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Domenico Cara e l’inattuale necessità del sacro nella parola poetica, la sua voce come richiamo alle profondità insondate dell’essere

La singolarità di Cara emerge in quella sua posizione ontologica che supera la mera lirica, palesandosi come una forma di poesia teologica o metafisica, radicata nel silenzio della tradizione cristiana e al tempo stesso aperta a un dialogo universale con le grandi metafore del sacro

23 Giugno 2025

Domenico Cara e l’inattuale necessità del sacro nella parola poetica, la sua voce come richiamo alle profondità insondate dell’essere

Domenico Cara

«Chi conosce le cose senza nome,
chi dorme fra le radici, chi parla
coi venti, è ancora uomo?»

Domenico Cara, Il Silenzio della Vela

Viviamo tempi in cui la poesia sembra dissolta nell’aforisma, nella scrittura breve, nel sentimentalismo epidermico. È come se il linguaggio poetico si fosse ridotto ad un tremulo lampo in una notte che non concede più silenzi, scintilla consumata rapidamente dal vento impietoso dell’effimero. Eppure, accanto a questo dominio del fugace, sono esistite voci che non si piegarono, che resistettero con fierezza immota di antica quercia al vento dissolvente del presente. Tra queste, la voce di Domenico Cara (1929–2008) si leva come un richiamo alle profondità insondate dell’essere, come un’eco che non rimbalza fra le righe, ma vibra al di sotto della pagina, nel luogo riposto e sacro dove la parola non connota ma evoca, non comunica ma custodisce. Cara fu poeta, prosatore, saggista, animatore culturale; ma fu soprattutto un testimone del Lògos numinoso, colui che, come scrisse, «ha guardato in faccia la parola quando essa tace». Nato in Calabria, vissuto tra la provincia ed il centro, tra Roma e Milano, ma sempre a distanza dalle accademie, non per emarginazione, ma per scelta ontologica: una decisione che richiama il monito di René Char, che vedeva nella poesia un “atto di resistenza” ed un “atto di fede”. La sua poesia non era né confessionale né realistica: era sacrale. In un’epoca che confonde letteratura con cronaca e versi con forme diaristiche, Cara compì un gesto inaudito: rimettere il misterico al centro del dire, come sacerdote che erge l’altare dove si consumano i riti dell’invisibile. Nel vasto panorama della poesia novecentesca, dominato da correnti eterogenee e spesso contraddittorie, dal futurismo alla poesia ermetica, dal neorealismo alla poesia concreta, Domenico Cara si distingue come voce solitaria, un punto fermo di profondità metafisica in un tempo di parcellizzazione e smarrimento. Se da un lato il Novecento ha visto la parola poetica dispersa in mille rivoli spesso autoreferenziali, dall’altro Cara incarna una ricerca dell’assoluto, una volontà di riannodare il filo spezzato tra il logos ed il numen, tra l’uomo e il sacro, come l’araba fenice che risorge dalle sue stesse ceneri, portatrice di una luce che non consuma. Questa sua scelta lo pone in dialogo sobrio con figure cardine della poesia europea che, ciascuna a modo suo, hanno cercato di restituire alla parola poetica la sua carica ontologica e teologica. Si pensi a Rainer Maria Rilke, che nelle sue "Elegie duinesi" e nei "Sonetti a Orfeo" trasfigura il dolore e la condizione umana in un’esperienza mistica, dove la parola diviene il tramite per afferrare l’ineffabile, la presenza invisibile che sottende ogni realtà. Rilke scriveva: «Forse tutto ciò che noi chiamiamo vita non è altro che un'ombra che passa», e Cara sembra raccogliere questa eredità, intrecciando il proprio canto con ombra e luce di un mistero insondabile. Come Rilke, anche Cara considera la poesia non come mera espressione di sé, ma come apostolato del silenzio, luogo sacro dove il poeta diviene veggente, custode di un mistero che sfugge alla razionalità. Tuttavia, se Rilke si muove spesso in un orizzonte di struggimento lirico e di nostalgico slancio verso l’assoluto, Cara si caratterizza per una tensione più austera, quasi monastica, dove la parola si fa più rarefatta, e il gesto poetico si configura come un atto di penitenza e adorazione: un altare eretto nel deserto di un’anima, dove ogni verso è preghiera sussurrata. In parallelo, si può evocare la vicinanza ideale con la poesia di Paul Celan, anch’egli testimone del tragico e del sacro, capace di piegare il linguaggio fino a farne residuo, traccia di un orizzonte diruto ma anche rinato. Come Celan, Cara è consapevole della precarietà della parola, del suo silenzio inesorabile, ma proprio per questo ne fa il terreno su cui coltivare una resistenza radicale, un’esperienza del limite che spalanca spazi di luce in mezzo all’ombra, simile a un funambolo che cammina sul filo sottile che separa la morte dalla vita, il detto dal non detto.

