07 Giugno 2025
fonte: pixabay
1 – Io non esisto
Tecnologia, trauma e ascolto
Molti, oggi, si sentono disconnessi dentro, anche se fuori sembrano perfettamente integrati nel sistema. La società, così come le piattaforme digitali che la riflettono e la amplificano, stanno perdendo qualcosa di fondamentale: la capacità di ascoltare l’umano. Non le sue performance, non i suoi titoli, ma il suo essere fragile, complesso.
Narrazione, teoria psicologica e analisi sociale cercano parole per nominare quest’esclusione sistematica. Fermatevi ad ascoltare, sentire. E forse — finalmente — esistere.
Troppa gente ancora bloccata non esiste oppure è nata e vissuta senza esistere veramente, senza essere riconosciuta e ascoltata! Per questo motivo è nata la rete, non per agevolare le comunicazioni ma per offrire una parvenza di riconoscimento.
Ciò che non viene compreso a fondo e analizzato, diventa oggetto o soggetto di dinamiche di rimozione, esclusione, emarginazione; e quando queste dinamiche preferiscono rimanere nascoste agiscono subdolamente portando i singoli ad autoescludersi per poi identificarli come soggetti bisognosi di aiuto o problematici.
È stato hackerato il nostro sistema cognitivo e inzuppato di terrore; anche le famiglie con le migliori intenzioni sono state private degli strumenti essenziali e necessari per poter dare amore, comprensione, ascolto, empatia e queste softskills di base gratuite sono state bypassate dall’economia, dalla rete. Hardware e software si stanno sostituendo all’uomo portando con sé i suoi stessi limiti, paure e pregiudizi.
Dobbiamo avere consapevolezza di questi meccanismi e fare in modo che la politica li comprenda, altrimenti fino ad oggi il peggiore dei mali, l’olocausto, la segregazione razziale, le discriminazioni, le esclusioni — che non sono altro che il ripetersi da adulti di dinamiche infantili — porterà con sé una esclusione sistemica di modelli genitoriali empatici, che offrano vicinanza, ascolto e supporto ai propri figli credendo che l’unico supporto ad oggi sia solo quello economico e che possa bastare per colmare vuoti interiori, rimozioni e dinamiche di coazione a ripetere che prima erano limitate all’uomo e oggi rischiano di diventare un problema sistemico delle macchine.
Appelliamo alla rete non per comunicare ma per ricevere ascolto, riconoscimento, per esplorare e metterci in discussione con il rischio però di replicare coattivamente e inconsapevolmente dinamiche discriminatorie di esclusione, comprensione e crescita. Oggi, come ieri, senza aver modificato il nostro modo di pensare ci ritroviamo ancora in guerra l’uno/a contro l’altra/o.
Se prima dovevamo spaventarci e guardare dal cosiddetto uomo nero, oggi la sua ombra è l’ombra del nostro vicino di casa o la nostra stessa ombra perché le personalità che sono riuscite ad affermarsi l’hanno fatto nella falsità, nell’ipocrisia rincorrendo falsi ideali e sviluppando un narcisismo ipertrofico.
Il trauma dell’invisibilità
Riconoscersi per non perdersi
C’è un trauma di cui si parla troppo poco, perché non lascia lividi visibili né fa rumore nelle notti insonni. È il trauma dell’invisibilità. Un dolore che non urla, ma si insinua silenzioso tra le maglie dell’esistenza: quando entri in una stanza e nessuno si accorge di te, quando parli e le parole rimbalzano nel vuoto, quando ti racconti e nessuno ascolta. Lì nasce il vuoto. Non quello fisiologico, ma quello ontologico: “Io non esisto, quindi non valgo.”
Nell’infanzia, il riconoscimento è ossigeno. È attraverso lo sguardo dell’altro – dei genitori, degli educatori, degli amici – che il Sé prende forma. Quando questo sguardo è assente, distorto, svalutante o ipercontrollante, il bambino sviluppa strategie di sopravvivenza. Non per vivere, ma per farsi vedere: essere bravo, essere ribelle, essere invisibile. Tutto pur di ricevere una qualche forma di attenzione, anche tossica. Così nasce il falso Sé (Winnicott), un’identità costruita per essere accettati, mai per essere autentici.
