14 Novembre 2025
L’espulsione della delegazione israeliana dal vertice sul clima COP-30 è avvenuta il 12 novembre a Belém. Il summit dedicato al clima ha scatenato proteste guidate da delegazioni latinoamericane e organizzazioni indigene . Quest'ultime hanno spostato l'attenzione sulle politiche genocidiarie israeliane nei Territori Palestinesi e sull'incoerenza del summit dedicato al clima aperto anche a chi commette ecocidio.
Le immagini dei partecipanti che intonano “Free Palestine!” e mostrano maschere raffiguranti il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno fatto rapidamente il giro del mondo. Hanno reso visibile un'opinione pubblica mondiale sempre più impattante e diffusa nei confronti dello stato di Israele che non perdona e non giustifica più la crisi umanitaria in Palestina.
Le proteste all’esterno del centro congressi sono state intense sin dalle prime ore. Cartelli con la scritta “No seat for genocider at COP30” e cori chiedevano l’immediata esclusione di Israele dal negoziato. Per gli attivisti, la partecipazione israeliana rappresentava una forma di “greenwashing” politico. “La nostra lotta è la stessa”, ha dichiarato Jamal Juma, noto attivista palestinese. “Gaza non sta combattendo da sola. È l’intero sistema imperialista che sostiene la devastazione. Ottantacinque paesi sono complici del genocidio in corso”, ha denunciato dal megafono, inquadrato dalle telecamere tra manifestanti e simboli di protesta. Sulla stessa linea Rania Harrara, della Women and Gender Constituency:
“Rifiutiamo la presenza di un’entità genocidaria che tenta di ripulire la propria immagine offrendo false soluzioni climatiche mentre devasta un’intera popolazione”.
La manifestazione di Belém si inserisce in un contesto globale segnato dall’ampliamento del movimento Boycott, Divestment and Sanctions (BDS), nato nel 2005 per chiedere pressione internazionale su Israele riguardo ad apartheid, occupazione militare e violazioni dei diritti umani. Negli ultimi dodici mesi, secondo associazioni accademiche internazionali, i boicottaggi universitari legati al BDS sarebbero triplicati. Allo stesso modo, artisti, istituzioni culturali e fondi d’investimento hanno interrotto collaborazioni o disinvestito da aziende ritenute coinvolte nelle attività dei coloni o nell’apparato militare. Molti analisti parlano di una “silent boycott”, una forma di isolamento non ufficiale ma crescente, che si manifesta nella riduzione delle partnership scientifiche, in un calo degli investimenti internazionali e in una freddezza diplomatica sempre più evidente. L’episodio di COP-30 sarebbe dunque la punta dell’iceberg di un processo più profondo.
La decisione del Brasile di invitare Israele al tavolo del negoziato ha attirato aspre critiche da parte delle comunità indigene amazzoniche e di vari governi latinoamericani progressisti.
Secondo i contestatori, includere Israele — accusato da organismi internazionali e ONG di violazioni sistematiche del diritto umanitario — avrebbe compromesso la credibilità morale della conferenza, presentata quest’anno come “COP dell’implementazione”. Per il governo brasiliano, tuttavia, l’invito rispondeva alla necessità di coinvolgere tutti gli attori globali nella transizione ecologica. Una posizione che non ha convinto i manifestanti, convinti che la crisi climatica non possa essere affrontata “con chi viola quotidianamente il diritto internazionale”.
L’espulsione formale della delegazione israeliana, decisa dopo l’intensificarsi delle contestazioni interne ed esterne al summit, rappresenta un precedente significativo. Non si tratta solo di un gesto simbolico: per molti osservatori, è la prova di un logoramento internazionale nei confronti delle politiche adottate da Israele a Gaza e in Cisgiordania, aggravate dall’offensiva militare degli ultimi anni.
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