Tuttavia, la singolarità di Cara emerge in quella sua posizione ontologica che supera la mera lirica, palesandosi come una forma di poesia teologica o metafisica, radicata nel silenzio della tradizione cristiana e al tempo stesso aperta a un dialogo universale con le grandi metafore del sacro. In questo senso, la sua poetica si fa teurgia verbale, simile a rito antico che tenta di riallacciare la parola umana al divino, di farla diventare veicolo di un’esperienza trascendente, un ponte sospeso tra cielo e terra. Questa qualità lo rende affine anche a figure come Thomas Traherne o William Blake, poeti visionari che concepirono la poesia come un atto di rivelazione e di redenzione, capaci di penetrare la realtà invisibile dietro le cose visibili, di cogliere il divino nascosto nel quotidiano. Blake, ad esempio, scriveva: «La strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza», e nell’opera di Cara questa strada è un itinerario interiore che attraversa il deserto dell’invisibile per approdare a un’oasi di luce. Domenico Cara, dunque, si colloca in quella minoranza eletta di poeti che non si accontentano della parola come strumento di mera comunicazione o di narrazione autobiografica, ma la elevano a luogo sacrale e ricco di mistero, custode di un silenzio fecondo, testimone di un ordine originario e inestinguibile. In tempi in cui la poesia rischia di diventare fondale o riflesso fugace, egli ci ricorda che la vera poesia è un’arte della soglia, un passaggio verso ciò che è oltre la parola, oltre il tempo, oltre la caducità. La sua poesia è come un abisso silenzioso, un pozzo senza fondo in cui la parola si specchia e si moltiplica, creando un orizzonte di senso che trascende la superficie. Domenico Cara non si lascia inserire nelle categorie ideologiche convenzionali che la modernità politica ha imposto con rigore manicheo; egli non fu un autore “di destra” in senso partitico o militante, eppure il suo pensiero e la sua poesia si sviluppano lungo quella linea verticale, oggi sempre più rarefatta e marginalizzata, che la modernità ha tragicamente abbandonato, sacrificando la profondità e il mistero sul sigillo e l’impronta dell’immanenza tecnica e del relativismo storico. Questa “linea verticale” è il filo d’Arianna che conduce dall’umano all’oltreumano, dal contingente al trascendente, dal divenire all’Essere: un percorso che la modernità ha reciso con il suo nichilismo funzionale, ma che Cara, con la sua ars poetica, si adopera a rinnovare in termini di resistenza silenziosa e fede inestinguibile. Il suo universo poetico è un ambito popolato da archetipi, figure mitiche e enigmi che non si limitano a rimandare ad un passato nostalgico o ad un repertorio erudito, ma vivono come presenze calate nel problema dell’essere, come “carne del mondo”, per usare un’espressione che potrebbe richiamare l’incarnazione teologica o la materialità sacra delle cose secondo il pensiero di Simone Weil. Nel suo linguaggio, il mito non è un esornativo elemento stilistico o un richiamo folklorico, ma un medium vitale, una sostanza che permette di penetrare la realtà nella sua dimensione più profonda, sotterranea e inafferrabile. La poesia di Cara si delinea allora come rivelazione, non come mera mimesi della realtà o espressione di stati d’animo personali e intimi. Essa diviene una sorta di liturgia laica, un rito della parola che non si confina a raccontare, ma che si fa presenza, un sacramento profano capace di annunciare l’invisibile. Il verso poetico diviene delubro, il linguaggio diventa profferta: non mera comunicazione, ma esperienza epifanica, apertura a ciò che trascende ogni linguaggio ordinario. Come affermava lui stesso: «Ho guardato in faccia la parola quando essa tace», evocando l’idea