22 Novembre 2024
L’ultimo libro di Souad Sbai, dedicato alla storia contemporanea dell’Iran, con la sua approfondita analisi sul periodo post-rivoluzionario fino ai nostri giorni è tra i migliori testi italiani in circolazione che trattano questa materia dirimente per la stabilità internazionale. L’autrice, con lucidità e coraggio, illustra sulle lettere di una vibrante narrazione la storia della Repubblica Islamica nata dalla rivoluzione del 1979, quando, travolta la monarchia laica dei Pahlavi in un turbine di fanatismo e speranze tradite, il turbante prese il posto della corona. Una rivoluzione di portata mondiale che ha girato all’indietro le lancette della storia instaurando quella teocrazia fondamentalista* che, capovolti gli equilibri geopolitici del Medio Oriente, dura ancora oggi.
(nota) *a partire dalla rivoluzione islamica del 1979 si usa definire con questa espressione chi, attraverso interpretazioni letterali del Corano, propugna un ritorno al radicalismo e alla purezza ancestrale dell'Islam delle origini.
*(nota) La popolazione dell’Iran è indoeuropea ed è caratterizzata dall'uso delle lingue indoiraniche. Il termine Persia deriva dal latino Persia, derivando a sua volta dal greco Persís, una forma ellenizzata dell’antico persiano Pārsa che evolve in Fārs nel moderno persiano.
Come si è giunti fino a qui? Tra splendori e miserie quali sono le ragioni che hanno portato alla distruzione del Trono del pavone attraverso la sanguinosa rivoluzione khomeinista? L’Iran, è bene ricordarlo, non è sempre stato così. Seppur tanti, quarantacinque anni di Repubblica islamica sono un caduco interstizio temporale se comparato all’antichità della sua storia. Scaturito dalla mente di Ruhollah Khomeini, il regime teocratico comunemente detto degli ayatollah (o dei mullah in senso spregiativo), risponde al nome di Velayat-e faqih che tradotto lato sensu significa: il potere del giureconsulto. In assenza del XII imam guida dello sciismo e nell’attesa del suo ritorno, il giurista islamico (il faqih) ha facoltà di tutelare e reggere il governo dello stato e di interpretarne la costituzione secondo i dogmi della sharia. Distrutti in un baleno secoli e secoli di quietismo sciita, il pensiero dell’ayatollah Khomeini pone al centro della scena iraniana l’islam politico e sradica i primati del nazionalismo e del secolarismo, portando alla nascita di una forma di governo che per le sue caratteristiche rappresenta un caso unico senza precedenti all’interno del mondo musulmano. Ma è anche un fatto avulso dalla millenaria storia persiana. Il potere dello Stato è consegnato nelle mani della Guida suprema (Rahbar) e della gerarchia clericale (marja' al-taqlid) suddivisa in vari organi, architrave del regime che implementa la sua rigorosa interpretazione dell’Islam sciita, imamita, jarafita, duodecimano.
Per meglio comprendere il periodo storico recente trattato da Souad Sbai in questo libro e per mettere a fuoco gli eventi, occorre soffermarci brevemente sulla cavalcata epocale di questa nazione, chiedendo scusa al lettore per l’estrema sintesi che si rende necessaria data la sconfinata dimensione degli argomenti.
Come tanti nodi della trama di un enorme tappeto, da quattromila anni la storia iraniana racchiude dentro di se un compendio di: civiltà, religioni, imperi, dinastie, invasioni, guerre, rivoluzioni; filosofia, arte, poesia, architettura; conquistatori, indovini, mercanti, eretici, stigmatici, ribelli, profeti, uomini di pensiero, guerrieri, giuristi e leader. Si potrebbe affermare che quella dell’Iran è uno specchio della storia dell’umanità intera.
