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"Under Pressure": una doppia mostra milanese-americana da non perdere tra classicità mistico-intellettuale e profonda ricerca

Dal 12 novembre al 12 dicembre presso Siteroom in via Washington 106 a Milano: la doppia mostra di Piero Addis e Jeff Spees

10 Novembre 2025

"Under Pressure": una doppia mostra milanese-americana da non perdere tra classicità mistico-intellettuale e profonda ricerca

Piero Addis è un artista pieno e multiforme, che ha ricevuto vari riconoscimenti negli anni: il Primo Premio Europeo per Creativi del Parlamento Europeo, l’Art Directors Club Italia, il Cannes Film Festival, l’IAA Tokyo (International Advertising Association) First Prize e molti altri. Ha tenuto lezioni e seminari in prestigiose università italiane e straniere — tra cui Milano, Roma, Berlino, Barcellona, Praga, Caracas, Città del Messico e Guatemala — condividendo la propria visione sul rapporto tra arte, comunicazione e cultura visiva contemporanea. Dal 2003 al 2006 ha ricoperto il ruolo di Head of Arts & Culture per i XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, coordinando un ampio programma culturale con oltre 250 eventi artistici. Ha inoltre collaborato con il Comitato Olimpico Internazionale (IOC) e con l’UNESCO per il programma culturale delle Olimpiadi di Pechino 2008. Nel gennaio 2017 è stato nominato Direttore Generale della Villa Reale e del Parco di Monza, dove ha ideato e promosso un articolato programma culturale di alto profilo, con mostre gratuite presso l’Orangerie della Villa, eventi di musica contemporanea nel parco, spettacoli teatrali e numerose iniziative pubbliche che hanno registrato una grande partecipazione di pubblico. Nel 2023 ha fondato insieme a un imprenditore di New York una company per la realizzazione di sneaker di lusso, disegnandone le collezioni su commissione dei fondatori di PayPal. Come artista ha esposto le proprie opere in prestigiosi spazi internazionali, pubblici e privati, tra cui la Biennale di Venezia 2011, Roma (Palazzo della Stampa, Fontana di Trevi), Parigi, Città del Messico, Guatemala City, Caracas, Boston, Buenos Aires, Klagenfurt, Pechino, Sydney e Boca Raton. Alcune sue opere si trovano nel Museo Russo di Storia Contemporanea (Mosca).

Jeff Spees, Ph.D.

Spees ha conseguito la laurea con lode al Union College di Schenectady, New York (con una doppia specializzazione in biologia e arti visive) e il dottorato in ecologia marina presso l’Università della California, Davis. Ha poi completato un post-doctoral fellowship al Tulane Center for Gene Therapy di New Orleans, Louisiana. Attualmente è Professore di Medicina presso la Larner College of Medicine dell’Università del Vermont e ricopre anche un incarico secondario nel Dipartimento di Scienze Neurologiche. Spees è un esperto di biologia delle cellule staminali e progenitrici adulte, medicina rigenerativa e dei meccanismi di riparazione e rimodellamento dei tessuti dopo una lesione. Le sue pubblicazioni scientifiche sono molto citate e il suo lavoro ha portato al rilascio di numerosi brevetti negli Stati Uniti e in Europa. Come scienziato, è stato invitato a tenere numerose conferenze negli Stati Uniti, in Canada, Irlanda, Spagna, Germania, Cina, Giappone e Nuova Zelanda. Come artista, ha esposto le sue opere nello stato di New York, in California e in Italia. Cresciuto lungo le coste del New England, Spees ha iniziato fin da bambino a dipingere e a praticare immersioni subacquee. Le sue opere d’arte contemporanea esplorano spesso l’ambiente marino e i paesaggi costieri, trovando forti connessioni con l’Espressionismo Astratto dell’area della Baia di San Francisco. Questo movimento, nato negli anni Quaranta e Cinquanta, esaltava l’emozione e l’uso audace del colore. Pur non appartenendo direttamente a quella generazione, Spees ne riflette l’influenza attraverso la sua sensibilità cromatica e la sua energia dinamica. Le sue tele utilizzano colori vibranti, pennellate fluide e raschiature direzionate per evocare il vento, le correnti sottomarine e una sensazione di movimento e trasformazione continua. La sua duplice prospettiva di scienziato e artista conferisce alle sue opere precisione, empatia e una profonda consapevolezza della condizione umana. I suoi dipinti sono meditazioni visive sulla vitalità, la transitorietà e la bellezza — ispirate sia dalle sue ricerche scientifiche sia dal suo rapporto profondo e duraturo con la natura e l’oceano. Spees è una figura imponente, sia fisicamente che artisticamente. Alto, robusto e quasi monumentale nell’aspetto, sembra incarnare la forza e la presenza che si riflettono anche nella sua produzione creativa. Ma, al di là della sua statura fisica, è una persona di grande passione e bontà, qualità che emergono nel suo modo di rapportarsi agli altri, nella sua ricerca medica e nelle sue opere d’arte.