della parola come silenzio ferace, liminare tra vuoto e pienezza. In questa dimensione, Cara si situa in una linea spirituale di rara intensità che attraversa la poesia europea moderna e contemporanea: una linea che va da Friedrich Hölderlin, il poeta che vedeva nel linguaggio poetico un ponte tra gli dèi e l’uomo, capace di riattivare un cosmo perduto. Nel suo “Patmos”, scrive: «Dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva» — un verso che ci ricorda come il linguaggio poetico custodisca un’energia salvifica proprio là dove la crisi è più profonda. V’è poi a riferimento Rainer Maria Rilke, maestro della parola “trasfigurante”, che vede nella poesia, come “amica del nulla”, l’occasione di un incontro con l’Essere, come testimonia il celebre verso: «Là dove non puoi arrivare / lassù la parola vola» (da Duino Elegien). Rilke, come Cara, fa della poesia un sacramento del silenzio e della presenza che trascende il senso immediato. Proseguendo, Carlo Campana, poeta della veggenza e dell’immaginario profondo, e Giuseppe Zanzotto, il cui paesaggio veneto diventa luogo mitico, testimoniano con le loro parole la vocazione della poesia a essere depositaria di un orizzonte perduto, come scrive Zanzotto in Il galateo in bosco: «Non si scrive per sé stessi, ma per un tempo che verrà». Il testimone più struggente e potente di questa linea è forse Paul Celan, la cui poesia è un monumento alla parola come residuo sacro dopo la catastrofe. In Todesfuge, la parola si fa memoria e lutto, eppure anche speranza, in una tensione dialettica di vita e morte: «La tua capra si abbevera alle stelle. / Il tuo oro è polvere del cielo». Infine, Cristina Campo, la cui poesia e prosa celebrano il femminile come limine e mistero, ci mostra come la parola possa essere un “velo” che rivela senza svelare, custode di un silenzio sacro: «È nel limite, nel velo, che si cela il segreto della presenza». Questi autori non concepiscono la poesia come mero veicolo di contenuti ideologici, storici o psicologici, bensì come soglia del sacro: un varco attraverso il quale si affaccia l’Invisibile, la Verità che non può essere detta direttamente, ma solo indicata e sfiorata con umiltà e tremore. La poesia diventa così l’ultima trincea contro l’appiattimento della storia, il dominio dell’evenemenziale, un luogo dove il tempo si sospende e la parola ritorna a essere il “fiat lux” originario: atto creativo e salvifico. Cara lo sintetizza in un aforisma che potrebbe divenire un vero e proprio emblema per chiunque senta il peso del nostro tempo disincantato: «La poesia è ciò che resta, quando la storia si è ritratta». In questa frase si racchiude tutta la sua visione: quando la narrazione storica si fa sterile e nuda, quando il tempo si riduce a pura tecnica e funzionalità, la poesia rimane come residuo sacro, come presenza silenziosa e resistente che non si lascia inghiottire dalla voragine del presente. Ebbene, oggi che la storia si mostra nel suo volto più crudo, tecnico e disumanizzato, un volto privo di mistero, annegato nell’algoritmo e nell’immediato profitto, è più che mai urgente tornare a questi testimoni dell’invisibile, a queste voci verticali che ci chiamano a riscoprire il senso profondo della parola e del mondo, a riaccendere quella fiamma che illumina il buio di una modernità che rischia di perdere sé stessa. Domenico Cara fu profondamente legato alla sua terra d’origine, la Calabria, eppure mai ridotto a semplice cantore di un regionalismo di maniera o a cronista delle consuetudini locali. La sua Calabria si configura come un paesaggio mitologico, non antropologico o etnografico; essa non si manifesta mai come mero sfondo geografico o scenografia folklorica, bensì come un luogo interiore, un paesaggio dell’anima