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Palestina, 2,5 mln di ulivi distrutti da IDF dal 1967, le vittime del genocidio: “questi alberi sono compagni di vita, la guerra ce li sta portando via”

Dal 1967 Israele ha distrutto 2,5 mln di ulivi, più di 4.000 nell'ultimo anno. L'ecocidio è violenza strutturale contro i palestinesi: "questi alberi sono compagni di vita, la guerra ce li sta portando via”

13 Novembre 2025

In Palestina, oltre 2,5 milioni di ulivi sono stati distrutti dalle forze di occupazione israeliane dal 1967. Alberi secolari, simbolo di vita e radicamento, ridotti in cenere da bombardamenti, bulldozer, incendi e sostanze tossiche. Una devastazione sistematica che sta trasformando terre un tempo fertili in un deserto, privando palestinesi di ciò che li lega alla terra e alle tradizioni.

L’albero come simbolo di resistenza

L’ulivo non è solo una pianta per il popolo palestinese: è identità, memoria, sopravvivenza. Tagliare un ulivo significa recidere un legame profondo la propria storia. “Rappresenta la fermezza del popolo palestinese, capace di vivere in circostanze difficili”, ha detto il pittore palestinese Sliman Mansour, la cui arte è da sempre dedicata al tema della terra. Il celebre poeta Mahmoud Darwish, nella sua raccolta Foglie dell’albero d’ulivo (1964), scrisse:

“L’ulivo è un albero sempreverde; l’ulivo resterà sempreverde; come uno scudo per l’universo”.

Per il pittore e scultore Nabil Anani, l’ulivo è “un simbolo nazionale e artistico che riflette la natura e la bellezza della Palestina e deve essere protetto a ogni costo”. Le tradizioni, poesie e canzoni palestinesi ruotano da sempre intorno a questo albero, simbolo di resistenza e radici che non si spezzano.  

     

               

Un’economia spazzata via

L’ulivo è anche il cuore pulsante dell’economia agricola palestinese.
Prima del 7 ottobre, in Cisgiordania e a Gaza, quasi metà delle terre coltivate erano occupate da uliveti che garantivano lavoro e reddito a migliaia di famiglie rurali. Nel 2019, secondo il Centro di Statistica Palestinese, sono state spremute 177.000 tonnellate di olive, producendo 39.600 tonnellate di olio d’oliva. La storia che connette il popolo palestinese all'ulivo è così antica che ci sono alberi che hanno più di 1.000 anni, e si stima che alcuni abbiano superato pure i 3.000.

Ma la guerra ha cancellato secoli di cura e coltivazione. Secondo Mahmoud Fatafta, portavoce del Ministero dell’Agricoltura palestinese, “circa il 74% delle aree coltivate a ulivo è stato distrutto, pari a oltre 2,2 milioni di alberi”.

I mesi di ottobre e novembre, un tempo periodo di festa per la raccolta delle olive, si sono trasformati in stagioni di paura. Coloni israeliani attaccano quasi quotidianamente contadini palestinesi, distruggono raccolti, incendiano alberi secolari e rubano le olive.

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), dall’inizio della raccolta 2024 si sono registrati oltre 120 attacchi in 70 città e villaggi, con più di 100 feriti e 4.000 alberi vandalizzati. Molti agricoltori, inoltre, non possono più accedere alle proprie terre. I terreni vicini agli insediamenti israeliani richiedono permessi militari, spesso negati: nel 2024, Israele ha vietato l’accesso a 35.000 dunum di terreno agricolo (circa 3.500 ettari), causando la perdita di oltre 1.300 tonnellate di olio, per un valore stimato di 8,5 milioni di dollari.

L' ecocidio come violenza strutturale

Alla devastazione agricola si aggiunge una crisi ambientale senza precedenti. Gli impianti di depurazione sono fuori uso e le acque reflue inondano i campi, contaminando falde che sfociano sulla costa mediterranea.
L’accesso all’acqua potabile è crollato da 85 a meno di 6 litri al giorno per persona, secondo dati ONU.
Le inondazioni dei tunnel con acqua di mare da parte dell’esercito israeliano rischiano di salinizzare irreversibilmente la falda costiera, rendendo impossibile ogni futura coltivazione. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) descrive Gaza come un campo tossico: ogni metro quadrato contiene oltre 100 kg di macerie contaminate da amianto, metalli pesanti e residui di fosforo bianco e uranio impoverito.

La devastazione ambientale non va considerata un semplice danno collaterale, ma costituisce una forma di violenza strutturale. Creare un ambiente invivibile, in cui le risorse essenziali risultano permanentemente compromesse, equivale a realizzare una condizione che la Convenzione ONU del 1948 definisce come genocidaria: l’imposizione intenzionale di condizioni di vita mirate a distruggere un gruppo umano (UNHRC, 2025). Questa distruzione sistematica rappresenta una strategia volta a disarticolare il tessuto sociale e culturale della comunità colpita. In poche parole, è il tentativo di spezzare il legame intrinseco del popolo palestinese con la propria terra e le proprie tradizioni.

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