Piero Addis: ci racconti la tua recente collaborazione con l’artista americano Jeff Spees? Cosa vi avvicina e in cosa siete complementari?

Io e Jeff ci siamo incontrati attraverso il mare, prima ancora che attraverso l’arte.Lui si immerge letteralmente: in apnea, nel silenzio, dentro la pressione.Io mi immergo nella materia, nella fusione del metallo, nel gesto che trasforma.Entrambi tratteniamo il respiro.

Quello che ci unisce non è un linguaggio formale, ma una condizione: il bisogno di attraversare la soglia tra ciò che appare e ciò che resiste.Jeff è un artista straordinario, ma anche uno scienziato di altissimo livello — professore di medicina all’Università del Vermont, autore di numerose pubblicazioni e inventore di brevetti che hanno avuto risonanza internazionale.Nel suo lavoro artistico c’è la stessa precisione e la stessa empatia della ricerca scientifica: un rispetto profondo per la vita e per i processi invisibili che la generano.

Lui esplora l’interno delle cose — la biologia, la struttura, la luce sottomarina.Io esploro la loro superficie — quella pelle che il mondo abbandona e che io cerco di restituire alla sua dignità.Le sue tele e le mie sculture si incontrano così: come due modi diversi di parlare della stessa pressione.

La vostra nuova mostra milanese rappresenta un punto di svolta della tua arte oppure è uno sviluppo organico del tuo percorso?

È uno sviluppo naturale, ma non prevedibile.Ogni volta che un progetto nasce da un incontro autentico, accade una mutazione.Under Pressure non è una deviazione dal mio percorso, ma un approfondimento.È come se avessi portato in superficie qualcosa che da tempo lavorava nel profondo: l’idea che ogni materiale, ogni gesto, ogni respiro possa trasformarsi in memoria.

Con Jeff, questa idea si è amplificata.Lui porta la profondità — fisica, biologica, spirituale.Io porto la densità, la materia, il peso.Insieme abbiamo costruito un dialogo tra immersione e fusione, tra silenzio e combustione, tra pressione e rinascita.

Le tue sculture mi hanno come ipnotizzato: le trovo molto magnetiche, luminose e anche conturbanti nella loro capacità di comunicazione estetica immediata e quasi spiazzante. Mi sembra una nuova declinazione dell'arte oggettuale tanto dis-incantante quale ri-sacralizzante. Cosa ci puoi dire?

È una lettura che sento molto vicina.Le mie sculture nascono da oggetti che il mondo ha già condannato all’invisibilità: bottiglie, contenitori, plastica deformata.Li raccolgo non per nostalgia, ma per responsabilità.Li fondo, li lascio bruciare, e poi li ricreo in alluminio.È un gesto di violenza e di tenerezza insieme — distruggere per salvare, cancellare per dare permanenza.

I rifiuti costituiscono un vero e proprio mondo, speculare a quello delle merci: un immenso giacimento di valore creativo, ma anche un documento fedele delle nostre abitudini e del nostro stile di vita.Sono lo specchio della nostra società dei consumi, che riflettendosi in esso può prendere coscienza di sé.Per me, questo è il punto più alto dell’arte contemporanea: quando l’oggetto non è più soltanto scarto, ma strumento di consapevolezza.

Quando la plastica scompare sotto il metallo fuso, accade qualcosa che non è solo chimico, ma quasi metafisico: un passaggio di stato della memoria.L’oggetto smette di essere funzione e diventa segno.Come scrive Merleau-Ponty, “vedere è già pensare, ma attraverso la carne del mondo”.Il mio lavoro è una forma di conoscenza tattile: capire la realtà toccandola, attraversandola, fondendola.

C’è un paradosso che mi interessa profondamente: più l’oggetto viene schiacciato o deformato, più acquista potenza visiva.È come se la verità estetica nascesse dal trauma, non dalla perfezione.Baudrillard diceva che “l’oggetto non riflette il mondo, ma lo assorbe e lo restituisce come simulacro”.Io cerco di fare l’opposto: restituire all’oggetto la sua verità, non come simulacro, ma come residuo del reale.