Durante il corso degli ultimi duemilacinquecento anni l’Iran è stato un impero. La monarchia persiana, tra le più antiche istituzioni del mondo, ha visto susseguirsi al potere decine di dinastie differenti provenienti da ogni dove, in un’altalena di trionfi e cadute, come narrato magistralmente nell’epica nazionale dello Shāh-Nāmeh (il Libro dei Re) del poeta Firdusi, l’Omero persiano. Scià (Imperatore) con la variante di Scià in Scià (Re dei Re) è il titolo dato al sovrano di Persia dal tempo degli Achemenidi, derivante dalla lingua antica e da una somiglianza con il sanscrito kṣatra. Il termine è parte della storia dell’Iran sin dalla notte dei tempi. Per due millenni questa terra, situata all’incrocio delle strade che uniscono l’Europa, l’Asia, il subcontinente indiano e l’Africa, è stata la culla di grandi civiltà pre-islamiche: patria di Ciro, Dario e Serse, di Ardashir, Cosroe, dell’Elam e dello Zoroastrismo; di Anshan, Persepoli e Pasargade, del primo codice dei diritti dell’uomo e delle prime forme di scrittura. Bramata financo dal Grande Alessandro, la Persia si disputò a lungo con la Grecia antica e con l’Impero Romano il titolo di guida dell’età classica in un titanico scontro tra la filosofia orientale e quella occidentale. Furono i Seleucidi a portare i bagliori dell’ellenismo fino alle porte della Mesopotamia, furono i Parti a fermare l’avanzata delle legioni romane e ad uccidere il ricchissimo Console del primo triumvirato Marco Licinio Crasso colandogli dell’oro fuso in gola.
Molto tempo dopo, al termine di una lunga e sfibrante epoca di guerre contro Bisanzio, a partire dal 637, l’Ērānshahr (letteralmente Impero ariano) dei Sasanidi in declino viene invaso dagli arabi musulmani, che dilagano dal sud-ovest e lentamente lo occupano. Dopo due millenni ininterrotti di civilizzazione il predominio della religione di Zaratustra viene scalato dall’Islam sciita, il Corano subentra all’Avestā nel dominio dei testi sacri. Gli sciiti di allora sono degli scismatici, una sorta di setta ribelle che non riconosce il potere dei califfi sunniti, i quali ricambiano perseguitandoli. In principio gli sciiti erano seguaci di Alì, genero di Maometto e sposo di sua figlia Fatima, morto Maometto senza eredi maschi si scatena una lotta fratricida per la successione al profeta. Il culto dei martiri risale alle origini dello sciismo: nel VII secolo l’Imam Hussein e i suoi seguaci vengono trucidati a Kerbela, nell’odierno Iraq, dopo essere stati sconfitti in una guerra senza quartiere per la conquista della testa dell’Islam. Da questo momento in avanti la Shīʿa si percepirà come un movimento di rivolta.
Quasi per miracolo la cultura persiana riuscì a salvarsi e a conquistare gli occupanti. Le scienze matematiche ricevettero impulso, vennero costruiti osservatori astronomici all’avanguardia, i poeti: Omar Khayyam, Saadi e Hafiz composero opere incancellabili, i filosofi: Mir Damad e Mulla Sadra favorirono la sintesi tra sciismo e filosofia greca. Ritiratisi gli invasori mongoli successori di Tamerlano, all’incirca all’epoca in cui Cristoforo Colombo scopriva l’America, lo Scià di Persia Ismail I della dinastia-confraternita Safavide, impose sotto pena di morte, la conversione della popolazione persiana sunnita allo sciismo. Posteriormente ai bagliori di Abbas il Grande e della città di Isfahan detta anche la “metà del mondo”, i secoli successivi vedono aprirsi la via delle Indie e del Golfo Persico, la cessione di Herat al regno d’Afghanistan, i piani di spedizione di Napoleone per prendere agli inglesi la valle dell’Indo, le incursioni sempre più frequenti di Gran Bretagna, Russia e Turchia, sotto gli echi incombenti del Grande Gioco.
