20 Settembre 2023
Si torna a parlare, sia ringraziato il cielo, di Enzo Jannacci, a dieci anni dalla scomparsa. Lode al cielo e al documentario di Giorgio Verdelli che mette dentro in ricercata rinfusa le testimonianze di tanti e questo va bene, “ci sta”, come usa dire, con che la fai una retrospettiva se non con gli spezzoni dei fantasmi, quelli del protagonista e gli altri di chi gli stava intorno? Va bene, ci stanno i Paolo e Vasco Rossi, i Vecchioni, i Paolo Conte, tutti a dire che era un genio, un genio, l’unico genio. L’Italia è un Paese di unici geni e questa forse all’Enzo di stirpe macedone gli sarebbe piaciuta. Poi magari guardava chi l’ha scritta, e con il complice Beppe Viola, un altro che te lo raccomando, lo infilava di diritto nell’ufficio facce, per dire facce da pirla. Perché simpatico e tutto, va bene, ma uno con la vocazione del surreale e del burlescop oi come fa a non essere anche cinico e all’occorrenza spietato? Jannacci non faceva sconti: a se stesso, agli altri e alla saudade milanese che si portava dentro e buttava fuori canzone dopo canzone. I documentari vanno bene, la memorialistica agiografica è utile, ma non arrivano mai a ricostruire sul serio un carattere, un artista e uno come lui, “cresciuto nella prospettiva periferica di Lambrate”, un cabaret vivente, se non lo collochi nel suo tempo e nel suo ambiente non lo puoi capire davvero e non lo puoi spiegare davvero.
Quella prospettiva periferica di Lambrate noi la conosciamo bene: non tra i Quaranta e i Cinquanta, quando cresce e si forma, lui è del ‘35, ma almeno tra i ‘60 e i ‘70 sì, fu roba nostra, metabolizzata, custodita; almeno se credete a uno che come primo disco, primo 45 giri della sua vita ebbe in regalo Vengo anch’io, ma sull’altro lato c’era il Giovanni Telegrafista e “pirippiripiripirippippì” che metteva addosso una tristezza della Madonna, una roba proprio che ti entrava nel sangue per non andarsene più. E se questa non è santa cattiveria, se questo scavare nella disperazione sottile ma senza scampo non è essere spietati, allora trovatemelo voi un altro più pericoloso.
È che Jannacci ti fotteva con la follia, dinoccolato storto svagato, ti diceva “io sono qui per divertirti” poi lo ascoltavi un attimo e capivi che da divertirsi c’era poco in quei tanghi, quelle filastrocche e lisciate blues di ringhiera, di prospettiva periferica. Ambiguo, come tutti gli unici geni: “Se cominciate a capirmi, ditemelo che sto uscendo dal personaggio”. E ammiccava furbo. Un pazzo, ma calcolava tutto, le isterie e le tenerezze, le gabbie di nebbia della metropoli e gli spasmi di libertà che tanto era impossibile da raggiungere. Folle lucido o calcolatore benevolo? Ovviamente entrambi, chi l’ha detto che non si possa essere disadattati sapendolo? Jannacci dà l’idea, anche dal documentario di Verdelli, di un direttore del circo, uno che li dirige tutti, anche il Fo, anche il Gaber, ma resta al di fuori, ogni tanto fa il numero ma preferisce osservarli, indirizzarli, come con Cochi e Renato. Dal Derby agli altri locali fumosi e malfamati della Milano d’oro, dove potevi trovarti in platea Turatello con la pistola madreperlata e pensavi: se questo adesso non si diverte, se lo annoio, capace che mi fa saltare la testa.