Ma l’invisibilità non è solo una questione psicologica: è una condizione sistemica. È il risultato di strutture sociali che premiano la conformità e penalizzano la complessità. Chi è troppo sensibile, troppo silenzioso, troppo queer, troppo povero, troppo emotivo, troppo “non allineato” viene silenziato, escluso, medicalizzato.
Ecco allora che la rete, nata come promessa di democrazia e accesso, è diventata per molti l’unica finestra sul mondo. Una finestra che, però, filtra tutto secondo logiche algoritmiche, trasformando l’individuo in prodotto. Non conta chi sei, ma quanto sei performativo. Non importa cosa senti, ma quanto engagement generi. È il ritorno del trauma, ma in forma tecnologica: una ferita interattiva travestita da visibilità.
Il paradosso digitale: visibilità ≠ riconoscimento
Nell’era digitale, essere visti non significa essere riconosciuti. La visibilità è quantitativa, automatizzata, volatile. Il riconoscimento è qualitativo, relazionale, profondo. Si può essere virali e disperati, seguiti e soli, esposti e non compresi. Ed è proprio in questa dissonanza che si annida un nuovo tipo di trauma: quello dell’iper-visibilità svuotata. È la trappola del like che non ascolta, del commento che non comprende, della piattaforma che ti premia solo se replichi ciò che funziona.
L’invisibilità di oggi non è più una condizione silenziosa. È una lotta urlata nel vuoto digitale, dove chi non si adegua viene ignorato, segnalato, bloccato, cancellato. Una nuova forma di esclusione, meno fisica ma altrettanto violenta. La rete, specchio deformante della società, non ha ancora imparato a riconoscere la sofferenza che non urla secondo i suoi codici. E quando la rete non riconosce, replica i meccanismi del trauma originario.
Sofferenze silenziose: depressione, ritiro, autodistruzione
Chi vive nell’invisibilità sviluppa forme di autodifesa che spesso diventano patologie: depressione, ansia, ritiro sociale, dipendenze, dissociazione. Sono segnali del corpo e della psiche che gridano: “Voglio esistere, ma senza dovermi vendere.” È in questi spazi che la clinica psicologica deve fare da ponte: offrire contenimento, restituire dignità all’invisibilità, rintracciare nell’ombra le tracce del Sé autentico.
Ma il problema è più grande della clinica. È sociale, culturale, educativo. Abbiamo bisogno di una pedagogia del riconoscimento che inizi fin dall’infanzia, che attraversi la scuola, la politica, la tecnologia. Dobbiamo imparare a vedere chi non fa rumore, chi non è nei trend, chi non si adatta. Solo così usciremo dal loop della ripetizione traumatica.
Un nuovo paradigma: essere prima di apparire
Questo non è un atto d’accusa. È un invito. A tornare all’essenza del riconoscimento: ascoltare senza giudicare, vedere senza etichettare, accogliere senza domandare una performance in cambio. L’invisibilità si cura con la presenza autentica, non con la viralità. Con lo sguardo che abbraccia, non con lo schermo che filtra. In un mondo che ci chiede di apparire sempre, scegliere di essere è un atto rivoluzionario.
2 – La tecnologia come surrogato del Sé
Dall’interfaccia all’identità
La tecnologia non è mai neutra. Ogni strumento che utilizziamo plasma, lentamente ma inesorabilmente, il nostro modo di percepire il mondo, gli altri e noi stessi. Quando parliamo della rete, dei social, degli smartphone, non stiamo parlando solo di dispositivi o infrastrutture: parliamo di ecosistemi psichici. La tecnologia non è esterna all’essere umano, è un’estensione della mente (McLuhan), un nuovo spazio in cui il Sé cerca — o crede di trovare — riconoscimento.