Come a voler risorgere da un lungo tempo di oblio, dal XX secolo, questo vasto impero chiamato Stato Sublime di Persia, si colloca sulla mappa del mondo come un territorio che galleggia su un immenso lago di petrolio sotterraneo ambito da molti. Questa scoperta lo risveglierà con il rombo di un tuono dal suo torpore secolare, “Il petrolio è la fonte del nostro benessere e delle nostre disgrazie” mi disse puntualmente un giorno l’Imperatrice Farah Pahlavi durante un’intervista.
Agli albori del novecento l’impero persiano degli Scià della dinastia Qajar versa in una condizione di completa abulia ed è uno dei paesi più poveri e arretrati del globo. Agricoltura, artigianato e commercio avevano un carattere medievale, la durata della vita media era al di sotto dei trent’anni e la disastrosa assenza d’igiene provocava epidemie di peste, febbre tifoide e colera tra la popolazione che per la quasi totalità era analfabeta. Automobili, telefono, elettricità non esistevano o rappresentavano un lusso rarissimo. I Qajari, dei turcomanni calati nel paese dall’Azerbaigian due secoli prima come tribù guerriera al seguito dei Safavidi, in quanto nomadi tardarono a lungo a fissare una capitale con un centro di potere che controllasse l’intero paese. In tutta questa decadenza la sola legge regnante era quella imposta da capi tribali, signori della guerra e latifondisti spesso in lotta con brigantaggio e fazioni ribelli, mentre lo sfruttamento delle risorse naturali era stato ceduto alle potenze straniere. In realtà ai suoi inizi, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, la dinastia ebbe un certo periodo di prosperità che servì ad influenzare la fiorente corrente artistica e architettonica conosciuta come epoca Qajar.
Dal 1906 un evento storico scosse le fondamenta pericolanti dell’impero. La rivoluzione costituzionale (Enghelāb-e Mashrūteh), fu il primo tentativo di modernizzare le istituzioni e permise di superare, tra mille sussulti, l’antico ordine della monarchia assoluta, fondando il Majles (Parlamento) e inaugurando la tradizione politica del costituzionalismo iraniano, durata fino al 1979. Ai vari protagonisti di quella stagione convulsa: Naser al-Din Shah, Mozaffar ad-Din Shah, Mohammad Ali Shah, lo sceicco Fazlullah Nouri, si accompagna una lunga serie di invisibili congiure, tradimenti, colpi di palazzo ed imperscrutabili ribaltamenti di fronte che ben descrivono la sottile ed antica attitudine del popolo persiano nel maneggiare l’arte della politica.
Occorre ricordare come dalla Persia partì il primo afflato riformatore del Medio Oriente, con effetti sul vicino Impero Ottomano e sul nascente movimento dei Giovani Turchi che avrà un peso determinante nelle successive vicende strategiche della regione.
La rivoluzione costituzionale persiana spalanca le porte dell’intorpidita società locale a forze nuove, rimescolando equilibri arcaici tra strutture sociali e valori religiosi tradizionali. Appena due anni dopo il petrolio cominciò a sgorgare a Masjed-e Soleymān nella regione del Khūzestān per merito della pervicacia di un banchiere australiano, William Knox d’Arcy, che disponeva di una fortuna colossale dovuta allo sfruttamento di una miniera d’oro nel Queensland. La provvidenziale scoperta della nafta (termine usato in Persia fin dall’antichità), pose termine a trent’anni di ricerche infruttuose condotte dal barone anglo-tedesco Paul Julius Reuter. I suoi tentativi rimasero vani ed egli vi rinunciò prima di bruciare tutta la sua fortuna, trovò consolazione fondando una agenzia di stampa divenuta celebre in tutto il mondo e che conserva ancora oggi il suo nome.
