04 Novembre 2023
Ma vogliamo parlarne? Sì, parliamone, anche se sono passati dieci giorni. Parliamone, perché quello andato in scena il 24 ottobre all’Auditorium Parco della Musica per la festa del Cinema di Roma è un cortocircuito mirabile, irripetibile: tornava, restaurato, “Ciao, Nì!”, primo ed unico film di Renato Zero, opera stramba affidata al regista Paolo Poeti e ad una serie di caratteristi di prima scelta, da Nerina Montagnani (“Ninetto… C’è il caffè!”, con Manfredi, ricordate?) a Carlo Monni, il manager Dollaro, Victoria Zinny, “suor Incatenata”, ad altri, inscatolati in quello “che se ci penso non è neanche un film”. Già. Era una paraculata irresistibile, cruda vissuta incerta, un videoclip di un’ora e mezza per rispolverare i successi recenti, la mitologia in divenire dei Mi Vendo, Il Cielo, La Favola Mia, Triangolo, Sesso o Esse, e tenere in caldo gl’imminenti, Il Carrozzone, La Tua Idea, Baratto, da quell’ “EroZero” che rimane il suo disco migliore, cucito dalle mani sapienti di Piero Pintucci mentre Renato stava a svagarsi in Brasile. Moderno ed eterno, suoni puliti ma sinceri ancora, stupefacenti arrangiamenti, brani epici e fremiti sperimentali come RH Negativo che anticipava la schizofrenia dei dEUS, combo di ambiziosi belgi sulla scia di Frank Zappa. Figuratevi! Era il ‘79, signori: quasi 45 anni fa, e i decenni ormai si pesano in epoche.
“Ciao, Nì”, saluto rubato ad Anna Magnani, intercettata da bambino alla fermata di un semaforo, e mai più tradita, era la doppiezza esaltata e dolente di Zero: uno che davvero ha fatto, e si è fatto, tutto da solo: lo rivendicano in tanti, per lui fu vero, resta vero. Poi per forza primo o dopo accade, arriva il piccolo aiuto dagli amici: ma quella credibilità, quel coraggio sfrontato, erano realmente contro tutto e tutti, a prova di lacrime ed emarginazione. Di botte e incomprensioni. Ogni volta qualcuno da conquistare, a partir da se stesso. Italia vaticana, lui per di più spoliticizzato, che non voleva dire qualunquista, tutt’altro: tra i primi, se non il primo, a cantar di disagio, pedofilia, incesti, disabilità, sesso negato o sprecato. La crudeltà della vita, riscattata dai sogni. Pochi ancora capivano, ci mettevano la faccia: allora andava così, se non correvi a tirar su il pugno alla festa di partito nessuno ti s’inculava; comodo, dopo, farci sopra le canzonette polemiche. Ecco, Renato preferiva una sua folla e una follia davvero inquietante: in “Ciao, Nì” non la nasconde, anzi la vanta: doveva essere complicato andarci d’accordo: nelle sequenze che si alternano ai momenti di concerti, è tutta una girandola di scatti, pose, carezze e schiaffi; insofferenze e tenerezze, nel gioco della finzione più vera del reale arriva a soffrir male i collaboratori, e financo se stesso. È sempre stato lacerato, auto-antagonista. Si è sempre raccontato in sconcertante crudità.
Chi all’Auditorium è un amante antico – sorcino no, mi ha sempre dato fastidio – lo sa, gli altri non possono immaginarselo e neppure gli spezzoni su youtube soccorrono più che tanto: c’era una corrente, un brivido buono e imprevedibile, il pericolo mescolato allo stato di coscienza – difficilmente Renato si è perduto in qualche provocazione fine a se stessa; sopra le righe, magari, ma buttata là, senza un presupposto, mai. Era lucido, offrendo trasgressioni. Chi c’era lo sa. Chi cresceva allora lo sa. Venivamo su sballottati da venti di terrorismo, tensioni italiane e mondiali, il benessere che faceva i conti con le crisi cicliche, noi si cresceva, generazione più fortunata di tutte, prima e dopo, ma nella contraddizione del mar del crescere non era facile lo stesso: famiglie a loro volta confuse tra spinte in avanti e risacche tradizionaliste, l’Italia Paese in bollore che voleva scoppiare senza sapere dove. Verso cosa. Una modernità da afferrare, ma per farne che?
