13 Agosto 2025
Nessuno sapeva da dove venisse. Nessuno l’aveva mai assunto.
Ma ogni estate, all’apertura della piscina comunale di Via dei Tigli, lui era già lì. Seduto all’alba sul bordo vasca, con un cappello di paglia, occhiali da sole neri e un particolare retino stretto tra le mani come fosse uno scettro sacro.
Non faceva il bagno. Non si sdraiava mai al sole. Non parlava con nessuno.
Salvava insetti.
Zanzare stremate, api barcollanti, coleotteri storditi, farfalle intrappolate nella pellicola dell’acqua come in un sogno viscoso. Lui le vedeva. Anche quelle che sembravano morte. Soprattutto quelle. Le raccoglieva con una grazia chirurgica, le appoggiava delicatamente sul bordo, poi soffiava su di loro finché non riprendevano fiato e volavano via — oppure, quando non volavano, le metteva in una piccola scatola di cartone piena di briciole e foglie umide, sotto l’ombrellone.
I bambini lo chiamavano Lo Strano.
Gli adulti lo chiamavano Il Guardiano, ma con tono ironico, come si dà un titolo nobile a un pazzo inoffensivo.
Qualcuno sussurrava che fosse stato un entomologo geniale che aveva avuto un esaurimento nervoso. Altri dicevano che stava cercando il modo di reincarnarsi in una libellula. Altri ancora giuravano che salvasse insetti per saldare un patto col cielo.
C’era una voce — solo una, ma inquietante — secondo cui un tempo era stato un serial killer di vespe.
Lui non diceva mai nulla.
Una volta, una bambina gli chiese: «Perché li salvi, se sono così piccoli e a nessuno importa?»
Lui si tolse gli occhiali da sole e la fissò. Aveva occhi di un azzurro slavato, come carta da zucchero lasciata al sole. Rispose: «Perché nel momento in cui stanno per affogare, non sanno più se sono piccoli o grandi. Solo che non vogliono morire.»
La bambina non capì, ma da quel giorno smise di schiacciare le formiche.
Ogni tanto, quando la piscina era vuota e il sole stava calando, qualcuno lo vedeva parlare da solo. Parlava con gli insetti. Raccontava storie, chiedeva perdono, forse pregava.
Una sera d’agosto, quando i bambini erano tornati a scuola e le foglie iniziavano già a ingiallire, non venne.
La piscina era stranamente silenziosa. Nessuna ape sulla superficie. Nessuna libellula. I pochi insetti che cadevano dentro, quella mattina, annegavano senza alcun testimone.
Sotto il suo ombrellone, però, qualcuno trovò un biglietto arrotolato, infilato nella scatola di cartone.
C’era scritto:
“Chi salva i piccoli, fa un rumore che l’universo sente più forte del boato delle guerre. Io ho solo voluto lasciare un’eco.”
Firmato: Nessuno
La mattina seguente, una donna si chinò sul bordo della piscina e vide una vespa boccheggiante, intrappolata tra due onde tiepide. Istintivamente, allungò una foglia per salvarla. Non lo aveva mai fatto prima. Non sapeva nemmeno perché lo stesse facendo.
Poi fu un ragazzo. Un uomo con la pancetta. Un’anziana con l’asciugamano pieno di fiori. Una madre col bambino. Ognuno, uno dopo l’altro, cominciò a guardare meglio. A vedere ciò che prima era invisibile, insignificante, molesto.
Gli insetti — esseri minuscoli, alieni e fragili — erano ancora lì, tremanti sul bordo della morte, in attesa di un gesto. E ora qualcuno rispondeva.
Non per superstizione. Non per eroismo. Ma perché, all’improvviso, avevano compreso.
Avevano compreso che anche gli insetti hanno un’anima. Che anche loro si dibattono, annaspano, e nella loro minuscola disperazione temono la fine, come noi. E nella loro minuscola felicità, vogliono vivere, come noi.
Quel giorno, il silenzio fu diverso. Nessuno parlava, ma tutti facevano qualcosa. Una foglia usata come zattera. Un dito gentile. Un sasso lasciato fuori dall’acqua come rifugio. Nessuno rideva più del guardiano della piscina.
Anzi, a modo loro, ognuno cominciò a diventare lui.
Da allora, ogni estate, alla piscina di Via dei Tigli, c’è sempre qualcuno con un piccolo retino o una tazzina di plastica. Nessuno viene più solo per il sole. Qualcuno dice che sotto il trampolino sia ancora nascosta la scatola di cartone. Altri dicono che ogni tanto, in controluce, si possa vedere una libellula restare immobile sull’acqua, come a vegliare.
Ma nessuno sa con certezza.
Solo una cosa è chiara: quando l’anima di un uomo è grande abbastanza da chinarsi sul più piccolo degli esseri… non muore mai davvero.
Di Stefano Duranti Poccetti
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