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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Maigret, chi sei? E' l'altra faccia del suo creatore, è ciò che Simenon (ma anche ciascuno di noi) non ha saputo essere se non per finta.

Sessanta anni fa il primo sceneggiato con Gino Cervi, la Pagnani e tanti mostri sacri o giovani destinati a diventarlo. Mai un commissario francese era sembrato così italiano, mai un personaggio era stato così simile e così lunare rispetto al suo autore.

30 Settembre 2024

Il commissario Maigret

Sessanta anni fa il primo sceneggiato, allora si chiamava così, la “fiction” come categoria dello spirito televisivo è una scemenza dei nostri tempi, sul commissario Maigret, personaggio d'invenzione, d'accordo, ma allo stesso tempo alter ego, molto alter, di chi l'ha inventato: la parte riversa, e migliore, di Simenon, quasi a dire tutto ciò che lo scrittore avrebbe sempre voluto essere senza riuscirci mai: un “aggiustatore di destini”, uno che dirotta destini, che dall'impunità del crimine li riporta a giusta espiazione, ma senza perdere un grammo d'umanità. Simenon non è mai felice quando vede l'autore di un delitto, finalmente sconfitto, avviarsi verso il carcere che lo inghiotte; non di rado, anzi, prova pena, e finisce per andarlo a trovare in prigione. E questo, Simenon lo condivide, solo che non può viverlo. Certi uomini capiscono tutto degli altri uomini, ma negano tutto di se stessi. In Simenon, come ce lo racconta il suo miglior biografo, Pierre Assouline, non colpisce tanto la depravazione morbida quanto una sorta di viltà felpata, quasi rassegnata mentre il suo mondo va in pezzi, mentre l'adorata figlia segue la china della madre lungo spirali di follia. Non c'è mai uno scatto d'orgoglio, mai una decisione: nel mondo reale di questo inventore di mondi, abissali, contorti mondi, è tutto un lasciarsi vivere, un lasciarsi decidere, una fuga da un posto all'altro, da un castello all'altro per eludere la desolazione che ha dentro e che alimenta una produzione sconfinata. Simenon è inconfondibile, un artigiano sublime, e c'è una profonda onestà nel suo erotismo estetizzante quando racconta la vita: l'ammissione di una condanna, non poter essere che quello che si è. Sballottati dalle sensazioni, le suggestioni dei fili d'erba, dei suoni che diventano profumi che diventano colori. Sinestesie patologiche che sanno pitturare stati d'animo saliti dalla foschia di una pioggia parigina, di una primavera che sboccia.

Solo Simenon può scrivere un romanzo come Le campane di Bicetre, ambientato nel coma vigile di un ischemico che non si annoia un solo istante, anzi da vegetale scopre un altro mondo, fatto di evocazioni, di pensieri, di corrispondenze, di intuizioni, infinitamente più interessante di quello appena lasciato. Questo si chiama giocare in casa! Simenon è così, condannato ad essere Simenon, a donarci le sue voragini. Per questo alla fine lo perdoniamo. La sua scrittura arriva dove lui non sa arrivare, è più leale dell'uomo, è la sua parte spietatamente sincera. Coincidono, l'uomo e la scrittura, ma la seconda lo supera, lo lascia moralmente al palo.

