti, ovunque. Lì, insieme al rischio, li abbattono. Mitigare il rischio richiede che l’architettura finanziaria legata al Piano Mattei abbia un orizzonte temporale lungo, così che le imprese possano impostare piani pluriennali. Richiede, poi, strumenti di de-risking, come le garanzie pubbliche. Quelli a cui il Governo sta lavorando dovranno avere massima diffusione perché si utilizzano solo strumenti che si conoscono. Noi possiamo essere un alleato prezioso su questo fronte. Perché ne siamo convinti: se il Piano Mattei avrà successo, i risultati andranno a vantaggio di tutto il Sistema Paese. L’impianto del Piano Mattei si sostanzia di sei capitoli: istruzione e formazione, sanità, acqua, agricoltura, energia e infrastrutture fisiche e digitali. Fra i più importanti, dal nostro punto di vista, c’è l’energia.
Sempre con lo sguardo puntato sulla nostra mappa, è urgente fare una riflessione proprio su questo.
Mentre cerchiamo di rendere l’Italia l’hub energetico del Mediterraneo, e lottiamo in Europa per avere un mercato unico con un prezzo unico dell’energia per le imprese, rischiamo di avere un’Italia con 20 bollette diverse.
Mentre cerchiamo di evitare la concorrenza tra gli Stati membri in Europa, non possiamo permetterci di farcela in casa.
Mentre cerchiamo di guadagnare competitività con misure come l’Energy release, rischiamo di vanificarla perché perdiamo lo sguardo d’insieme.
Siamo perplessi e preoccupati. Bisogna mettere in sicurezza i fondamentali della competitività del nostro Paese. L’energia è un cardine della competitività. In un mondo di “Golia”, noi siamo i “Davide”.
Cerchiamo di non sbagliare la mira tirandoci il sasso sui piedi".
"Restando in Italia, anche il Piano strutturale di Bilancio merita una riflessione. Piano che ci obbliga, come Paese, a un esercizio di lungimiranza. In primis il Governo, che lo redige materialmente. Ma la lungimiranza è un dovere di tutti: dell’intero arco politico e dei corpi sociali. Nessuno che abbia a cuore il futuro di questo Paese vi si può sottrarre. L’Italia ha bisogno di cambiare alla radice. Passando, cioè, dai suoi fondamentali come la formazione, la produttività, gli investimenti, l’innovazione, la certezza del diritto, la buona amministrazione. Aver scelto di articolare il Piano strategico su sette anni e agganciarlo alle riforme è quindi, per noi, la scelta giusta. Il quadro riformatore delineato nel Piano non è, però, sufficientemente chiaro per un Paese che ha bisogno di più capacità progettuale. Un Paese che fatica a trasformare i soldi in progetti concreti. Un Paese che, per troppo tempo, ha confuso la quantità con la qualità della spesa pubblica. Vedremo se e come verrà corretta. Non vogliamo essere duri per il gusto di fare polemica.Ma perché come giovani abbiamo il dovere di scuoterlo, questo nostro Paese. Afferrare il momento e cambiare. L’impianto di finanza pubblica si basa sul rigore dei conti, ed è certamente un bene. Rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale, le politiche abitative e la sperimentazione sui mini-reattori, sono elementi positivi. Lo è anche la semplificazione, su cui si vede una volontà riformatrice attraverso diversi provvedimenti".
"La semplificazione è come l’olio per un ingranaggio bloccato. Libera i cittadini, le imprese, e quindi la crescita. Nel quadro di questo Piano strutturale, le leggi annuali, come quella di bilancio o sulla concorrenza, faranno da tagliando. E speriamo non inizi l’era dei “contributi volontari”. Nella prossima legge di bilancio servirà un sostegno a specifici investimenti. Ma con la massima urgenza serve semplificare Transizione 5.0. Finora abbiamo trovato ampia collaborazione da parte del Governo. Chiediamo che continui perché, al momento, arriva un segnale di allarme da parte delle imprese che trovano difficoltà oggettive nell’accesso all’incentivo. Vanno superate. Una misura così utile non può essere sprecata. Le risorse sono scarse anche quest’anno, ormai lo sappiamo a memoria. Ma ci preme almeno aprire un dibattito su un pacchetto di misure che creino le condizioni per attirare, trattenere e far crescere gli under 40 nel nostro Paese. Al 1° gennaio 2023, l’Italia era seconda in Europa per numero di cittadini che vivono in altri Stati dell'Unione".
"Ragioniamo allora sul regime impatriati, la norma sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”. Comprendiamo la stretta voluta dal Governo per correggerne alcune storture e razionalizzare l’uso del denaro pubblico. Pensiamo, però, che sia mancato un importante correttivo, legato al rientro dei giovani under 40. Sarebbe importante prevedere, per loro, una maggiore agevolazione: una riduzione della base imponibile Irpef dall’attuale 50 al 70%. È solo un segnale, certo. Non è una soluzione sistemica. Ma andrebbe nella giusta direzione.
