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INTERVISTA - Guido Chiesa racconta il percorso di una donna verso la verità

Il film ha vinto il premio per il miglior film del concorso "Per il Cinema Italiano" del Bif&st 2025

14 Giugno 2025

Guido Chiesa

Giudo Chiesa

IGDI ha intervistato in esclusiva a Padova Guido Chiesa, il suo film Per Amore Di Una Donna esce in sala dopo il successo ottenuto a Bari  

Trama

Anni ’70. Esther, un’inquieta quarantenne americana, alla morte della madre riceve una lettera: deve trovare una donna vissuta negli anni ’30 in Palestina – all’epoca sotto mandato britannico – che nasconde un segreto sulla sua vita. Arrivata in Israele, Esther è aiutata nella sua ricerca da Zayde, un professore dal passato ingombrante. Anni ’30. Un villaggio di coloni, l’atmosfera di un mondo nuovo. Il contadino Moshe, rimasto vedovo con due bambini, chiama a dargli una mano una giovane donna, Yehudit, che sconvolge la sua vita e quella di altri due uomini, il sognatore Yaakov e il commerciante Globerman. Intrecciando i fili che legano passato e presente, Esther e Zayde scopriranno una sorprendente verità sulle proprie vite.

D: Com’è stato lavorare con una troupe internazionale, location internazionali?

R: Il film è più italiano di quel che sembra, nel senso che noi abbiamo fatto i sopralluoghi in Israele con l’ipotesi da un lato di girare la e dall’altro di andare a vedere quel che era rimasto dei luoghi evocati nel romanzo di Meir Shalev che è l’origine del film. Dico origine perché poi nel corso del lavoro sulla sceneggiatura abbiamo “tradito” il romanzo, nel senso che abbiamo utilizzato la storia del romanzo che ora è contenuta da un’altra storia. Quella degli anni ’70 non esiste nel romanzo, esiste solo il personaggio della bambina che viene rapita. Ci siamo immaginati che cosa sarebbe potuto succedere se questa bambina fosse costretta a ritornare in quei luoghi. Il viaggio che abbiamo fatto in Israele ci è servito come studio di fattibilità per le riprese in loco, ma soprattutto per noi (Nicoletta Micheli ed io che abbiamo scritto e ideato il film). Volevamo vedere e capire questi luoghi, erano anni che oramai facevamo ricerche, dal momento in cui ce lo avevano chiesto i produttori, però non avevamo ancora un’idea diretta.

La prima cosa che abbiamo capito è che il film non si poteva girare lì, perché i luoghi erano totalmente cambiati, i kibbutz sono oggi dei luoghi di villeggiatura o delle aree residenziali molto gradevoli, che non hanno più nulla di quello che era il kibbutz 80/100 anni fa. Si è persa la dimensione contadina, se c’è è una versione molto moderna e tecnologica; in secondo luogo ci è servito molto a capire quanto ancora è importante, almeno per una arte di Israele, la cultura originaria di quelli che noi chiamiamo i “padri fondatori”, che poi sarebbero quei giovani che da fine ‘800 emigravano in quello che inizialmente era l’Impero ottomano che poi diventerà il protettorato britannico sulla Palestina. Capire quanto era ancora importante, capire quanto la loro eredità è ancora fondativa almeno per una parte degli israeliani. Abbiamo girato la maggior parte del film in Sicilia, questo perché abbiamo cercato dei luoghi in Italia che potessero essere vicini dal punto di vista architettonico a come venivano costruite queste comunità rurali: la cosa più vicina in Italia erano i villaggi della riforma agraria, quella fatta la fascismo e poi dalla democrazia cristiana negli anni ’50. Siamo finiti, infatti, in un villaggio molto ben tenuto in Sicilia, vicino ad Alcamo: il panorama circostante e il territorio non erano molto distanti da quello che era la Galilea degli anni ’20/’30. Abbiamo girato, dunque, con una troupe i cui capireparto erano italiani in Sicilia, ed una settimana in Israele con una seconda troupe che si è affiancata. Il cast è internazionale, sono attori di una decina di nazionalità, principalmente dei paesi dell’Est. Questo perché pur non essendo ebrei volevamo attori che conoscessero antropologicamente com’era la vita dei contadini rumeni, polacchi, russi, ucraini e via dicendo. I protagonisti, alla fine, sono due israeliani anche se Mili Avital abita ormai in America da più di 30 anni, una rumena, un ucraino, un tedesco e un bosniaco. Di attori italiani ce n’è solamente uno, il resto provengono da Russia, Romania, Austria, Portogallo…volevamo che la maggioranza conoscesse la realtà rurale dei paesi dell’est. Abbiamo poi deciso di girarlo in inglese, perché l’alternativa (che avremmo preferito) era quella di girarlo tutto in Yiddish, perché questi coloni parlavano quella lingua, non avendone una comune, questo dialetto ebraico tedesco/polacco. Per poterlo usare, però, bisognava: aver finito prima il casting molto tempo prima, in secondo luogo dovevano imparare le battute a memoria e non potevano cambiarle, perché non sapevano cosa dicevano. Alla fine abbiamo optato per l’inglese, così almeno parlavano una lingua che gli avrebbe permesso di improvvisare e cambiare battuta. Una cosa che non abbiamo voluto cambiare era il fatto che ognuno parlasse con il proprio accento, nessuno parla perfettamente l’inglese. È stata una bella esperienza, molto artigianale, come lo era un po’ il nostro cinema, sempre molto basato sulla capacità artigianale, se vogliamo di “inventiva”, meno industriale di altri paesi e più capace di inventarsi delle soluzioni: questo spirito è stato molto presente nel film, è stato molto avventuroso, affascinante (40 minuti andata e 40 minuti ritorno per arrivare nella campagna dove filmavamo), alla merce delle condizioni atmosferiche…non avevamo il controllo, dovevamo essere duttili e saper improvvisare.