Prendiamo proprio il suo amatissimo Maigret, ormai eroe nazionale in Francia e magari un poco anche in Italia, merito dell'inarrivabile Gino Cervi (Simenon ipse: “E' lui il mio Maigret), per quanto entrambi quasi dimenticati ormai. Maigret non è mondano, è un cane da caccia. Odora di pipa, di casa, di calvados e di pioggia. È un cane da caccia e tu sei la sua preda: non ti darà tregua, non ti mollerà, finché non cederai. Ma piano, senza fretta. Anzi, con simpatia. Affabilmente, sempre. Maigret conosce la fragilità umana, la specchia nella sua: prima di un assassino, un uomo è ancora un uomo; ed è proprio il commissario, in fondo, a farne un assassino: quando l'avrà inchiodato, quando sarà svelato il crimine troppo umano, ricacciato nel fondo della coscienza oscura, finché uno sbirro enorme, quieto, ma spietato, farà il suo dovere: farlo risalire, lungo un filo di fumo, col suo delitto sepolto, dall'abisso che chiama. Maigret è un orso, un cane randagio, non avvisa se tarda, non ha orari né metodi, “io non penso mai”. Per dire che s'impregna di sensazioni, e la sua indagine è lenta: si aggira per le strade, per onirici bar, per i gabbiotti oscuri di portinaie curiose. Un pezzettino alla volta. Stupore su stupore. Pipata per pipata. Non c'è, a differenza dei “colleghi”, il lampo di genio nel buio, la suprema intuizione di chi ha distrutto chi. C'è il lavorìo di chi sa già, sente e non si sbaglia. Quando tutto è compiuto, Maigret crolla. Trova un'altra conferma di quanto poco epico è il male, e può tornare a casa, dalla signora Maigret che lo aspetta paziente, che ha imparato a subire un uomo trascinato dalla feccia qualunque, cui non si può dar tregua. Egli scava nei bassifondi, nelle fogne del cuore, dei porti e della notte, ma a questo cane randagio resta attaccato l'odore di pioggia e di tabacco, di stufa per scaldarsi, di estrema umanità. Adesso va a dormire, piomba nel suo stupore, nella stanchezza atroce: domani sarà sole, e quindi un altro orrore, e fumo di tabacco, e pipe contro il tacco, e storie di marciapiedi, e male senza rimedi, male banale, stanco, vile male normale.

Letto Maigret, uno si convince che non si può andare oltre, che il Simenon migliore sta lì, in quelle impareggiabili scenografie di vita. Ed è un errore, Simenon è da prendere in blocco, sconfinato per quanto è. Tutto insieme, ogni descrizione del clima, ogni camera d'albergo - “Non voglio morire in una stanza di Simenon” -, ogni città, villaggio africano, autostrada americana, ogni nordico fiordo, fino al Polo. Ogni fortunale dell'anima, ogni idillio malato. I suoi romanzi sono di terra, di mare, di notte, di porti, di strada, di neve sporca, di ospedali, di follia, di campagne crudeli, di bordelli, di bilocali, ma tutti cupi, sempre, di una insostenibile violenza interiore, di una irrimediabile solitudine, finiscono sempre male, negl'imbuti del destino, ti si attaccano addosso: quelle tragedie minime potrebbero capitare a te. Capitano, in effetti. Nessuno è un criminale fino a che non ha ucciso. Prima era come te. Tu potresti essere lui. Perso nella incomprensione di te stesso. Allora vorresti che a narrare la tua sporca vita, a spiegartela, fosse un vizioso che però la comprende. Non la giudica, sa che gli uomini sono deboli e meritano, alla fine, uno sguardo di perplessa umanità, uno sfiorarli lieve del braccio mentre li portano via, li rinchiudono per sempre in una cella o nella galera di se stessi, dei propri rimorsi. Sono uomini, nonostante tutto. Restano uomini. E quando, ne L'amico d'infanzia di Maigret, il commissario risponde all'ex compagno di scuola fallito: “Non ho mai giudicato nessuno”, si vorrebbe davvero essere come lui. Salvato dal dovere di stabilire. Salvato dalla schiavitù della definizione e della definitività. Indulgente verso la fragilità che ci impasta, senza per questo risolversi in ipocrita: chi deve pagare, pagherà. Ma senza giudicare, con quel sollievo che non ci abita l'anima. Noi usiamo giudizio e condanna come sinonimi, e invece la differenza è tragica. Non giudicare non possiamo, se non vogliamo rinunciare alla nostra condanna di animali pensanti, al peso della razionalità ma il commissario va oltre, il giudizio sull'umanità l'ha archiviato, perché lo dà per scontato; non malgrado quello, ma oltre quello, si schiude l'orizzonte sconfinato della comprensione. Maigret non giudica, ma aiuta a condannare secondo la legge degli uomini, dura, necessaria. Però il suo cuore è vuoto di giudizio. Non giudico nessuno, dice Maigret, vedo il male per quello che è, e questo è tutto. Non lo immortalo, non lo rendo più solenne di quanto meriti. Non giudico nessuno, perché non serve, non mi spetta, perché ho visto tutto il peggio e ho capito che non è giudicandolo che si rimedia, e non voglio lasciarmi contagiare. Perché possiamo essere, grazie al cielo, molto più piccoli e più grandi d'un giudizio.

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