E’ in quello scenario incerto e tumultuoso che l’avvento di una figura provvidenziale proietta finalmente la Persia nell’epoca moderna. Da lì in avanti il nome di un brillante ufficiale persiano della Brigata cosacca si legherà indelebilmente ai destini del suo popolo. L’uomo, dotato di una statura fisica imponente che sfiora i due metri di altezza, si chiama Reza Khan: è nato nel 1878 ad Alasht, un remoto villaggio della regione del Mazandaran, all’estremo nord del paese. La piccola cittadina è ricca di minerali e di riserve di antracite ma la famiglia dispone di scarsissimi mezzi. Il padre, militare anch’egli, muore quando Reza Kahn ha appena quaranta giorni, pochi anni dopo muore anche la madre a causa del freddo intenso patito durante il trasferimento verso Teheran.
Il giovane, rimasto sotto la tutela di uno zio, entra nell’esercito da adolescente e l’esercito diventa la sua famiglia: le ferrature dei cavalli, l’odore della polvere da sparo, i metodi di impiego delle forze nel combattimento lo forgiano per le grandi imprese della vita. Soldato fin dentro al midollo, come si vede da una foto di gioventù che lo immortala dietro alla sua mitragliatrice trapassata da un proiettile. A quel tempo era anche noto come Reza Maxim, dal nome della mitragliatrice Maxim, primo modello funzionante di arma automatica portatile, che il mastodontico ufficiale di Savadkuh smonta e rimonta in un batter di ciglia. Non sa leggere e scrivere ma in compenso si rivela un’autodidatta dotato di un’intelligenza formidabile che gli permette di vedere oltre l’orizzonte del suo paese in rovina.
La prima guerra mondiale tramuta la Persia in un campo di battaglia per procura dove si fronteggiano turchi, inglesi, tedeschi e russi. Il governo centrale controlla a fatica la capitale Teheran mentre il resto del paese è lasciato al suo destino, non ci sono strade sicure, non c’è più ne’ legge ne’ ordine. Il giovane sovrano regnante, Ahmad Shah, amante del grand tour e dei casinò europei, trascorre buona parte del tempo all’estero disinteressandosi degli affari di Stato che delega ai suoi ministri. Nel 1919 irrompe dal nord il pericolo della Russia comunista, che un anno più tardi occupa la regione persiana del Gilan proclamandovi una Repubblica sovietica. A Teheran e’ rimasta una sola forza armata preposta alla difesa: la Divisione cosacca era stata creata diversi anni prima dallo Zar di Russia per servire come guardia del corpo allo Scià di Persia. La comanda il colonnello Starosselsky, un ufficiale bianco che si e’ battuto contro i bolscevichi nella guerra civile russa e che ora si trova a fronteggiarli in territorio persiano. Il suo pupillo e vice in comando è Reza Kahn al quale gli inglesi, allarmati dall’avanzata dell’armata rossa verso i giacimenti petroliferi, assegnano con successo la testa della Brigata. Al War Office di Londra non hanno dubbi, il generale Ironside telegrafa: Reza Kahn con il suo carisma di ferro è l’uomo forte che può salvare quel paese.
La successione degli eventi è storia recente. Si proclama generalissimo (Sardar Sepah) e, approfittando della paralisi del governo, con tremila cosacchi persiani marcia su Teheran, dove con un putsch incruento assume la guida delle forze armate. Quindi determina la formazione di un nuovo governo di salvezza nazionale di cui diviene Ministro della Guerra e Primo Ministro. Grazie anche ai successi politici e militari contro i comunisti che spazza via dal Gilan, il consenso verso la sua opera di radicale modernizzazione cresce rapidamente. Reza Kahn abbraccia le idee laiche e riformiste di Kemal Ataturk, appena salito al potere in Turchia, a cui affianca i valori del nazionalismo e dell’unità della patria. Il 31 ottobre del 1925 il Parlamento vota per la deposizione dello Scià Ahmad e per la decadenza dei Qajar dal trono persiano. Con una seduta speciale, il Majles, nomina Reza Kahn quale nuovo Scià (tra i pochi deputati che votarono contro vi furono Mohammed Mossadeq, destinato a farsi conoscere dal mondo qualche decennio dopo per la nazionalizzazione del petrolio e l’ayatollah Modarres mentore di Khomeini) .