Forse il magnetismo che percepisci nasce da qui — da quella zona di confine tra il disincanto e il sacro, dove la materia diventa pensiero e la forma diventa resistenza.Le mie opere non vogliono rappresentare qualcosa: vogliono essere qualcosa, sopravvivere al proprio consumo.In fondo, credo che ogni scultura nasca da un atto di pressione ma finisca come un atto di gratitudine.

“Under Pressure” si lavora meglio?

Sotto pressione non si lavora: si esiste. La pressione è ciò che modella tutto — le montagne, il mare, il tempo, i nostri corpi.È una condizione naturale, non un’eccezione.Nell’arte, come nella vita, la pressione è ciò che trasforma la fragilità in forma.Jeff la vive fisicamente, sott’acqua; io nella fornace, tra il calore e la fusione. Sotto pressione, non controlli: ascolti. E forse è proprio in quell’ascolto che nasce l’arte.

C'è anche una componente etico-sociale contemporanea nelle tue opere per questa mostra? Ti riferisci alle sfide gigantesche che la contemporaneità appare quasi costretta a percepire, spesso non sapendo come reagire al loro racconto mass-mediale?

Sì, ma non in modo illustrativo. Non amo l’arte che spiega: amo l’arte che mette in crisi lo sguardo.Viviamo in un’epoca di saturazione visiva, dove tutto è immediatamente visibile ma quasi nulla è veramente visto.La mia ricerca parte da ciò che il mondo scarta — e in questo senso ha un valore etico, non morale.Ogni bottiglia che recupero dal mare è una forma di testimonianza, un frammento di contemporaneità che ha perso la propria voce.

Io non cerco di denunciare, ma di trasformare.Credo che la vera sostenibilità dell’arte non sia nel riciclare, ma nel trasfigurare: prendere ciò che è stato dimenticato e dargli una seconda esistenza, luminosa, consapevole.È una forma di responsabilità, ma anche di amore.L’arte, in fondo, è l’unico modo che conosciamo per rendere eterno ciò che era destinato a scomparire.

Jeff Spees

Il tuo lavoro artistico nasce dal mare ma anche da una lunga esperienza scientifica. In che modo la tua formazione da biologo e ricercatore influenza la tua pittura?

Per me la scienza e la pittura sono due forme dello stesso atto di osservazione.Nel laboratorio cerco di capire come la vita si rigenera; sulla tela cerco di ricordarmi che la vita non si può spiegare del tutto.Entrambe richiedono pazienza, precisione e una certa disponibilità al fallimento.Quando dipingo, non rappresento ciò che vedo ma ciò che comprendo con il corpo — pressione, corrente, luce che muta.L’arte mi permette di rimettere in gioco l’emozione, là dove la scienza tende a ridurre.La pittura è la mia biologia sentimentale.

Cosa ti ha colpito della Sardegna e della collaborazione con Piero Addis?

In Sardegna ho trovato una luce che non dimenticherò mai.È un’isola che respira come un organismo: la roccia, il vento, il mare hanno un ritmo biologico.Lavorare con Piero è stato naturale: lui parte dalla materia e io dalla percezione, ma entrambi crediamo che la forma nasca solo dopo una certa immersione.Quando ho visto per la prima volta le sue sculture, mi è sembrato di guardare la solidificazione del tempo.Io cerco di dipingere la sospensione; lui la fissa nel metallo.Insieme abbiamo costruito una conversazione tra respiro e pressione, tra ciò che sprofonda e ciò che riemerge.

Il tema della luce lo si capta con forza e intimità sia nelle tue opere che in quelle di Piero. I tuoi dipinti hanno una componente meditativa, quasi mistica. Cosa cerchi davvero quando ti immergi sott’acqua o davanti alla tela?

Cerco il silenzio. Sott’acqua, il corpo si svuota di parole; resta solo il ritmo del respiro e il battito del cuore.È un modo di ricordare che siamo parte del tutto.Quando dipingo, provo la stessa sensazione: un ritorno alla calma primordiale, dove la materia del colore diventa spazio per respirare.In quel momento non c’è più separazione tra immersione e pittura — entrambe sono un tentativo di ritrovare la presenza, di restituire attenzione al mondo.Forse è questo che mi lega a Piero: la volontà di fermare un istante di verità prima che torni a dissolversi.

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