A questo punto io dovrei parlarvi di cosa fosse quella Milano con dentro Jannacci e viceversa, e non so, francamente, se ci riesco. Direi una metropoli felicemente crudele, dove c’era posto per tutti, la seconda invasione, dei “terroni” dopo quella contadina di inizio secolo, poteva assorbirla senza traumi e anzi dava a tutte quelle masse foreste un ordine sociale, che la sociologia avrebbe chiamato, in modo sprezzante, “inurbazione”, ma son di quelle formule che usano gli intellettuali per rifiutare realtà che a loro repellono; bastava dire un gran casino, che ribolliva ogni giorno di più, le periferie facevano schifo, ma, vedi caso, nessuno tornava mai al borgo, salvo i quindici venti giorni d’estate che non vedeva l’ora passassero. Aveva scoperto, tutta quella brava gente senza indirizzo e senza futuro, l’illusione almeno di un futuro, aveva capito che correndo correndo, anche senza sapere per dove, per cosa, ci si poteva costruire su il sogno, l’ascesa dal sottoproletariato agreste o marinato alla piccola borghesia di Lambrate dove potevi incontrare l’operaio, il chirurgo, l’assessore omosessuale. Anche Enzo era chirurgo, non si è mai capito se come primo o secondo lavoro. Forse i geni unici possono fare più cose e tutte con la medesima serietà imbizzarrita, apparentemente caotica ma improntata a rigoroso scrupolo. Studia con Barnard, il divo chirurgo, il primo a fare un trapianto di cuore, e suona con Chet Baker: chi è questo Jannacci che va allo stadio, a tifare il Milan, con una scuffia alla Greta Thunberg, personaggio che lo avrebbe divertito, e pretende di avere il suo seggiolino semplicemente firmandolo? È uno che suona, organizza, crea, produce, cura, si scatena nella Milano degli ottimisti e degli scalmanati, dei primi travoni che suscitano scandalo e attrazione e delle disgraziate salite dal profondo sud e messe a battere dal marito pappone, sconto per gli amici e gli zanza, i piccoli delinquenti che posson sempre tornare utili nel termitaio feroce; qualcuna si adegua, qualcuna non ce la fa, scappa, torna al paese oppure si fa ammazzare dal marito magnaccia oppure lo ammazza lei. Per dire della Metropolis babelica in cui, e dove sennò?, a un certo punto comincia il terrorismo brigatista, i primi roghi, le fabbriche nel mirino, le macchine arse, l’incendio della prateria, nella prospettiva periferica di Lambrate salterà fuori uno dei covi più importanti, nel ‘78, in via Monte Nevoso, dove in nove custodiscono il memoriale Moro, ci sono i pezzi da novanta come Azzolini, come la Mantovani, va e viene anche il capo Moretti che però lo lasciano stare, Dalla Chiesa non lo prende e un po’ perché non vuole, gli serve ancora libero per capirne di più, e un po’ perché non può, deve aspettare altri 2 anni quando, con la scusa della soffiata di un tossico, lo prendono a duecento metri dalla Stazione Centrale.
A Lambrate si agita anche Vallanzasca, il bandito della Comasina che poi si è trasferito in altre prospettive periferiche e finirà per giocare a pallone con la testa di Turatello; o era il vice, l’Ugo Bossi? Va beeh, comunque la madre ha una merceria in via Porpora e lui sa molto anche dei terroristi nel quartiere, che peraltro ribolle anche di fascisti e di elementi dei Servizi: due giorni dopo via Fani, il duplice omicidio di Fausto e Iaio, i diciottenni del Leoncavallo, per mano nera, mitragliette sotto gli impermeabili a fibra di vetro, forse è stato Carminati quello dei Nar, er ciecato, ma non si arriverà mai a niente. Fausto abita anche lui in via Monte Nevoso, frontale al covo, se si affaccia dalla sua camera lo vede come lo vedo io, che ho 14 anni e non ci penso, ma mia madre, che soffre d’insonnia e la notte si alza a bere, scorge sempre quella tapparella rotta, di sbieco, da cui filtra la luce e, da donna suggestionabile ma istintiva, ci ripete: e io vi dico che lì dentro ci son dei brigatisti.