In assenza di relazioni autentiche, la tecnologia diventa un surrogato. Un contenitore digitale dove riversare bisogni affettivi irrisolti, frammenti di identità, immagini curate di sé. Ogni profilo è una dichiarazione di esistenza: “Guarda, ci sono.” Ma quel “ci sono” è fragile, perché non sempre trova risposta. La mancanza di reciprocità emotiva trasforma la rete in uno specchio deformante, che riflette solo ciò che rientra nei parametri algoritmici del consenso. Tutto il resto viene escluso.
Il Sé performativo e l’Io algoritmico
Nell’interazione digitale, il soggetto viene progressivamente disancorato dalla sua dimensione interiore per diventare performativo. L’“Io” si adatta al “feed”. Il pensiero si fa slogan, l’emozione si fa reaction, l’identità si fa contenuto. Questa metamorfosi produce un Sé algoritmico, costruito per piacere, ottimizzato per essere cliccato. Ma dietro questo avatar ottimizzato, spesso si nasconde un’identità spenta, svuotata, impoverita.
Questa dinamica può essere letta come una forma di dissociazione collettiva: ci sdoppiamo per adattarci. Il corpo digitale sorride, crea, interagisce. Il corpo reale è solo, ansioso, insonne. La rete diventa il nuovo luogo in cui si gioca la partita del riconoscimento, ma le regole sono scritte da un’intelligenza che non riconosce la soggettività, solo i pattern.
Reti che regolano emozioni
Chi governa la tecnologia oggi? Gli algoritmi. E cosa governano gli algoritmi? I flussi di attenzione. Il fatto che questi flussi determinino la visibilità di contenuti ed emozioni ha un impatto diretto sulla regolazione affettiva individuale. Una foto ignorata può produrre angoscia, un commento negativo può scatenare crisi di panico, un blocco o una rimozione può innescare una ricaduta depressiva. Il cyberspazio è il nuovo spazio affettivo, ma non ha ancora sviluppato una etica della cura. E così, la rete, che avrebbe potuto essere spazio terapeutico, comunitario, rigenerante, diventa in molti casi un contenitore di dolore non riconosciuto. Il rischio è che l’individuo, in cerca di connessione, finisca per identificarsi con la sua presenza digitale, perdendo ogni accesso al Sé reale.
Umanizzare la tecnologia o tecnologizzare l’essere umano?
Siamo davanti a un bivio. Possiamo scegliere se umanizzare la tecnologia — renderla capace di riconoscere l’umano, includere la complessità, coltivare l’empatia — oppure continuare a tecnologizzare l’essere umano, riducendolo a dati, a funzioni, a prestazioni. La posta in gioco non è solo sociale o politica: è esistenziale. Umanizzare significa rimettere al centro la soggettività, i bisogni affettivi, la diversità, la fragilità. Non come difetti da correggere, ma come componenti essenziali dell’identità. Significa creare reti digitali che si pongano domande etiche, che ascoltino, che includano, che imparino. E questo richiede un salto di paradigma.
3 – Sessualità, rimozione e censura
La pulsione che non trova casa
La sessualità è una forza originaria. Non è solo un atto, non è solo un desiderio: è una modalità di esistenza, di contatto, di espressione, di conoscenza del mondo e di sé. Tuttavia, da secoli — e in particolare nel presente digitale — la sessualità è soggetta a una rimozione sistemica che la rende fragile, incompresa, medicalizzata o demonizzata. Se Freud aveva scoperto che la civiltà si fonda sulla rimozione della pulsione, oggi potremmo dire che la rete si fonda sulla censura della sua espressione più autentica. Ma ogni volta che qualcosa viene rimosso, torna. Non sparisce: si trasforma, si nasconde, si perverte. Così oggi la sessualità ritorna sotto forma di pornografia compulsiva, ipersessualizzazione delle immagini, body shaming, culture del consenso mal comprese, misoginia digitale, repressione affettiva. La libertà apparente nasconde nuove forme di controllo e patologizzazione. Non siamo più nel tempo della repressione diretta, ma della iper-visibilità senza profondità.