dove il tempo si stratifica e si fa fluido, e le presenze si fanno ombre e archetipi indistinti. Come affermava René Guénon nella sua riflessione sulla Tradizione perenne, «il luogo autentico è quello dove il visibile si apre sull’invisibile», e nella poesia di Cara la Calabria è esattamente questo confine liminare tra la terra e il cielo, tra il senso e il mistero. Questa terra calabrese che Cara evoca è, in effetti, una teofania, un’apparizione del divino nel silenzio primordiale. Essa si sottrae alla semplice percezione sensibile per innalzarsi a luogo sacro e rivelatore, simile alle “sacre selve” della tradizione greca o ai boschi misterici di Hölderlin, che scriveva: «Ma chi vola più alto sente l’aria più fresca, più pura». Come scrisse Georges Bataille, «la vera patria dell’uomo è il silenzio che abita nelle cose», e questo silenzio è quello della sua Calabria, un silenzio ricco di radici, di storie mai narrate, di presenze che sfuggono alla presa logica, ma parlano con la voce antica della terra. La raccolta Il silenzio della vela è esempio paradigmatico di questa concezione poetica. Nei suoi versi la natura si carica di echi precristiani, pagani, arcaici; un mondo in cui «le pietre parlano» e «le ombre hanno corpo», per usare un’immagine potente che richiama i versi di Seferis, secondo cui «la memoria è un dio che torna sempre». La Calabria di Cara si situa in una linea che, da Seferis alla lirica di Mario Luzi, eleva il luogo natio a palinsesto dell’anima, ove ogni pietra e ogni crepa è depositaria di memorie ancestrali e misteri che superano la cronaca locale. Luzi stesso, riflettendo sulla sua terra, scriveva: «Tutto è profondo e misterioso come un silenzio antico». Questa profondità è intrisa di un “silenzio” che è parola non detta, presenza oltre il visibile, un invito alla contemplazione. Tuttavia, è importante sottolineare che in questa visione non v’è traccia alcuna di folklorismo o di pittoresco. La Calabria di Cara non è mera “rappresentazione” di una cultura popolare o di un costume, ma un archetipo vivente, una matrice originaria, l’incubatrice di un dramma esistenziale universale. Come per la Grecia di Seferis, che nell’archeologia e nei miti riconosceva l’eco di un’origine irriducibile, egli scriveva: «Il passato è la mia patria», o per la campagna senese di Luzi, luogo di confronto continuo tra umano e divino, la Calabria in Cara è il teatro in cui si svolge la tragedia dell’uomo contemporaneo: l’esilio dall’Essere, la perdita della parola originaria, della radice che dà senso al cammino. Non è, dunque, un caso se la sua poesia insiste sull’idea di un esodo, di una ferita che attraversa la soglia della modernità. Questa ferita è quella del linguaggio, della memoria e del sacro perduti. Cara ne fa eco con le parole di Paul Celan, che nel suo celebre aforisma diceva: «La lingua è il padre e la madre della nostra sorte». Ma se la lingua si rompe, se la “parola originaria” si spezza, allora l’uomo si trova smarrito in un paesaggio interiore di desolazione e assenza. Nelle parole di Hölderlin, «dove c’era il pericolo, cresce anche ciò che salva», e in questa salvazione la terra di Cara diventa simbolo di un anelito più profondo, di una radice nascosta. La Calabria caraiana, in quanto spazio sacro e di confine, è dunque il luogo simbolico e reale dove si concentra la dialettica dell’origine e della perdita, del ritorno e dell’esilio, che permea la sua intera opera. Essa è, come la «terra promessa» evocata da Rilke, un’“archeologia del cielo”, un luogo dove il tempo non scorre più linearmente, ma si piega su sé stesso, chiamando il poeta ad essere custode di un segreto antico, vigile sul confine tra il visibile e l’invisibile. Rainer Maria Rilke nel Duino Elegien