Dieci anni prima, altri banditi. La banda Cavallero e lì andate a leggervi, subito, il libro di Giorgio Bocca che parte dai balordi torinesi, della barriera di Milano e arriva all’affresco della grande puttana città. Dove, nel ‘67, nel pieno di una rapina in fuga, a mio padre che nel fntaasmagorico bordello meneghino corre, come tutti, appresso alle rate, ai Natali consumistici, agli impegni che non portano a niente, capita una raffica di mitra che lo spettina: sono loro, quelli di Cavallero, inseguiti dalla polizia, “Milano spara”. Lui torna a casa sotto choc e fa a mia madre: per venti centimetri non sei vedova. E l’Idroscalo, “il mare dei poveri di Milano”, con i puttanoni materni ma a loro modo pericolosi, il mare di roulotte che non si muovono, inchiodate lì a vita, e il Ragno d’Oro, alle Varesine, dove si fa l’usura e il racket delle troie ed entri solo se i picciotti mafiosi fermi davanti in macchina ti fanno passare. Tutta la merda e tutta la gioia, frenesia e squallore, corri, corri e la sera rintanato in casa con Dorelli e Mike Bongiorno, a sognare le coscette corte della Carrà. E la domenica il Milan, il derby con L’inter, Rivera e Sandrino, da qualche parte seduto c’è anche l’Enzo con qualcuno della sua cerchia di impossibili. E quando tutto è finito, quando si risale sui tram per sparpagliarsi verso le proprie tane, non c’è posto più disperato di San Siro, di Lambrate, di Metropolis dove il cielo manzoniano, così bello quando è bello, nessuno lo vede mai. Perché è un posto che sembra insopitale, però poi ti abbraccia, però resta distante, però ci sei dentro, non sei mai estraneo, però puoi anche sentirtici la persona più sola del mondo. Milano non è Roma, non ha quel torpore maestoso, le sue mura sono spagnole, non latine che puzzano ancora di sangue, e non è Torino aspra e ventata dalle Alpi, dominata dalla Fiat e da Agnelli, e non è Napoli dove tutto è possibile perché niente è reale; Milano asburgica è la locomotiva di un Paese ferocemente vitale che non sa dove corre ma non rallenta mai e offre occasioni di lacrime nere e di risa amare o crudeli o fuori di testa. Ha, dicono, “il cuore in mano” ma a volte, spesso, è un cuore scuro e devi arrangiarti a farlo funzionare. E la domenica, quando tutto si ferma e funzionano i cinema e i ristoranti e il centro si riempie, gliela vedi addosso a tutti la maschera della noia, Dio fa’ che passi subito anche quest’altro giorno inutile così domattina ricominciano a rotolarci, a correre senza sapere perché ma pur di farlo.
Adesso ditemi voi due cose: se uno come Jannacci poteva venir fuori altrove, e se poteva mai non venir fuori, lì dove ha vissuto, ha immaginato, ha pianto. Ha respirato polvere d’amianto e di prato, di fretta meridiana e di indolenza notturna. Bislacco umano feroce: “Ho visto più gente guarire per la compagnia di un gatto che per le medicine”, ma canzoni come Vincenzina e la fabbrica ti ammazzano. Per non dire di quell’altro così a mal partito che si vende anche la radio e il ricco lo consola di merda, come sanno fare i ricchi, “se me lo dicevi prima…”, “sì ma io sto male adesso”. E non c’è rimedio, non c’è speranza. Jannacci politico, schierato, forse anche perché si porta dietro il destino da migrante, quelle origini balcaniche: per questo a Canzonissima, dove è primo con “Vengo anch’io”, l’inno delirante dell’emarginazione, decide di ripresentarsi con un’altra elegia sul tema, “Quando gli zingari arrivarono al mare”: fiasco totale, precipizio, ma lui trova luce per un’altra delle sue: “Neanche ultimo, penultimo”.
Queste cose nessun documentario per quanto ottimo può tirarle su. E la verità, che non si dice ma c’è, è che alla fine anche lui era stato messo da parte, come quasi sempre accade per i geni unici. Sì, adesso rimpiangiamolo pure, esaltiamolo pure, ma non c’era più tempo per lui perché era un altro tempo e un’altra Milano, più da bere. Da bere di merda. Però è vero che non ne fanno più così. Questa ve la affido di prima mano, in aereo accanto a lui c’era mio padre e Jannacci si annoia: chiama la hostess: signorina, mi porta un caffè? Signorina ma è freddo. Signorina ma è lungo. Signorina ma è cattivo. Signorina ma c’è dentro qualcosa. Signorina ci voglio il latte. Quando lei è sull’orlo del precipizio, decisa ad aprire il portellone per buttarsi giù, la richiama: “Signorina!”. “Cosa c’è?”. “Niente, gioia, scusami, ti voglio tanto bene”, e le fa una carezza, dolcissima, struggente come San Siro quando i giocatori e i bagarini e i bancarellari sono spariti e anche l’ultimo tram va via.
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