27 Febbraio 2023
Franco Moscetti presenta a Il Giornale d'Italia il suo nuovo libro "Felici al lavoro", scritto a quattro mani con Nicola Chighine e la collaborazione di numerose altre personalità. Il testo tratta di "Storie e strumenti di MentorCoaching, per avere più consapevolezza, soddisfazione e migliori risultati in ambito lavorativo" e vanta la prefazione di Ferruccio De Bortoli.
La conversazione con il GdI si è poi estesa ai maggiori temi di attualità, il rinnovo delle nomine ai vertici delle maggiori partecipate italiane e la guerra Russo-Ucraina.
Moscetti è in Clessidra Capital Credit SGR dal 2021 in qualità di membro del Consiglio di Amministrazione, Franco è fondatore ed Amministratore Unico di Axel Glocal Business. Con una decennale esperienza ai vertici di numerose aziende, Franco è stato Amministratore Delegato del Gruppo 24Ore, di Air Liquide, del Gruppo Amplifon, oltre ad essere attualmente Presidente di OVS e Vicepresidente di Fideuram Investimenti SGR.
Moscetti inoltre presiede l'advisory board di Axelcomm, di cui è socio insieme a Ilaria Capponi, Dario Donato e Federica Menichino. Axelcomm è una società di consulenza strategica focalizzata su comunicazione corporate, finanziaria, fintech e di crisi. Nasce con l'obiettivo di portare sul mercato una sintesi delle diverse esperienze espresse dai soci fondatori per metterle al servizio di stakeholder e clienti. “Relations” è il payoff e il minimo comune denominatore. Un termine che tornerà a essere centrale per aziende e professionisti, dopo una parentesi in cui digitale e disintermediazione hanno protetto, ma allontanato da un asset imprescindibile.
Al GdI, Moscetti ha presentato così il proprio libro: "Felici al lavoro" è un libro che nasce dal fatto che ho fatto un’esperienza lavorativa piuttosto importante, partendo dalla gavetta e giungendo ai vertici della gerarchia e, quindi, ho pensato di mettere a disposizione questa mia esperienza a favore degli altri. Mi sono rivolto a un amministratore delegato di una importante azienda multinazionale, il quale mi ha chiesto di fare il Coach, ma io non mi sono ritenuto tale: per essere un coach bisogna fare corsi. Ho allora interpellato un Coach e l’ho convinto a fare una fusion tra l’attività del Coach e del Mentor, perché il primo ha il brevetto da Coach, ma magari è giovane, neo- laureato e non ha mai visto l’azienda, il Mentor, invece, magari sa tantissimo dell’azienda, ma gli mancano quei riferimenti bibliografici.
Abbiamo, dunque, inventato questo brand che poi abbiamo registrato, MentorCoaching e abbiamo iniziato a lavorare con questo approccio. Allora, ci siamo detti di condividere queste esperienze.
Nel libro troverà una serie di realtà vere, abbiamo ovviamente cambiato nomi e generi per evitare problematiche relative alla riservatezza delle persone, ma per il resto è tutto vero al 100% e, in più, ci siamo chiesti: perché non andiamo da alcuni personaggi che hanno avuto successo a vedere se nel corso del loro processo professionale si sono trovati in una situazione tipo quella che noi descriviamo e in più ci siamo detti che ci sarebbe la possibilità di fare un’autodiagnosi e quindi una sorta di autoterapia. Quindi, in questo libro, oltre a trovare le storie di tutti questi personaggi, ci sono anche degli esercizi per cui uno può fare un’autodiagnosi e, in maniera autonoma dal punto di vista terapeutico, può migliorare il proprio approccio al lavoro con l’obiettivo di lavorare felice.
La prefazione del libro è stata scritta dal mio amico De Bortoli e per ringraziarlo, anche in modo piuttosto concreto, anche perché l’ha fatto in modo del tutto gratuito, noi abbiamo stabilito che non guadagneremo un centesimo dalla pubblicazione del libro, ma tutti i ricavi verranno donati alla fondazione Vidas di cui Ferruccio De Bortoli è presidente.
Mi lasci ringraziare, Salvatore Aranzulla, Luca Foresti, Luca Colombi, Davide Oldani, Claudia Parzani, Francesca Pasinelli, Marina Salamon, Mattero Sarzana, Andrea Sinigaglia e Giuseppe Stagliano per il contributo che anche loro ci hanno offerto gratuitamente.
