26 Settembre 2025
Dante, opere di Immanuel Romano e Bosone da Gubbio, fonte: Wikipedia
Nel vasto panorama letterario italiano a cavallo tra il Duecento e il Trecento, la figura di Dante Alighieri emerge come un faro che orienta e, insieme, attira verso di sé una costellazione di autori, commentatori e imitatori. Tra questi, due nomi — Bosone da Gubbio e Immanuel Romano — si stagliano come testimoni, reali o mitizzati, di una rete intellettuale che, pur nelle sue differenze di lingua, fede e stile, condivideva uno stesso orizzonte: il bisogno di dare forma poetica al senso ultimo dell’esistenza.
Il primo Trecento è un’Italia in movimento: politicamente instabile, attraversata da lotte tra fazioni, esili e riconfigurazioni municipali, ma culturalmente viva, animata da una circolazione incessante di idee e di uomini. In questo contesto emergono i percorsi, talora paralleli e talora incrociati, di tre figure che, pur appartenendo a mondi apparentemente distanti — il cristianesimo fiorentino di Dante, l’ebraismo romano di Immanuel, la provincia umbra di Bosone — dialogano idealmente sul terreno della poesia e della speculazione morale.
Bosone da Gubbio è un personaggio liminale, sospeso tra storia e invenzione. Le sue tracce si perdono tra atti podestarili e cronache cittadine, mentre la sua identità letteraria è avvolta dal dubbio. È a lui che la tradizione settecentesca attribuisce l’ospitalità offerta a Dante nel castello di Colmollaro, durante l’esilio del poeta. Ma le fonti coeve tacciono, e la figura di Bosone “senior” — attivo già nel 1266 — si confonde con quella del figlio, Bosone Novello, più documentato ma meno coinvolto, pare, in attività letterarie. L’Aventuroso Ciciliano, romanzo cavalleresco intriso di simbolismo morale, e il Capitolo a compendio della Commedia, composto in terzine dantesche, sono le due opere che la tradizione lega a Bosone. Se la prima rivela un’adesione tarda e forse scolastica all’ideale cortese, la seconda mostra una precoce ricezione della Commedia e la volontà di inserirsi nel suo solco, pur senza toccarne le vette stilistiche.
Figura ben più affascinante e documentata è quella di Immanuel ben Solomon da Roma, noto come Immanuel Romano. Poeta, commentatore biblico e raffinato intellettuale ebreo, Immanuel visse a Roma tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, producendo un’opera che testimonia una profonda assimilazione della cultura italiana, tanto volgare quanto latina. La sua raccolta poetica, le Maḥberot, è un esempio straordinario di sincretismo letterario: sonetti, rime in metro italiano, satire, componimenti escatologici. L’ultima maḥberet, in particolare, colpisce per la sua struttura narrativa ispirata alla Divina Commedia: un viaggio ultraterreno in cui l’io poetico è guidato da una figura chiamata Daniele, che alcuni studiosi, come Battistoni, identificano con Dante stesso. Immanuel, come Dante, utilizza l’allegoria come strumento per indagare la giustizia divina, ma lo fa all’interno di un impianto teologico ebraico. Il confronto non si limita però al contenuto: la lingua, la forma e persino la visione dell’amore risentono della temperie stilnovistica. In Immanuel, l’amore per la Sapienza assume i contorni della donna angelicata; la Torah diviene figura salvifica, ponte tra umano e divino, in un modo non dissimile dalla Beatrice dantesca.
Dante è il fulcro che tiene insieme questi due satelliti culturali. Ma la sua centralità non è soltanto quella dell’influenza: è anche quella di un’autorità in costruzione, che si alimenta di letture, riscritture e leggende. È emblematico che, tanto in Immanuel quanto in Bosone, si tenti di legare la propria opera — o la propria città — al poeta della Commedia: l’uno lo fa elevandolo a guida nel proprio immaginario ultraterreno; l’altro ospitandolo idealmente nel proprio castello. Questa attrazione gravitazionale verso Dante si spiega anche alla luce della funzione della poesia escatologica nel primo Trecento. In un’epoca segnata dalla crisi delle istituzioni religiose e politiche, il viaggio oltremondano offerto dalla Commedia diventa paradigma di giustizia, verità e redenzione. È un modello irresistibile per chiunque, come Immanuel o Bosone, voglia elaborare un messaggio morale e universale attraverso la poesia.
Altro terreno di confronto è la nozione di nobiltà, così centrale nel pensiero stilnovistico. Nella Commedia come nelle rime giovanili, Dante afferma che la vera nobiltà risiede nel “cuore gentile”, non nel lignaggio. Questa idea, già enunciata da Guinizzelli, si afferma contro la visione feudale, proponendo un’etica borghese, fondata sulla virtù personale. In maniera analoga, Immanuel celebra la nobiltà dell’anima che si eleva attraverso lo studio e la giustizia, non attraverso l’eredità. Nel suo mondo, la sapienza — e non la stirpe — garantisce grandezza. Anche il rustico e simbolico Aventuroso Ciciliano, seppur in modo meno consapevole, propone una lettura etica della nobiltà: è l’eroe virtuoso, non il cavaliere blasonato, a trionfare.
Dante, Immanuel e Bosone rappresentano tre sguardi sul mondo e sulla letteratura, che si intrecciano nella stessa epoca e — forse — negli stessi luoghi. Che si siano realmente incontrati o meno, poco importa: le loro opere dialogano nel tempo e testimoniano un medesimo bisogno di dare senso alla realtà attraverso la poesia. Nel Trecento, la Commedia non è solo un testo, ma un evento culturale, capace di ridefinire i confini della lingua, della filosofia e perfino della geografia letteraria. Se Dante è il centro, Bosone e Immanuel sono le sue eco, espressioni periferiche ma non minori di un’epoca in cui la poesia era ancora strumento di salvezza.
Di Riccardo Renzi
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