ammoniva: «Chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire, non ci parla di nessun passato ma del presente, e non del presente come semplice oggi, ma del presente che si estende in eterno». E’, così, questo presente eterno, uno spazio sacro in cui il poeta si fa testimone della profondità, guardiano del silenzio originario e delle sue molteplici risonanze. Come scriveva Simone Weil, «la radice di ogni bellezza è la verità», e nel suo legame con la Calabria Cara testimonia questa verità come impronta ultima dell’espressione poetica. Non un semplice ritorno al luogo natio, ma un viaggio nell’archetipo e nella trascendenza, un invito a ritrovare, nel cuore del silenzio e dell’ombra, la parola primordiale che si fa luce, memoria e promessa. Cara non fu soltanto poeta nel senso tradizionale del termine, né semplicemente artefice di versi, ma oracolo sommesso di una sapienza altra, viandante del pensiero condensato, forgiatore di parole che lampeggiano come grappoli di bellezza e verità. Accanto alla sua produzione lirica, egli coltivò l’arte, più antica della retorica e più austera della logica, dell’aforisma, della prosa brevissima, della riflessione fulminante: forme letterarie liminari, che si pongono tra il detto e il taciuto, tra il rivelato e il custodito. In questi testi, molti dei quali pubblicati postumi, si manifesta con rara evidenza un pensiero radicalmente inattuale, nel senso più acuto e nietzschiano del termine: un pensiero che diserta le mode dell’intellettualismo leggero, e si orienta invece verso le coordinate ultime dell’esistenza, l’Essere e la Morte, la Bellezza ed il Nulla, come se fossero quattro assi cardinali d’antica geografia interiore. In lui, l'aforisma non ha la levità del capriccio né la brillantezza dell’arguzia, ma la densità del nucleo stellare, la gravità della parola che è passata attraverso il fuoco dell’esperienza e il gelo del pensiero. Si potrebbe dire che Cara pratichi una forma di gnomica lirica, affine a quella dei sapienti presocratici, in cui ogni parola è scaglia di fuoco, ogni immagine un abisso coagulato in segno. In lui, il pensiero non consola, non offre rifugi né certezze, ma scava, come una talpa diabolica e sacra, nei cunicoli del senso. È un pensiero minerale, più vicino alle rocce che alle idee, pensiero che non fiorisce ma sedimenta, lasciando sulle pagine non l’eco dell’opinione, ma il peso dell’enigma. La sua è una sapienza che sa di cenere e luce, come quella evocata da Simone Weil quando scriveva: «Solo il pensiero che scende in profondità ha il potere di redimere». E, come in Edmond Jabès, la parola si spezza di fronte al divino come la tavola delle leggi sul Sinai: «Il libro è la tomba del Dio, scrive Jabès, «e anche la sua resurrezione». In Cara, la scrittura è ferita e risurrezione, eco del sacro che si è ritratto, eppure insiste, come una brace sotto la cenere. Similmente a Maurice Blanchot, egli concepisce la letteratura non come una forma d’espressione, ma come il luogo di una prova estrema, dove la parola affronta l’impossibilità del dire. «Scrivere,» afferma Blanchot, «significa entrare nella notte del linguaggio». Cara conosce questa notte. La abita. Ma non la teme. Sa che solo nella penombra nasce la verità, come in quelle chiese romaniche dove l’oro dei mosaici brilla appena, ma eternamente. In tal senso, il pensiero di Cara si rivela non sistematico ma iniziatico, non argomentativo, ma simbolico, simile alle iscrizioni su lapidi sepolcrali o ai graffiti sulle pareti delle grotte sacre. Il suo pensiero non si propone come una mappa, ma come una soglia. Non indica vie, ma rivela abissi. Non fornisce strumenti per vivere, ma domande per morire. È un pensiero da camera funeraria e da cappella votiva, dove ogni