Quanto è importante la salute mentale nel lavoro e come si può favorire quella dei dipendenti?
Prima di tutto i dipendenti devono essere a loro agio, noi raccontiamo esperienze di persone che venivano considerate in modo molto limitato all’interno della loro organizzazione e che poi, viceversa, mettendoli in una comfort zone e dando loro la possibilità di esprimersi secondo quelle che sono le loro potenzialità, improvvisamente, sono diventati dei talenti. È evidente che i modello organizzativo di riferimento, le condizioni di lavoro di riferimento giocano un ruolo fondamentale in questo senso. Certo, occorre poi avere la possibilità di interagire con un capo, con un responsabile, che capisca che sia sensibile a questo genere di problemi e che, anziché giudicare, cerchi di capire le necessità dell’interlocutore e, ripeto, interagendo si può trovare una soluzione che sia d’interesse sia per la persona sia per l’azienda stessa.
Un ambiente sano è un ambiente che non considera la persona un numero, che non sia obbligarla a fare sempre esclusivamente cose ripetitive, estremamente standardizzate. La stragrande maggioranza di persone che cambiano il lavoro lo cambiano non tanto per ragioni economiche, bensì perché vogliono sentirsi protagonisti, assumendosi sia in positivo sia in negativo, le responsabilità di un processo. Se nota, i giovani stanno tornando ai vecchi mestieri: l’agricoltore, l’artigiano, il creatore di qualcosa: vuole sentirsi protagonista di un processo.
La pandemia ha avuto un influsso negativo sulla salute mentale, ma potrebbe essere stata anche un catalizzatore per la sensibilizzazione su questo tema.
Si, la pandemia ha consentito che le persone potessero fare una scelta. C’è chi dal lavoro pensa di ottenere solo esclusivamente risorse economiche, quindi il lavoro viene considerato come un mezzo; altri vedono nel lavoro una realizzazione di sé stessi, e da questo punto di vista il Covid è stato uno spartiacque tra chi la pensa in un modo e chi in un altro. Tutti e due gli approcci sono legittimi, ma non necessariamente coincidenti.
Dal punto di vista governativo abbiamo visto un tentativo, fallito, del bonus psicologico. Cosa si può fare di concreto per la salute mentale?
A mio parere, bisogna selezionare bene i team leader, perché è inutile che il responsabile di un’azienda o di un’enclave si comporti male e poi pensi di risolvere il problema attraverso un bonus psicologico, non va bene. Occorre instillare nel leader una nuova sensibilità, che è la sensibilità di dire “nel momento in cui aiuto a stare bene le persone che lavorano nell’azienda, sto meglio anch’io”
Spostandoci all’attualità. Siamo in area di rinnovi, quali sono le previsioni per quanto riguarda i punti più spinosi per le nomine dei vertici delle partecipate, penso a Enel, ENI, Leonardo…
Io non mi focalizzerei sul fatto del partito d’appartenenza, io credo che comunque uno la pensi, viviamo in una democrazia e abbiamo una costituzione garantista sotto questo punto di vista e io credo che le scelte vadano fatte sulla base del merito, delle competenze e delle sfide che un’azienda deve affrontare.
Abbiamo un’occasione unica e straordinaria di poter dire, benissimo vediamo chi ha operato bene e chi può continuare a operare per il successo dell’azienda e del paese. Per me, Starace è una persona molto per bene e capace, Descalzi ha tenuto in piedi Eni quando il petrolio stava a 20 dollari. Serve un approccio di carattere meritocratico.
E riguardo alla Guerra Russo-Ucraina?
La situazione è talmente complessa che è difficile dare una risposta esaustiva, è evidente che tutti auspichiamo la pace. Come questa pace possa arrivare siamo nelle mani di Dio, dal punto di vista geopolitico ci sono interessi diversi, approcci diversi e leadership diverse e non è facile. Noi, la nostra appartenenza al mondo occidentale e, quindi, alla NATO, e tutto quello che magari di positivo e di sacrificio può comportare, credo che sia un fatto, non possiamo cambiare bandiera. È chiaro che nelle grandi questioni internazionali la flessibilità del sistema deve anche consentire di non irrigidirsi su posizioni precostituite, ma di capire anche il contesto se si può fare qualcosa. Che noi siamo parte integrante del mondo occidentale, non credo che nessuno voglia metterlo in dubbio.
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