Nella Persia di quegli anni non esistevano i cognomi ed uno dei primi atti del neo imperatore è proprio quello di introdurne l’uso per avvicinare il paese al mondo contemporaneo. Resta dunque da trovare un nome per la sua giovane dinastia: la scelta cade sul termine Pahlavi dal nome dell’alfabeto medio-persiano derivato dall’epoca Achemenide, tra le più antiche forme di scrittura dell’umanità.
Ripetutamente nella storia bimillenaria della monarchia persiana, nuove dinastie originatesi dal popolo, assurgevano al potere supremo sostituendo quelle precedenti a cui il fluire dei secoli aveva tolto la spinta propulsiva. I Pahlavi sono stati esempio moderno di una casa reale che è riuscita a scalare il potere dal basso, iniettando energie fresche nelle vene di un impero vetusto (d’altronde anche nell’Europa delle corti tradizionali in origine non è andata troppo diversamente, si pensi solo negli ultimi due secoli ai casi dei regni di: Svezia, Serbia, Montenegro, Albania, o addirittura alla Francia bonapartista).
Reza Shah venne incoronato con i titoli di: Scià in Scià, Ombra dell’Onnipotente, Vice reggente di Dio e Centro dell’universo, tuttavia questo self made emperor, nato in una modesta casa di fango *(nota)*come raccontato da suo figlio, lo Scià Mohamed Reza, nelle sue memorie. *, continuò a parlare di se’ come di un soldato rimasto fedele per tutta la vita alle abitudini frugali, che vestiva la bassa uniforme di ordinanza e che dormiva su una branda adagiata sul pavimento.
I Pahlavi salirono al trono tramite votazione del Parlamento in continuità ideale con il costituzionalismo varato pochi anni prima. In qualità di Primo Ministro, Reza Kahn, per accelerare la modernizzazione del paese, accarezzò l’idea di trasformare l’Iran in una repubblica come Ataturk aveva fatto in Turchia sulle rovine del califfato ottomano. Fu l’alto clero sciita a chiedergli di farsi votare come Scià dal Majles e di conservare l’istituto della monarchia che da duemilacinquecento anni permeava la società persiana.
Da qui ha inizio il corso del totale rinnovamento che vede finalmente la Persia affacciarsi all’epoca moderna. Al posto del vecchio nome consegnato alla storia viene scelto quello di Iran, con il quale l’Impero che fu di Ciro il Grande, entra nel XX secolo. Dalla fine degli anni ’20 del novecento il paese viene laicizzato a forza e il potere dei religiosi ridimensionato drasticamente. Viene abolito l’uso del velo per le donne (poi successivamente permesso come scelta individuale), viene introdotta l’istruzione obbligatoria, viene fondata l’università accessibile a maschi e femmine. Per stabilizzare il fronte interno si affermano i concetti di identità e di comunità nazionale che servono a cementare lo spirito unitario e a spegnere le spinte centrifughe del tribalismo. Con l’avvio dell’industrializzazione, allo scopo di dare impulso alla nascente economia energetica, vengono costruite la ferrovia trans-iraniana e le reti stradali per collegare le città ai villaggi. Con le prime entrate erariali, allo scopo di formare una nuova classe dirigente, lo Scià invia in occidente pattuglie di giovani affinché possano studiare nei migliori atenei e nelle migliori accademie militari del tempo. I risultati sono grandi ma per compiere questo balzo in avanti in così poco tempo, Reza Shah, governa con il pugno di ferro un popolo da sempre recalcitrante, inquieto e turbolento. D’altronde, come viene riconosciuto dalla maggioranza degli storici, l’Iran degli anni tra le due guerre mondiali, non poteva essere strappato al medioevo se non con metodi risoluti.