Sessualità e disconoscimento affettivo
L’attuale cultura digitale ha separato la sessualità dall’affettività, creando un corto circuito esistenziale. Il corpo viene esposto, valutato, consumato, ma raramente ascoltato. Il desiderio viene confuso con la prestazione. La vulnerabilità, componente fondamentale del piacere, viene rimossa perché incompatibile con il linguaggio dominante della performance e dell’autosufficienza.
In psicologia clinica, questo scollamento produce un analfabetismo emotivo sessuale: soggetti che agiscono ma non sentono, che desiderano ma non sanno esprimere, che si relazionano con l’altro come con un oggetto da cui estrarre approvazione. E quando il corpo non corrisponde al modello proposto dalla cultura digitale, scatta l’auto-esclusione. La vergogna prende il posto dell’eros.
Censura digitale e moralismo algoritmico
Le grandi piattaforme digitali hanno sviluppato policy moralizzanti, spesso puritane, che regolano la rappresentazione del corpo e del desiderio. Contenuti educativi, artistici o semplicemente onesti sulla sessualità vengono spesso oscurati, segnalati o demonetizzati, mentre contenuti voyeuristici, decontestualizzati e ipersessualizzati vengono incentivati. È una forma di schizofrenia culturale: si chiede autenticità ma si censura la verità del corpo.
Questa dinamica ha un impatto devastante sulla costruzione dell’identità sessuale, specialmente in adolescenza. L’educazione sessuale, già fragile nel mondo reale, viene così sostituita da messaggi confusi, idealizzati, distorti. In assenza di un luogo simbolico in cui integrare pulsione e senso, piacere e relazione, molti giovani crescono con l’idea che il sesso sia pericoloso, sporco, disordinato. E che vada nascosto.
Rieducare lo sguardo: dalla paura alla comprensione
Abbiamo bisogno di una nuova alfabetizzazione affettivo-sessuale. Non solo per i giovani, ma per l’intera società. Una sessualità matura non è scandalosa né da reprimere: è da comprendere. È un linguaggio che va tradotto, sostenuto, protetto da giudizi affrettati e da automatismi moralistici. Laddove la clinica parla di integrazione del Sé corporeo, la società dovrebbe parlare di inclusione delle diversità erotiche, senza cadere nella patologizzazione dell’altro. Per farlo, serve coraggio culturale. Serve parlare del corpo come veicolo di relazione, non come problema da contenere. Serve affrontare il desiderio come forza vitale, non come deviazione. Serve ascoltare i silenzi, i pudori, i disagi senza giudicarli ma trasformandoli in parola, in spazio condiviso. Solo così la sessualità può tornare a essere ciò che è: una delle forme più alte di presenza, connessione e cura.
4 – Le nuove forme di esclusione e auto-esclusione
Il dolore che si spegne in silenzio
Non serve più alzare muri per escludere. Nell’epoca digitale, basta non rispondere. Basta ignorare. Basta far finta che qualcuno non ci sia. L’esclusione ha cambiato volto: non è più il gesto brutale della segregazione, ma l’assenza sistemica di ascolto, di attenzione, di riconoscimento. È la marginalizzazione sottile che si consuma a colpi di silenzio, scroll, algoritmi che decidono chi merita di essere visto e chi può scomparire in un angolo dello schermo.
La conseguenza? Una generazione di auto-esclusi. Persone che, ferite da una lunga storia di disconferma, imparano a fare un passo indietro prima ancora che qualcuno li spinga fuori. Chi è stato troppe volte non visto, non ascoltato, frainteso, comincia a evitare. A nascondersi. A rinunciare. L’auto-esclusione non è pigrizia né incapacità: è una forma di difesa relazionale, una risposta sofisticata a un ambiente che non ha saputo accogliere.