frase è insieme offerta e testamento. Come in René Char, l’aforisma in Cara è un atomo lirico di fuoco e di sapienza, il frammento di una totalità perduta ma non dimenticata: «Ciò che viene al mondo per non disturbare non merita né riguardo né pazienza», scrive Char. Cara ne condivide la visione del poeta come sentinella dell’invisibile, come custode di una tacita fucina di luce. Le sue frasi, brevi e affilate, sono trappole per l’assoluto, pozzi artesiani di significato: si leggono in un lampo, ma continuano a lavorare nell’anima come sale nella carne. Così, ogni suo testo diventa una fenditura nell’ovvietà, un atto di resistenza metafisica in un’epoca che idolatra la trasparenza e aborrisce il mistero. Il suo è un pensiero che non si concede, ma si cela e si mostra a un tempo, come un arcano o un’icona velata. Non a caso, Cara scriveva: «La verità non si mostra a chi la chiede: si mostra a chi tace». Le sue prose sono lampi oracolari: «Ogni parola vera è una ferita nella superficie del mondo»; «Il tempo non passa, siamo noi a scivolare fuori dal tempo»; «L’uomo moderno ha sostituito il sacro con la funzionalità, e si stupisce della propria infelicità». Si potrebbe raccogliere un’intera teologia negativa da queste riflessioni sparse, e ne verrebbe fuori un piccolo capolavoro: una filosofia poetica del deserto. Nel silenzio che circonda l’opera di Domenico Cara, un silenzio non accidentale, ma quasi liturgico, si cela qualcosa di scandaloso e insieme rivelatorio, come lo è sempre ogni forma di alterità radicale in un mondo che ha fatto dell’esibizione la sua liturgia, della visibilità il suo sacramento, della produzione il suo dogma. In un’epoca in cui si scrive per esistere, Cara ha scelto di non esserci o, meglio, di esserci altrove, come una figura nell’icona bizantina, che guarda ma non ci appartiene, che chiama ma non urla. La nostra civiltà è quella dell’accelerazione centrifuga, del dato che scorre e si consuma, della parola che vale solo se condivisa, monetizzata, applaudita. Cara ha scelto invece l’ombra portante, il tempo lento dei monaci miniatori, la sottrazione come stile di esistenza. Come Simone Weil, che cercava un’«attenzione pura» liberata da ogni egocentrismo, egli ha scritto per pochi, o forse per nessuno, perché la sua parola non cerca destinatari, ma risonanze. Parla non al soggetto, ma all’inconoscibile che in noi si nasconde, a ciò che in noi non è di nessuno, come avrebbe detto Rilke, all’angelo silenzioso che custodisce il vuoto d’origine. In questo gesto, che è insieme poietico ed etico, sta l’interrogazione più scomoda e più nobile che si possa oggi formulare, una domanda che suona quasi blasfema nella sua inattualità: può esistere ancora una letteratura che non serva a nulla, se non ad elevare? In un mondo che chiede alla scrittura di intrattenere, spiegare, commuovere, educare, vendere, Cara osa scrivere per elevare, ovvero per portare l’anima fuori da sé, verso il sé più profondo, in quell’atto di espropriazione che è proprio di ogni vera esperienza estetica, e, in ultima analisi, mistica. In un tempo in cui la parola è inflazionata come una moneta svalutata, e la poesia è ridotta a genere di consumo emotivo, a calligrafia dei sentimenti immediati, la voce di Domenico Cara ci riporta alla verità arcaica della parola come potere. Ma non il potere volgare della propaganda, della persuasione o della retorica, bensì il potere originario della parola che separa il giorno dalla notte, che fonda il mondo e lo trattiene dal nulla. In lui, il Lògos non è strumento, ma miracolo e rischio: «la parola — scriveva — è un varco più che un veicolo». Questo potere sottile, silenzioso, è affine al potere del Verbum johanneo, che non convince ma crea; non spiega, ma mette