I Pahlavi divengono la confluenza tra una famiglia reale ed una tradizione politica, tanto che il Pahlavismo può essere codificato come la sintesi iraniana contemporanea ai principi di: identità nazionale, sovranità dello Stato, secolarismo, progresso sociale, emancipazione femminile, liberalismo economico, integrità territoriale. Radicata nel costituzionalismo, questa corrente ideologica, trae ispirazione culturale e forza dall’insieme delle civilizzazioni che hanno attraversato la storia dell’Iran nel corso dei millenni.
1941-1979. Le date di inizio e di fine del lungo regno dello Scià Mohammed Reza, il figlio di Reza Shah, la cui figura è così moderna e attuale da rimanere cristallizzata nel dibattito odierno nonostante siano passati quarantacinque anni dalla sua caduta e quarantaquattro dalla sua morte. Lo Scià Mohammed Reza è stato un visionario capace d’immaginare il futuro, un nazionalista convinto ed un amico sincero dell’occidente che conosceva bene per averci vissuto da ragazzo durante il periodo degli studi.
Consolida tra mille difficoltà l’opera modernizzatrice intrapresa dal padre, avvalendosi della grande potenza economica derivata dalla vendita del petrolio iraniano in tutto il mondo. Sono gli anni ’50, l’Europa è in piena ricostruzione post-bellica e il petrolio mediorientale serve per far funzionare tutto, in primis le fabbriche. In Italia, dove non ci sono materie prime per produrre energia, l’Ing. Mattei presidente dell’ENI, comprende immediatamente la necessità di garantirsi il rifornimento petrolifero da agganciare al nascente boom industriale e vola a Teheran per firmare un contratto che spezzerà il vecchio oligopolio imposto dal cartello delle Sette Sorelle. L’impennata del prezzo dell’oro nero consente all’Iran di incassare in pochi anni enormi riserve di denaro che permettono allo Scià e ai suoi governi di varare un grande piano crescita nazionale chiamato: Rivoluzione bianca. Questo cospicuo processo di avanzamento promuove il potenziamento dell’industria pesante, l’abolizione del latifondo con la redistribuzione delle terre ai contadini (nove milioni di persone coinvolte pari al quaranta per cento della popolazione), la scolarizzazione delle masse rurali (istruzione pubblica obbligatoria fino a quattordici anni), lo sviluppo del sistema sanitario nazionale, la privatizzazione delle imprese controllate dallo Stato, il diritto di voto alle donne, il loro accesso al mondo del lavoro e il sostegno economico alla maternità. *(nota) l’Iran ebbe dei ministri donna nei suoi governi, prima che questo avvenisse in Italia
La salita è esponenziale, arrivano commesse e affari da tutto il mondo, si forma la classe media, nascono i primi musei d’arte contemporanea e i primi festival artistici del Medio-Oriente. In politica estera l’Iran stringe una robusta rete di alleanza con gli Stati Uniti, con Israele e con i paesi arabi sunniti divenendo il “poliziotto del Golfo”, incaricato di mantenere la stabilità in forza del più grande esercito della regione.
Nonostante i forti benefici in arrivo sulla popolazione, tutto questo progredire porta alla nascita di forti tensioni e a un diffuso risentimento del clero e di alcuni strati sociali. I religiosi perdono d’un colpo terre e potere, vedono come il fumo negli occhi la rivalutazione delle antiche civiltà pre-islamiche e l’importazione delle abitudini occidentali di una parte della popolazione persiana che viaggia all’estero. La critica che certi media internazionali muovono allo Scià tra gli anni ’60 e ’70 è relativa alla mancanza di libertà politica all’interno dell’Iran e all’azione repressiva della Savak, la polizia politica. In tutta onestà bisogna considerare che prima della rivoluzione islamica del 1979, in Iran, erano consentite tutte le libertà meno quella di manifestare contro il sistema politico e istituzionale vigente, ben diverso da quanto sarebbe avvenuto dopo con l’arrivo al potere di Khomeini e con l’islamizzazione forzata della società.