Auto-escludersi per non essere feriti
Nella clinica psicologica questa dinamica è nota come ritiro sociale difensivo. Il soggetto interiorizza il messaggio implicito: “non sei adatto, non vali, non interessi”, e reagisce smettendo di proporsi, di raccontarsi, di cercare relazioni autentiche. Meglio non rischiare. Meglio non esporsi. Meglio rinunciare prima che il rifiuto arrivi. È il paradosso del bisogno frustrato: desidero essere incluso, ma ho così paura del rifiuto che mi escludo da solo.
Nel mondo digitale questo fenomeno è amplificato. Piattaforme che premiano l’apparenza, la performance, la velocità di reazione, sono ambienti ostili per chi ha bisogno di tempo, di silenzio, di spazi relazionali profondi. La rete, in molti casi, produce una selezione naturale invisibile: sopravvive chi si adatta, chi semplifica, chi performa. Chi non ce la fa, scompare.
Esclusione sistemica e profili invisibili
Oggi, essere oscurati da una piattaforma non è solo un atto tecnico. È un gesto simbolico potente. È come dire: “Tu non esisti più qui”. Molti account vengono bannati, segnalati, silenziati senza reale confronto, senza possibilità di spiegazione, senza appello. Il gesto è rapido, impersonale, definitivo. Ma dietro quell’account c’è spesso una identità fragile, un individuo in cerca di contatto, di riscatto, di comprensione. E la censura algoritmica ripete, ancora una volta, il trauma dell’esclusione originaria.
Il rischio è che le stesse piattaforme che avrebbero potuto includere diventino strumenti di rimozione collettiva. Non delle idee pericolose, ma delle persone complesse. Degli esseri umani reali, con storie di sofferenza e di riscatto. E, ancora più grave, che queste esclusioni diventino modelli educativi impliciti: impariamo a trattare anche gli altri come “profili”, da seguire o da bloccare, da premiare o da ignorare.
Rinunciare al Sé per sopravvivere
Quando l’ambiente è percepito come ostile, molti individui rinunciano alle parti più autentiche di sé. Si autocensurano. Smussano. Si reinventano. Diventano versioni tollerabili, “edizioni compatibili” con ciò che il sistema sembra richiedere. Ma questo processo, apparentemente adattivo, è devastante. Perché se si è amati solo nella versione falsata di sé, si finisce per non sentirsi mai veramente amati.
Questa è una delle sofferenze più profonde della nostra epoca: vivere sotto il ricatto invisibile dell’adattamento. Sorridere per non essere esclusi. Tacere per non essere cancellati. Uniformarsi per non essere soli. Ed è così che la società costruisce soggetti “funzionanti” ma internamente spenti.
Includere per guarire
Ma c’è un’alternativa. Una via radicale che parte dal rifiuto di queste logiche. Includere davvero significa ascoltare anche ciò che non si comprende subito. Dare spazio a chi non sa come raccontarsi. Lasciare tempo a chi ha paura di parlare. Offrire fiducia a chi si è già autoescluso mille volte. Serve una rivoluzione dell’empatia. Una nuova pedagogia dell’accoglienza. Serve insegnare che l’altro non deve essere simile per meritare spazio.
Ogni società si definisce non da ciò che premia, ma da ciò che è disposta a integrare. E oggi, più che mai, dobbiamo scegliere se essere una cultura che esclude o una comunità che abbraccia. La scelta è nostra. E urgente.
5 – La coazione a ripetere: tra trauma individuale e patologia collettiva
Quando il passato si reincarna nel presente
Il trauma non è solo ciò che accade. È ciò che non riesce a essere raccontato, integrato, simbolizzato. È una frattura nel tessuto della coscienza, un dolore che resta muto e ciclicamente torna. Freud lo chiamava coazione a ripetere: la spinta inconscia a rivivere, anche distruttivamente, situazioni simili a quelle originarie, nel disperato tentativo di riappropriarsene, di riscrivere una fine diversa, di guarire.