in moto l’Essere. È una parola che non grida e non persuade, ma apre, come una soglia su un giardino segreto, come un taglio nella tela della realtà quotidiana, da cui filtra una luce che non appartiene a questo mondo, e che tuttavia lo trasfigura. Cara ci obbliga, insomma, a pensare che la poesia non si giustifica, non si applica, non si utilizza. Essa è, come un fiore che sboccia in mezzo al deserto, come una stella che brilla per nessuno, come un sigillo inciso nella notte. Nel suo rifiuto dell’utile, del funzionale, del misurabile, risiede la sua assoluta necessità. Perché solo ciò che non serve, salva. Come scrive René Char, caro anch’egli a Cara: «La poesia è il nostro deserto: da essa ci si allontana per meglio avvicinarla». Allora forse è proprio dal margine, dall’invisibilità, dal silenzio in cui l’opera di Cara è immersa, che si leva, come un mormorio sacro nel cuore del bosco, l’unica voce che ancora può salvare la parola dalla sua dissipazione. E con essa, anche noi. Non è mai troppo tardi per iniziare un culto. E a dire il vero, ciò che vale davvero non conosce né il tardi né il presto, ma dimora in quel tempo verticale e immobile che i Greci chiamavano aiòn, l’eterno presente dell’anima. Domenico Cara non ha bisogno di canonizzazioni postume, né di celebrazioni istituzionali che lo adulterebberoo: ha bisogno di essere riascoltato, come si riascolta un oracolo pronunciato in un’epoca che non sapeva ancora di avere bisogno della sua voce. Le sue opere, disseminate come reliquie nel deserto editoriale, racchiuse in edizioni scomparse, manoscritti, carte sparse come foglie d’autunno in una biblioteca metafisica, non dovrebbero essere semplicemente ripubblicate, ma ritrovate, risvegliate, rivelate, come si fa con una preghiera smarrita o un nome sacro scolpito sul bordo di un tempio ormai sepolto. Non si tratta di un compito filologico, ma soteriologico: non per erudizione, ma per salvezza. Non per compilare un catalogo, ma per guarire una ferita invisibile che attraversa il cuore stesso della nostra cultura. Perché sì, c’è ancora, e ci sarà sempre, come un resto messianico, come un punto omega di resistenza interiore, chi cerca nella parola poetica non un ornamento, non un trastullo o una variazione sentimentale, ma una prova. Una soglia. Un esame dell’anima. Un modo per stare nel mondo senza appartenervi. E Cara fu uno di quei pochissimi che la prova l’hanno superata, come un cavaliere che attraversa il bosco oscuro senza lasciare impronte, come un veggente che ha parlato con la Parola quando taceva, come un monaco laico che ha portato sulle spalle, come una croce e come una lira, il mistero del dire e del tacere. E ciò che ci ha lasciato non è solo fatto di parole, benché quali parole!, ma di silenzi che fanno tremare, come il silenzio che precede una rivelazione o segue un incontro divino. Silenzio come varco del sacro, come lo spazio bianco intorno ai versi di Paul Celan, come la pausa in cui la musica si sospende per diventare preghiera. Quel silenzio in cui, diceva Cristina Campo, «tutto ciò che non ha prezzo rivela il suo valore». Nell’opera di Cara sopravvive, dunque, l’ultimo soffio di un’epoca che sapeva ancora inginocchiarsi davanti alla Parola. Un’epoca che aveva dimenticato tutto, ma non il tremore. E tremare davanti alla parola è forse l’unico modo di onorarla. Che sia giunto il tempo di riaprire i suoi libri, come si spalanca un tabernacolo? Che sia giunta l’ora di celebrare il culto segreto di una voce che ha camminato tra noi come un angelo senza nome, come un rabdomante dell’Essere, come un sacerdote senza tempio? Sì. È tempo. È sempre tempo di tornare a ciò che salva.

Di Massimo Triolo e Giusy Capone

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