Il posizionamento geografico dell’Iran in piena guerra fredda, stretto tra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica, comporta l’adozione di misure speciali per prevenire la sovversione comunista e contenere l’espansionismo di Mosca diretto verso oleodotti e mari del sud.
Tra i gli obbiettivi dello Scià c’è quello di attendere che il progresso economico si consolidi tra la gente per poi aprire il sistema politico a profili più liberali e traghettare gradualmente la monarchia verso una forma parlamentare, in coincidenza dell’abdicazione che ha in mente di compiere, al fine di passare la mano al principe ereditario Reza e ad una nuova generazione di governanti. Naturalmente questo piano viene spazzato via dalla rivoluzione islamica. “L’alleanza tra il rosso e il nero”, il clero fondamentalista e le forze di sinistra che si ritrovano improbabili alleati contro la monarchia filo occidentale dei Pahlavi.
Senza la rivoluzione regressiva del 1979 gli indicatori economici stimano che l’Iran dello Scià, agli inizi degli anni ’90, avrebbe raggiunto i livelli di crescita economica della Corea del Sud. Oggi invece il paragone più calzante lo si può fare con la Corea del Nord.
La volontà di trasformare l’Iran in una grande potenza globale e la reale possibilità di farcela, portano il governo a commettere il grave errore di imprimere ai cambiamenti in corso una sollecitazione che la società non e’ in grado di reggere. Allo Scià in Scià Aryamher (dal titolo completo) manca il tempo di completare quel sogno di grandezza e quell’opera di sviluppo epocale, sognata e pianificata nel dettaglio da tutta la vita per il suo popolo. Alla fine degli anni ’70 che l’Iran diventi una potenza mondiale non conviene a nessuno se non agli iraniani.
Protetti dalla discrezione delle moschee, i mullah attizzano il fuoco dell’insurrezione diffondendo le audiocassette con i sermoni incendiari che Khomeini invia clandestinamente dal suo eremo di Najaf. La stampa estera tratta il sanguinario ayatollah con tutti i riguardi, descrivendolo alla stregua di un innocuo monaco buddista.
Quando scoppiano le prime rivolte interne a voltare le spalle allo Scià e a determinarne la caduta non sono le forze armate, rimaste in gran parte leali fino all’ultimo, sono i suoi storici alleati ed amici occidentali. La nemesi è che oggi la storia pare dare ragione a lui.
Alla caduta dei Pahlavi e alla presa del potere di Khomeini seguono tanti massacri tra cui quello dei quadri dell’esercito imperiale, fiore all’occhiello della difesa del Golfo Persico. Ha inizio la dottrina dell’esportabilità della rivoluzione ovunque nel mondo musulmano vi siano minoranze di sciiti. Il fragile equilibrio del Medio Oriente salta come una polveriera. Nel corso del biennio 1979-1980 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan per instaurare un regime comunista a Kabul che genera lo scoppio di un’interminabile guerra civile. Pochi mesi dopo, all’indomani della morte dello Scià in esilio al Cairo, l’Iraq di Saddam Hussein invade l’Iran con un conflitto di confine durato otto anni e mezzo milione di morti. Nel 1982 scoppia la guerra del Libano che vede il regime iraniano degli ayatollah armare le milizie sciite di Beirut in una lotta devastante che si protrae fino ad oggi.
Leggere il futuro è un’attività pericolosa ma cercare di comprendere il presente è più a portata di mano, a farci da guida possiamo avere soltanto l’esperienza storica.
Di Mariofilippo Brambilla di Carpiano
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