20 Agosto 2025
Occhio e assenza, fonte: Libreria Universitaria
Non sapevamo ancora che i nostri idoli di carta
andassero a deporre le proprie virtuose parole
in un canestro di fiori velenosi.
Ci avevano trafitto il cuore
e si era alzato un vento potente e caparbio,
la loro voce suonò oscura e definitiva
come un epitaffio roso dal tempo.
Siamo stati spesso al riparo, noi altri,
da cieli turchini, di sangue e latte,
colmando turiboli cristallini
con incenso da cerimonia,
e celebrando la loro voce
come fosse la nostra stessa voce...
O qualcosa di più:
la voce suscitata a intersecare il piano
di questa nostra vita,
che gettava una lamina temprata di luce ardente
su moncherini di oscurità.
Siamo forse della stessa Generazione, io e te?
Suggiamo insieme il medesimo istante,
dalla medesima coppa,
la medesima coppa rabbocchiamo
senza scucire una parola,
perdiamo le staffe, ci gridiamo contro,
poggiamo le nostre labbra balsamiche
sulle ferite dell’altro,
gli sussurriamo carezze come filamenti di miele,
che si struggono al sole, splendidi come antichi sigilli.
No, non siamo della stessa Generazione:
turgidi e vacui, i discorsi,
calati su scene da teatro di posa,
avanguardie di nevrosi ancora sconosciute,
forse la stessa angoscia,
ma non lo stesso rimedio
per quel nemico fatto di vento.
Pure, leggiamo talvolta gli stessi versi,
forse gli stessi versi ci leggono dentro,
ma non sapevamo ancora che sui nostri idoli
si sarebbe posata la vostra polvere.
Chi di noi è più eterodiretto?
Con voce tinnula assestò un fendente al silenzio,
e su tutto il gerbido suolo calò una caligine sulfurea.
Il sigillo fulgente maturò la luce,
il viandante guercio,
le lane dei capelli scompigliate dai venti,
si chinò a tracciare un cerchio sulla terra infertile.
Ma non servì a placarli.
Erano giunte sul luogo le genti dai suburbi
e dal paese che aveva volto di bianca rocca:
spiccioli di gente, rivi di gente, fiotti, maree cubitali.
E il murmure divenne ruggito,
lo scandalo fu issato al celo come nera vela,
le voci soverchiarono la fissità dell’istante di cruna,
cavalcato da luci metafisiche sul fitto della folla.
Diurna cecità –
crudele avamposto di grazia inumana
e preciso velo di urbani usi su olocausti di sangue –,
il veleno enfia le vene del mondo,
e il seme di una domanda s’apre su nuovi digiuni
di sostanza e direzione
che già vergati non siano su pagine di linfe brunite.
Convergete sul viandante cieco, genti incarognite!
Brandite ciò che v’è a portata
e uccidete quell’occhio che vede,
maciullate quelle labbra che alla verità s’abbeverano
tumefate quelle ginocchia che già baciarono l’aspra terra,
strappate le orecchie che sentono, sopra ogni dire,
la voce degli angeli inabissati nel cielo muto e cadaverino.
Le insecchite ossa dei padri siano irrorate di sangue nuovo.
Sia compiuto l’annoso periplo temporale
nel rituale di un nuovo immolare,
ché la cruda tenebra delle loro voci non si disacerba
che nella successione di martirio
e lustrale deificazione del martire –
che è loro avito specchio esatto.
La terrà fu fertile per sette stagioni di pace e concordia.
Di Massimo Triolo
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