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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

"Idoli" e "Ai padri", due liriche su generazioni e ispirazioni tratte dalla silloge "Occhio e assenza", Raffaelli editore

Due liriche, di Massimo Triolo, tratte dalla silloge poetica “Occhio e assenza” ed edite da Raffaelli editore nel 2018

20 Agosto 2025

Occhio e assenza

Occhio e assenza, fonte: Libreria Universitaria

Idoli

Non sapevamo ancora che i nostri idoli di carta

andassero a deporre le proprie virtuose parole

in un canestro di fiori velenosi.

Ci avevano trafitto il cuore

e si era alzato un vento potente e caparbio,

la loro voce suonò oscura e definitiva

come un epitaffio roso dal tempo.

Siamo stati spesso al riparo, noi altri,

da cieli turchini, di sangue e latte,

colmando turiboli cristallini

con incenso da cerimonia,

e celebrando la loro voce

come fosse la nostra stessa voce...

O qualcosa di più:

la voce suscitata a intersecare il piano

di questa nostra vita,

che gettava una lamina temprata di luce ardente

su moncherini di oscurità.

Siamo forse della stessa Generazione, io e te?

Suggiamo insieme il medesimo istante,

dalla medesima coppa,

la medesima coppa rabbocchiamo

senza scucire una parola,

perdiamo le staffe, ci gridiamo contro,

poggiamo le nostre labbra balsamiche

sulle ferite dell’altro,

gli sussurriamo carezze come filamenti di miele,

che si struggono al sole, splendidi come antichi sigilli.

No, non siamo della stessa Generazione:

turgidi e vacui, i discorsi,

calati su scene da teatro di posa,

avanguardie di nevrosi ancora sconosciute,

forse la stessa angoscia,

ma non lo stesso rimedio

per quel nemico fatto di vento.

Pure, leggiamo talvolta gli stessi versi,

forse gli stessi versi ci leggono dentro,

ma non sapevamo ancora che sui nostri idoli

si sarebbe posata la vostra polvere.

Chi di noi è più eterodiretto? 

Ai padri

Con voce tinnula assestò un fendente al silenzio,

e su tutto il gerbido suolo calò una caligine sulfurea.

Il sigillo fulgente maturò la luce,

il viandante guercio,

le lane dei capelli scompigliate dai venti,

si chinò a tracciare un cerchio sulla terra infertile.

Ma non servì a placarli.

Erano giunte sul luogo le genti dai suburbi

e dal paese che aveva volto di bianca rocca:

spiccioli di gente, rivi di gente, fiotti, maree cubitali.

E il murmure divenne ruggito,

lo scandalo fu issato al celo come nera vela,

le voci soverchiarono la fissità dell’istante di cruna,

cavalcato da luci metafisiche sul fitto della folla.

Diurna cecità –

crudele avamposto di grazia inumana

e preciso velo di urbani usi su olocausti di sangue –,

il veleno enfia le vene del mondo,

e il seme di una domanda s’apre su nuovi digiuni

di sostanza e direzione

che già vergati non siano su pagine di linfe brunite.

Convergete sul viandante cieco, genti incarognite!

Brandite ciò che v’è a portata

e uccidete quell’occhio che vede,

maciullate quelle labbra che alla verità s’abbeverano

tumefate quelle ginocchia che già baciarono l’aspra terra,

strappate le orecchie che sentono, sopra ogni dire,

la voce degli angeli inabissati nel cielo muto e cadaverino.

Le insecchite ossa dei padri siano irrorate di sangue nuovo.

Sia compiuto l’annoso periplo temporale

nel rituale di un nuovo immolare,

ché la cruda tenebra delle loro voci non si disacerba

che nella successione di martirio

e lustrale deificazione del martire –

che è loro avito specchio esatto.

La terrà fu fertile per sette stagioni di pace e concordia.

Di Massimo Triolo

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