23 Luglio 2025
Ozzy stava morendo, da anni stava morendo, lentamente stava morendo. Ozzy è morto, ed è una notizia e non la è. Il Madman, il pazzo è andato. Lo sapeva benissimo e lo ha cantato per l'ultima vota a Birmingham quindici giorni prima appena, l'ultimo concerto come l'ultimo peccato, la morte che rifluisce nella nascita. L'ultima messa più patetica che empia, ma di un patetismo romantico come uno che la celebra seduto su un trono di nulla; e bisogna saperlo fare, e c'è dell'eroismo in quel consegnarsi all'ultimo rantolo con l'eleganza dell'agonia. Mai capito perché uno poi dovesse ridursi a una caricatura dell'orrore: a me pareva tutto sommato grottesco, disperato. “Una grande cazzata”, per dirla con Keith Richards, però con una dignità finale, da istrione che crepa in scena dopo tante cazzate evitabili, malanni maledetti, stentate convalescenze, concerti annunciati ma tour rinunciati, ammissioni di Parkinson, appelli ai fan, vecchio vampiro che ancora si alimentava del sangue del loro entusiasmo. Ozzy va a morire e lo sa e lo canta nell'unico modo che sa fare. Con la solita follia, con orgoglio smisurato e una classe che non va via.
Almeno è sparito in bellezza, con album pacchiani e desolati, capaci di farsi ricordare. Con quella romanza gotica in finale, Dead and Gone, che era meglio di mille libri su un mondo senza senso e senza pietà: “Un circo di pazzi detta le regole, che fine facciamo nessuno lo sa, troppa confusione e nessun esito in vista, una prigione di promesse sgorga dalle nostre menti”. Anche i mattoidi che mangiano colombe vive e sniffano formiche arrivano alla saggezza. Peccato solo dover tirar su la rete di un destino senza senso e in troppe direzioni, ma così è la vita della rockstar e così è la sua morte, che arriva prima, che lascia un morto scalciante e un concerto postumo. Patetico, tenero, orribile Ozzy con le unghie laccate e il solito ghigno ma ormai da vecchia gattara. E chissà quanto ci è voluto a prendere quello scatto ad un malato di Parkinson. Ma dentro, dentro c'è il mondo di Ozzy. Tanta roba, spesso sprecata, peggio, ridicola come in quella famigerata sitcom. Ma è tutto passato adesso. Ozzy muore e lo sa, ma muore a modo suo, alle sue condizioni, muore da pazzo. E la convinzione è tale da superare il patetismo: i suoi ultimi lavori sono l'autoepitaffio che nessuno avrebbe voluto ma che tutti aspettavano. Incisi tra indicibili fatiche - l'inferno in terra, quasi una espiazione – e insospettabilmente vibranti, ispirati, assurdi, commoventi, antichi e post moderni. Post tutto. Post Ozzy. Con dentro ballate assolate di sangue, lucide di lacrime, a voce spiegata per cantare, per gridare l'orgoglio di una vita tutta sbagliata, tutta sballata, ma che adesso, tirando su la rete, trova il senso di una ragione. Trova il suo ordine. Trova la via d'uscita in quella camera di contenimento, le pareti imbottite, nessuna maniglia da dentro, che è stata la vita di Ozzy. Così è la vita di una rockstar, che si riscatta quando finisce nell'ultimo battito d'ali. E' un chiedere scusa senza pentirsi, è l'ammissione di non poter essere altro, l'addio di chi addosso ha un mantello di tempo - e non può rinnegarlo.
Doveva farne un altro, l'ennesimo ultimo: non ha fatto in tempo, pronto, tutti i brani completati ma il produttore, il solito ubiquo Andrew Watt gli aveva detto: mettiti in fila. Non c'è rispetto per i vecchi diavoli.
Ozzy è stato il Madman, il fuori di testa, a volte imbarazzante, grottesco, caricaturale. Dalla voce epocale, speciale? Ma no, una voce nasale, senza grandi possibilità, diventata un marchio di fabbrica. C'era luce, in tutta quella oscurità. E c'era anche parecchia fuffa, ma sapersi elevare a paradigma è un'arte nell'arte, sia pure scontando tanta roba superflua. Mai capito il bisogno di andare oltre l'assurdo, l'esagerazione, ma se uno è fatto come è fatto, se non capisce che anche l'orrore può coprirsi di ridicolo, c'è poco da fare, poco da disperarsi. Intanto però ha gettato i semi di uno stile e per sempre quel modo pesante, opprimente, tronfio sarà Ozzy. Il blasfemo e la macchietta si confondono in un principe delle tenebre che perde i pezzi. Compatito dalle rockstar dell'Olimpo: ma lascia una eredità, un vuoto. Lascia l'ultimo hurrah di un pugile che vince l'ultimo incontro ma scende sul ring tremante, ammalato, scende per morire nello spogliatoio. Eppure non rinuncia a proclamare: io sono Ozzy, sono quello che sono sempre stato, e me ne vado così. A modo mio, alle mie regole: non saprei come altro fare, e tu goditi quel che resta di me, mentre mi preparo a sparire. Che strazio quell'ultimo concerto, e che meraviglia. Tremolante, straziante liturgia della resa, sconfinato orgoglio della morte che viene e vorresti lasciarla lì, in attesa sul palco, per sempre. A nutrirsi per l'ultima volta del sangue di chi c'è e urla. Così è la morte di una rockstar: passi la vita a irriderla, a scamparla, ma poi quella arriva un attimo prima, ti lascia vivo per un po', gioca con te così come tu hai giocato con lei e si riprende tutto. Ma ti rispetta. Rispetta il coraggio di sfidarla e ti lascia ancora il tempo per un ultimo agghiacciante meraviglioso commiato. E non puoi non sentirti qualcosa in pancia mentre la senti: è Ozzy che se ne va, capisci? Lo capisci? E svanisce in un vento d'archi desolati. Ma sì, che tanto non cambia niente. Ma sì, che quelli così sono dannati, non gli basta una preghiera in articulo mortis per salvarsi.
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