Renato Zero, lì, era uno scoglio, una via di fuga, una certezza. Anticipato e tradizionale, non rinnegava la sua popolanità. Rivestiva di sana pazzia i nostri dubbi, crescere in una metropoli cinica come Roma senza perdere la poesia (Roma, o Milano, o la provincia truce, altro che Pasolini), si capiva quella personalità debordante, da non imitare perché ti saresti fatto male, ti saresti bruciato, però insomma lui c’era e non ci avrebbe mollato. Ogni anno tornava, un nuovo disco, un nuovo tour, altre avventure, altre mascherate e quegli incontri in forma di concerto andavano oltre la liturgia: ti sfogavi e preoccupavi, ti incazzavi e commuovevi, lui sommo sacerdote che temeva la sua forza. Ha sempre cercato di dosare l’impeto, nonostante tutto, sapendo che l’Eroe può essere micidiale, può distruggere senza volere. Dopo è cambiato anche lui. Scorrevano calendari, i nostri insieme ai suoi: si perso e ritrovato, è sparito, è tornato, ha perso molto, ha fatto i soldi, tanti, ha ceduto alla retorica e a volte alle contraddizioni. Immorale, se vuoi, nelle cose piccole, morale nelle grandi. È rimasto: anche oggi, a 73 anni suonati, difende qualcosa di candido, lo mantiene riconoscibile; non c’è divismo che possa asciugare la promessa, “ti vivrò accanto”, l’importante, nel vivere, è che qualcosa resti intonso. Sacro e inviolabile. Anima d’uomo nell’anima del mondo. Lui diremmo che ce l’ha fatta, tutto sommato, e lo ha fatto, penso si possa dire, anche per il pubblico. Soprattutto per quel pubblico che cresceva, invecchiava parallelo a lui: lì c’era un impegno in più, il vincolo del tempo, siglato uscendo dall’uovo: non ci libereremo mai l’uno degli altri: questo è Zero, questo io ti giuro. Chi è arrivato con “I Migliori Anni” non può sapere cos’era stringersi nel Cielo, sotto lo sventagliare d’un mantello di raso da due soldi e un miracolo senza biglietto. Ogni volta era un miracolo. “Ciao Nì”, con il suo passato pesante, è per loro o per noi? Per rimpiangerci o per capire? Sapete, ragazzi, era complicato e a volte terribile essere ragazzi, anche per noi, e anche senza i social. Però era bello, perché c’era Renato. Non eravamo mai davvero soli. C’erano quelle canzoni divertenti che nascondevano la malinconia, piene di un impegno più lieve ma esigente che i soliti inni politici del cazzo. C’era questo matto a dire parole di buon senso, che ti compromettevano. Ti vincolavano. C’era quel provare a crescere, e si alternavano i Natali disperati e poi le estati cariche di promesse mai sincere, anzi piuttosto puttane: ma ricordarle adesso, sotto quelle canzoni, è struggente da non dire. Adesso i concerti sono autocelebrazioni, a volte furbe a volte quasi incredule: davvero, insieme, abbiamo combinato tutta quella vita, tutto quell’amore? Ma un lampo della magia antica prima o poi scocca sempre, con lui che sembra attraversato da una scossa e torna l’eterno inafferrabile, misterioso e vanitoso, contraddittorio, come sfuggisse a se stesso: i vecchi lo sentono arrivare, se ne lasciano travolgere. Questa magia non passerà mai.
Non so se potrete mai avere qualcosa del genere. Renato era il nostro valore aggiunto, e che Dio ce lo conservi perché non fu una storia d’amore con un cantante, è qualcosa che continua anche oggi, un dialogo con noi stessi, mediato da un pazzo che non ha mai smesso di amarci, di farci sentire meno soli. Meno dispersi. E già cominciano per noi le assenze, i frantumi, nel sangue, nelle ossa, nella mente. E già addormentarsi in quella giostra confusa, “non sei più grigio, non sei vecchio, sei quel bambino nello specchio” ti lacera perché è qualcosa che non hai più ma non puoi farne a meno. Ciao, Nì. Non te ne andare. Resta ancora accanto a noi. Noi che non avevamo il tuo coraggio e non abbiamo avuto il tuo destino. Perché non è vero che più passa il tempo e più capisci, e più è facile: è esattamente il contrario, più cose perdi e meno ti orienti e tutto ti suona più confuso di allora. Hai sempre più paura di arrenderti. Di morire senza averci capito niente. E quel vapore caldo sotto il tendone blu, che respiravi in apnea, ti manca, ti manca terribilmente, lo cerchi la notte, che non dormi, e quanto dolore nelle correnti del rimpianto, nei sospetti dell’errore.
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