Vogliamo che i giovani vedano che in Italia c’è chi è pronto a scommettere sul loro futuro, che poi è il nostro. Vogliamo che vedano nelle imprese un alleato e un orizzonte di vita. E per questo dobbiamo parlare anche di nuove aziende e di startup, e delle opportunità che l’Italia offre a chi vuole intraprendere. L’humus dove nasce e cresce la libertà d’impresa è la concorrenza. E su questo punto l’Italia ha perso terreno, purtroppo, fiaccata dall’assalto delle piccole corporazioni. È assolutamente positiva la previsione di una legge annuale sulla concorrenza, ma questi provvedimenti devono essere più ambiziosi. La concorrenza non si può limitare ai dehors di bar e ristoranti.
Ci vuole più coraggio.
Abbiamo chiesto all’Europa che la concorrenza non ostacoli la nascita di grandi player europei. E che si ragioni su scala globale. Qui da noi, allora, non accontentiamoci di pensare in piccolo. E se il DDL Concorrenza poteva porre le basi per un nuovo startup act, non è quello che abbiamo visto, però.
Dal primo, ne abbiamo fatta di strada, ma sono passati ormai 12 anni. Per il mondo dell’innovazione, un’era geologica. È come guardare una videocassetta mentre gli altri usano lo streaming.
Noi chiediamo un intervento organico e coraggioso: semplifichiamo la modalità di costituzione di nuove imprese direttamente in forma telematica; combattiamo l’avversione al rischio con incentivi a leva fiscale per famiglie e investitori verso fondi di capitale alternativo; rendiamo più semplice e vantaggioso per gli investitori pazienti impiegare i fondi in startup, senza legarli a percentuali stringenti.
E, infine, rafforziamo il trasferimento tecnologico. Basta questo a diventare una startup nation? No. Allora andiamo avanti".
"Università e imprese, insieme, devono essere capofila di un processo che trasformi economia e società. Bisogna ripartire dalla ricerca scientifica accademica e privata che sono il motore della crescita. In Italia, invece, fatichiamo a dargli valore. Servono investimenti significativi, per questo occorre la revisione profonda della spesa pubblica: liberare risorse per i settori che creano futuro. Università e imprese devono camminare insieme per trasformare i distretti italiani in ecosistemi interconnessi e pienamente globali. Lo prevede anche il PNRR nella Missione 4. Arrivati a metà strada della sua attuazione, occorre verificare se questo risultato è davvero all’orizzonte. Questa collaborazione avrà impatti profondi sulla competitività italiana. Che incide fortemente anche sull’attrattività. Siamo convinti, infatti, che le università italiane saranno indispensabili anche per la riuscita del Piano Mattei come ponti culturali, di innovazione e sviluppo tecnologico. In un’epoca di competizione globale per gli investimenti, per le tecnologie, per i talenti, rendersi attrattivi per chi viene dall’estero non dovrebbe essere oggetto di battaglia ideologica. Dovrebbe essere normale! Anche perché le migrazioni sono un fenomeno strutturale dell’umanità, e non c’è nessuna “Fortezza Europa” che possa fermarlo. Fenomeno, certo, che va gestito".
"Come comunità nazionale dobbiamo essere razionali nell’approccio alle migrazioni, a partire dall’integrazione passando per le differenze culturali e la sicurezza. Sono sfide di concreta difficoltà, nessuno lo nega, ma allo stesso tempo sono un’occasione di crescita. E anche questo è innegabile. Abbiamo visto, nel Decreto flussi, scelte di buon senso, ispirate a pragmatismo e semplificazione. La risposta ai bisogni delle nostre imprese passa, però, dalla gestione degli ingressi cosiddetti “fuori quota”. Questo canale va rafforzato e semplificato. Rafforzato, perché riguarda lavoratori certamente qualificati che mancano nel mercato interno. Semplificato, per eliminare le strozzature che ne rallentano la portata.
Di grandissima importanza è poi la proroga, per almeno un biennio, della disposizione transitoria che ha avviato la formazione dei lavoratori nei Paesi di origine. È un modello virtuoso su cui stiamo investendo moltissimo, come imprese e come Confindustria, potendo contare anche sui fondi interprofessionali. Abbiamo progetti in Egitto, Etiopia, Tunisia, Senegal e Ghana. Un modello che intendiamo replicare e moltiplicare, col tempo, in tutta l’area del Mediterraneo allargato. Anche attraverso il Piano Mattei. E poi lasciateci dire: in un Paese di culle vuote, di classi vuote, è solo un bene che un ragazzo desideri essere cittadino italiano. Non ci interessa entrare nel dibattito politico, ma auspichiamo che su questo tema si trovi un meccanismo condiviso. Perché riflettere sul legame tra apprendimento della lingua, scuola e cittadinanza è importante e potrebbe rafforzare la coesione sociale. Sarebbe un modo per dire, a questi giovani, che sono parte di noi. E per ricordarlo ai loro genitori, che hanno scelto di vivere in questo Paese e che lavorano con noi, anche nelle nostre imprese.
Perché essere una comunità significa avere diritti e doveri, ma anche sogni e un futuro da costruire insieme. Chiudo ora la mappa con cui abbiamo iniziato e lascio la parola a voi".
Questo nostro straordinario mondo ci sfida ogni giorno a cambiare punto di osservazione. Per vedere l’orizzonte dobbiamo andare più in alto, e guardare più lontano. È nostro dovere sforzarci di capire dove si collocheranno i nuovi orizzonti. Affinché occhi nuovi, domani, possano continuare a guardare albe, invece che tramonti.
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