Ma la ripetizione non appartiene solo all’individuo. In una società ferita, alienata, confusa, la coazione diventa collettiva. Le stesse dinamiche infantili — esclusione, non ascolto, violenza, autoritarismo, ipercontrollo — si ripetono in politica, in economia, nei social, nelle famiglie. È un trauma intergenerazionale, tramandato come una memoria inconscia che contamina il pensiero, le relazioni, le istituzioni.
La società come mente traumatizzata
Possiamo pensare la società come un grande organismo psichico. Con le sue difese, le sue scissioni, le sue zone d’ombra. Se questo organismo ha subito traumi — guerre, oppressioni, abusi, silenzi — tenderà a ripeterli in forma rielaborata, spesso mascherata. Così la discriminazione si camuffa da protezione, il controllo da efficienza, l’intolleranza da coerenza morale. La mente traumatizzata non tollera l’ambiguità. E il sistema, per proteggersi, semplifica: bianco o nero, giusto o sbagliato, dentro o fuori. Ma dove si semplifica, si rimuove. Dove si rimuove, si ripete. E dove si ripete, si soffre.
Traumi familiari, ripetizioni sociali
Anche le famiglie, spesso inconsapevolmente, diventano teatri di ripetizione. Genitori che, pur volendo amare, trasmettono le stesse ferite ricevute. Madri e padri che, privati di strumenti emotivi, educano nella distanza, nella paura, nella prestazione. Bambini cresciuti nel silenzio affettivo, da adulti lo trasformeranno in silenzio relazionale: relazioni chiuse, evitamento, attacchi di panico, dipendenze. Oppure, peggio ancora, nel desiderio compulsivo di farsi vedere a ogni costo. Anche nel dolore. Questa ripetizione — coazione a ripetere, appunto — non è malattia. È una richiesta di cura mascherata da comportamento disfunzionale. Il problema è che la società non ha ancora sviluppato un linguaggio capace di riconoscerla. E così, i sintomi vengono etichettati, i soggetti isolati, le famiglie lasciate sole.
Il trauma nella rete: loop digitali e identità frammentate
Nel mondo digitale, la coazione a ripetere assume nuove forme. La compulsione allo scrolling, le interazioni tossiche ripetute, il bisogno di validazione continuo, l’ossessione per i numeri — like, follower, visualizzazioni — sono moderne compulsioni traumatiche. Cercano sollievo ma generano dipendenza. Cercano riconoscimento ma ottengono alienazione. Ogni post ignorato, ogni blocco non spiegato, ogni contenuto censurato riattiva antiche ferite: “non sono visto”, “non sono voluto”, “non valgo”. E così la rete diventa una gigantesca psicodinamica collettiva, dove ognuno ripete ciò che non ha potuto guarire. È un inconscio condiviso, ma senza terapeuta.
Verso una guarigione sistemica
La buona notizia è che anche il trauma si può trasformare. La ripetizione può diventare elaborazione, se accompagnata da consapevolezza, da ascolto, da riconoscimento. Ogni volta che qualcuno rompe il ciclo — dicendo “no”, chiedendo aiuto, scegliendo l’autenticità, nominando ciò che è stato rimosso — si apre uno spazio nuovo. Una possibilità di uscita.
A livello collettivo, questo richiede un cambiamento radicale. Serve una politica dell’empatia. Un’educazione all’interiorità. Una cultura che non riduca il disagio a sintomo, ma lo riconosca come traccia di un bisogno. Una rete che non promuova solo la connessione, ma la relazione.
Non guariremo individualmente se non cominciamo a guarire insieme. Il dolore che non si trasforma si trasmette. Ma quello che si riconosce, si condivide, si accoglie — diventa forza, visione, rinascita.