D: Qual è stata la differenza rispetto a un tipico progetto italiano?

R: Una differenza fondamentale è stata che con gli attori ci siamo trovati molto bene: tutti sono venuti per adesione al progetto, a tutti piaceva davvero molto, partendo dalla sceneggiatura. Hanno dimostrato una professionalità e un entusiasmo che non sempre si trovano negli attori italiani. Sono stati tutti molto umili e molto disponibili. La cosa principale è stata che tutti, la troupe, la produzione e via dicendo, sono stati abili nel gestire le emergenze:. Ne abbiamo avute parecchie: abbiamo girato le scene a Gerusalemme in un luogo molto complicato (la scena in cui lei esce dall’hotel e lui la sta aspettando con la macchina, fatta in uno dei luoghi più frequentati di tutta Gerusalemme), tanto che la produzione israeliana due giorni prima ci ha detto che forse non sarebbero riusciti a darci il luogo. Alla fine siamo arrivati ad un compromesso, poiché ci avevano avvisato che sarebbe stato difficile fermare i fiotti che turisti che arrivavano di volta in volta, alla fine tutto è andato molto bene: ogni tanto arrivavano gruppi di ebrei ortodossi per vedere la tomba di Davide (esattamente il punto da dove lei esce dall’albergo), a volte arrivano italiani o sudamericani perché c’era il cenacolo dell’ultima cena, un viavai continuo. Stessa cosa in Sicilia: dal romanzo mi portavo dietro l’idea della costante presenza del fango, per cui da un certo punto ho detto alla scenografia: “Bagnate, bagnate, bagnate!”, solo che il fango non si formava. A un ceto punto è piovuto in maniera fortissima per due giorni: fatti i 40 minuti di macchina, giunti alla casa del film all’indomani del diluvio, abbiamo trovato tutto ricoperto di fango e da lì non se n’è più andato. Io son contento di questa cosa, nonostante abbia creato numerosi problemi e esasperato la troupe, ce l’abbiamo fatta.

D: Questione del bambino con i 3 padri. Provocatoria, politica, riflette un po’ i tempi?

R: È necessario sottolineare delle cose prima: quella parte lì, gli anni ’30, è il romanzo di Meir Shalev; il film lo abbiamo girato durante la fine del 2022 e l’inizio 2023, pronto a settembre 2023. Prima il massacro del 7 ottobre e poi l’inizio degli attacchi su Gaza, hanno fatto si che i festival distributori non volessero il film e quindi è rimasto fermo. La Fandango poi ha visto il film, gli è piaciuto, l’ha mandato al festival di Bari, vincendolo e per questo si è cercato di farlo uscire il più in fretta possibile. Non erano voluti eventuali riferimenti a quello che sta accadendo adesso, perché non lo potevamo sapere. Certo, ogni storia ambientata in Israele ha inevitabilmente a che fare con la politica. La storia di quel paese è così profondamente intrisa di eventi che è inevitabile. Io l’ho sempre pensata come una sorta di metafora di quello che Israele voleva essere: questi giovani europei, ebrei, che dalla fine ‘800 vanno a vivere in queste terre incolte e abbandonate, erano colti e relativamente benestanti, e avevano il progetto di fondare una nuova società. Questo progetto è durato fino alla Seconda guerra mondiale: ciò che ha cambiato tutto fu la Shoah, facendo sì che da 1 milione di persone, nel giro di due anni, diventassero 5 milioni a causa di una emigrazione di massa. Una metafora di quello che sarebbe potuto essere e poi non è stato, perché si porta dietro dei traumi irrisolti. Rispetto ai 3 padri faccio notare questo: si trova nel romanzo questa cosa e anche lì, sì, lui viene cresciuto da tre padri e una madre molto forte. Questi 3 sopperiscono in gran parte alle sue necessità materiali e anche affettive, ma lui bambino non ne può più di avere tre padri, ne vuole uno solo. Quando lei sceglie quello che lei sposerà, il ragazzino è ben contento.Non so se è una grande idea avere due padri, due madri o quant’altro, credo che gli esseri umani abbiano bisogno della differenza, perché questa ci aiuta ad evolverci: quando le cose sono troppo simili manca una parte. Tutti noi abbiamo una parte maschile e una femminile e dobbiamo tutti coltivare entrambe, uomini e donne.

D: Questo film può essere un’idea per continuare a lavorare all’estero?

R: Non mi dispiacerebbe ma credo, purtroppo, che per quella situazione che si è venuta a creare, sia difficile che un film del genere possa essere un trampolino. È stato, però, comprato in America, perciò vediamo che succederà.Mi piacerebbe lavorare ovunque ci siano storie interessanti e che parlino dell’essere umano, purché ci si ritrovi sempre in qualcosa che rifletta, ragioni, metta in circolo le grandi domande che l’essere umano si pone. Questa storia, sebbene scritta da un autore israeliano, poneva delle questioni interessanti su che cos’è l’amore. Domande interessanti che ci riguardano tutti. Oshima, Kurosawa…riuscivano a parlarci perché affrontavano temi universali, non legati solamente alla loro cultura.

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