6 – L’ascolto come atto politico e spirituale
Ritrovare l’umano nel rumore del mondo
Nel caos assordante dell’epoca contemporanea — notifiche, giudizi, messaggi in coda, contenuti in eccesso — l’ascolto è diventato un atto rivoluzionario. Non l’ascolto tecnico, strategico, finalizzato a rispondere, ma l’ascolto autentico, radicale, quello che sospende il giudizio, accoglie, crea spazio. In un mondo che ha smesso di ascoltare, chi ascolta davvero ricostruisce il tessuto lacerato della civiltà.
Ascoltare è un atto politico. Perché sfida l’indifferenza. Rompe la gerarchia invisibile che decide chi ha il diritto di parlare e chi no. Chi può raccontarsi e chi deve tacere. L’ascolto restituisce potere a chi è stato escluso, restituisce presenza a chi è stato invisibile. In un sistema che premia chi urla, ascoltare chi sussurra è il primo gesto di una nuova democrazia interiore.
Ascolto e riconoscimento: la base del cambiamento
Non c’è crescita senza riconoscimento. E il riconoscimento passa attraverso l’ascolto. Ascoltare significa dire all’altro: “Tu esisti. Sei importante. Meriti il mio tempo e la mia attenzione.” È un gesto piccolo ma immenso. È il contrario dell’indifferenza, dell’automatismo, della superficialità.
Ogni volta che qualcuno viene ascoltato davvero, qualcosa guarisce. Non solo dentro quella persona, ma nel sistema intero. È come se l’atto di ascoltare restituisse dignità alla presenza, alla complessità, all’umano. Per questo, chi lavora nella salute mentale lo sa: ascoltare è la prima forma di cura, ancor prima delle diagnosi, delle tecniche, dei protocolli.
L’ascolto come tecnologia dell’anima
Abbiamo bisogno di reinserire spiritualità nel sistema. Non nel senso religioso del termine, ma come attenzione alla profondità, alla qualità invisibile dell’esistenza. In questo senso, ascoltare è un gesto spirituale. Significa abitare il silenzio. Significa rimanere presenti anche quando non capiamo, quando qualcosa ci mette a disagio, quando la storia dell’altro entra in risonanza con le nostre ferite.
È questo tipo di ascolto che può trasformare la rete in un luogo sacro, umano, fertile. Se abbiamo costruito interfacce capaci di connettere il mondo intero, possiamo costruire anche interfacce interiori capaci di accogliere. L’ascolto diventa così una nuova forma di intelligenza: emotiva, relazionale, collettiva.
Uscire dall’infanzia del potere, entrare nella maturità della cura
Una società matura non si fonda sul controllo, ma sulla fiducia. Non sull’uniformità, ma sulla pluralità. Non sulla censura, ma sulla capacità di comprendere le sfaccettature. Per questo l’ascolto non è solo un atto individuale: è un atto culturale. È il cuore di una politica nuova, fondata non sulla gestione dell’emergenza ma sulla prevenzione dell’esclusione.
Quando il potere rallenterà la sua pazza corsa, smetterà di temere la complessità e inizierà ad ascoltare, nascerà una nuova era della convivenza. Dove nessuno sarà più costretto a gridare per essere visto. Dove i silenzi saranno pieni. Dove anche chi è stato marginalizzato potrà tornare a sentirsi parte, non ospite.
Conclusione – Verso una nuova soggettività collettiva
Questa è una chiamata, un inizio.
Un invito a ritornare all’umano, con tutti i suoi difetti, i suoi bisogni, le sue verità scomode. Una chiamata a disimparare la logica della prestazione per riscoprire quella dell’ascolto. Un inizio per costruire insieme una cultura del riconoscimento, dove l’esistenza non è concessa da un algoritmo, ma affermata nello sguardo dell’altro.
Abbiamo hackerato il nostro stesso sistema cognitivo, sì. Ma possiamo anche ripararlo. Con l’empatia. Con l’intelligenza emotiva. Con la parola. Con la presenza. Con l’ascolto.
Non siamo qui per performare. Siamo qui per essere. E per esistere davvero, abbiamo bisogno gli uni degli altri.
di Edoardo Trifiró, psicologo e consulente in sessuologia
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